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La rivoluzione e il suo "anello debole"

[…] A volte ho grosse difficoltà a seguire le vostre argomentazioni. Addebito questo problema ai temi da voi trattati - sicuramente controcorrente – e non certo alla maggiore o minore abilità nello scrivere su di una qualsiasi questione. D'altra parte, basta ascoltare certi "intellettuali" alla televisione, o leggere certi articoli "culturali" che appaiono giornalmente sui quotidiani e riviste varie, per rendersi conto che il problema non è mai del come ma del cosa si scrive e, di conseguenza, del cosa si vuol leggere.

Ciò che particolarmente mi colpisce è il tentativo di vedere in un'angolazione assai poco comune le cose di sempre; lo sforzo di cogliere gli invarianti (mi sforzo di ripetere a braccio quanto da voi ripetuto molto spesso sulla vostra stampa) nelle loro trasformazioni. Indubbiamente non poco dovrà essere il lavoro da parte vostra, per fare in modo che questa affermazione non risulti una frase vuota. Trovo molto positivo, in ogni caso, lo sforzo di riaffermare i principi del comunismo rivoluzionario, che da un secolo e mezzo conservano la loro vitalità, in modo tale da risultare utili strumenti per la lettura del contingente periodo storico in cui viviamo e non soltanto, dunque, come sterili proclamazioni di fede.

Desidero sottoporvi una mia perplessità derivata dalla lettura di Russia e rivoluzione nella teoria marxista, di Amadeo Bordiga. Più volte, viene ripetuta l'affermazione (ripresa fra l'altro, dice il testo, dal Mehring) che la rivoluzione non va da Oriente verso Occidente, ma da Occidente verso Oriente. Fino a non molto tempo fa, trattando dei problemi relativi alla rivoluzione russa del 1917, consideravo sempre – con Lenin, mi sembra, e con i comunisti del tempo – che l'instaurazione dello Stato dei Soviet nel territorio russo fosse dovuto al fatto che si erano "incontrati" due elementi per la soluzione positiva della crisi dell'impero zarista:

1. il soggettivo intervento del Partito bolscevico all'interno del processo rivoluzionario mondiale, decisivo per l'esito dello scontro in Russia;

2. l'anello debole dell'imperialismo mondiale, appunto la Russia.

La mia perplessità deriva dal fatto di non riuscire a risolvere quella che mi sembra una contraddizione fra l'uso del concetto di "anello debole" unito a quello di "rivoluzione mondiale". Mi sembra che l'uno possa incrinare la solidità dell'altro.

1) Se si impernia il discorso sulla rivoluzione russa attorno al concetto di anello debole, allora (così mi viene da pensare) la possibile comprensione del problema deve cadere attorno ad una concezione localistica, e allora addio intervento soggettivo del partito mondiale, figlio della rivoluzione mondiale.

2) Se, contrariamente a quanto detto sopra, faccio ruotare il discorso attorno a "la rivoluzione marcia da occidente ad oriente", il discorso deve cambiare radicalmente. Pur rimanendo sempre presente il precedente magma incandescente del capitalismo mondiale, la rivoluzione, che deve por fine a questa società divisa in classi, rimane una, ed una sola. Per tale motivo, quanto è successo, ad esempio, nel 1870 a Parigi o nella Russia zarista col 1917, non sono altro che avvisaglie, momenti di rottura nell'incedere quotidiano nella vita della specie umana.

Agli esempi storici ricordati, credo che dovremmo aggiungere pure i grandiosi sconvolgimenti sociali che hanno coinvolto l'Asia e l'Africa: sconvolgimenti che dovremmo considerare grandiosi non per quello che i suoi protagonisti credevano di star facendo, ma – e qui ripeto quanto da voi sostenuto – soprattutto per quello che essi erano costretti, dalla dinamica del corso del capitalismo, a fare.

La rivoluzione diventa dunque un ininterrotto processo che arriverà a positiva soluzione in un "momento" la cui datazione non importa più di tanto. Importante, invece, diventa la conseguenza di una simile premessa. Se il processo è uno, se la rivoluzione è una, allora uno e unico dovrà essere l'organismo consapevole di quanto succede: uno ed unico dovrà essere l'organismo che consapevolmente trarrà le indicazioni dal movimento reale e le tradurrà in indicazioni precise (politiche ed organizzative) all'insieme del proletariato. Dal punto di vista formale si potrebbe benissimo collocare il concetto di "anello debole" all'interno del concetto "rivoluzione come processo unico". Però non considerate questo aspetto, perché in rapporto a quanto ho cercato di illustrarvi, mi sembrerebbe un vuoto formalismo.

La domanda conclusiva diventa dunque: forse che sbaglio se vedo una specie ci contraddizione fra il concetto di "anello debole" e quello di "rivoluzione come processo unico"?

 

L’osservazione di Lenin sull'anello debole che, in una catena sotto tensione (rivoluzionaria), salta prima degli altri, non è tanto un "vuoto formalismo" quanto il ricorso ad un'immagine immediata e comunicativa, anche se non rigorosa. La rivoluzione russa ha prodotto un lessico che le corrispondeva, cioè influenzato dal suo carattere doppio. Le ragioni che portano ad una simile formulazione non ci sembrano contraddittorie ma chiaramente determinate. Tanto più che proprio Lenin aveva una concezione opposta a quella localistica e si attendeva l'aiuto della rivoluzione che da Occidente stava marciando proprio verso Oriente, dalla Comune di Parigi in poi. Tra l'altro, la vecchia guardia bolscevica veniva quasi tutta dall'emigrazione, e le sue radici spiegano l'eccezionale tempra internazionalista del periodo migliore. Le varie rivoluzioni si possono intendere come un processo unico che va dall'ultimo cambiamento a quello successivo. Addirittura, se vogliamo ragionare in termini di continuità e di invarianza, possiamo intendere così anche l'intera serie delle rivoluzioni che hanno scardinato uno dopo l'altro, nella storia dell'umanità, i modi di produzione che si susseguivano. Purtroppo abbiamo a che fare anche con un linguaggio consolidato: sarebbe bello poter utilizzare il termine "rivoluzione" soltanto per il cambiamento di modo di produzione e ricorrere a "insurrezione" negli altri casi, ma i processi storici posseggono la forza di imporre un loro linguaggio, che in Russia assunse aspetti ibridi.

In Russia vi fu una rivoluzione doppia, cioè si verificò quella che Marx chiamava "rivoluzione in permanenza", per cui una rivoluzione critica sé stessa e viene portata ad un livello più alto: in quel caso la rivoluzione democratica maturata negli anni fece esplodere l'insurrezione diretta dal partito comunista. Il quale dovette assumersi compiti ancora arretrati (alleanza di classe con i contadini, ma Lenin preferiva chiamarla "saldatura"), e quando la sua direzione fu sconfitta rimase sul campo soltanto la crescita capitalistica contro i vecchi rapporti patriarcali. Perciò vi furono, sì la rivoluzione democratica, ma anche insurrezione nel tentativo di saldarsi alla rivoluzione mondiale; fallito questo, la rivoluzione "russa" dovette retrocedere e rimase capitalista.

D'altronde, formalismo o meno, è vero che il problema che poni va ben al di là di questo: si tratta di intendere che cosa significa rivoluzione, anche nella sua grande accezione storica, e qui tocchi un tasto delicato perché è ben difficile trovare qualcuno che non ne abbia una concezione assai semplificata, nella migliore delle ipotesi. Non staremo qui a ripetere i molti punti fermi della teoria marxista sulle determinazioni materiali che demoliscono di continuo "lo stato di cose presente"; ci soffermeremo soltanto sul concetto di rivoluzione come processo unico dall'avvento di una formazione economico-sociale a quello della successiva.

E' noto (dovrebbe esserlo) che Marx vedeva il motore delle rivoluzioni nello sviluppo delle forze produttive che ad un certo punto si scontra con i rapporti di proprietà e la sovrastruttura formale del potere di classe quando questi da stimolo diventano freno. Nella concatenazione di eventi che preparano quello decisivo (il punto di catastrofe), possono essere spinte alla ribalta di volta in volta forze sociali non direttamente interessate ai risultati della rivoluzione, come successe in abbondanza durante la Rivoluzione Francese. Possono anche essere coinvolte aree ancora immature rispetto alle esigenze più avanzate del cambiamento, come si verificò in Russia. Difficile che il caotico svolgersi di avvenimenti in grado di spazzare via le vecchie società segua percorsi lineari. L'importante è che il processo sia guidato, diretto, dalle forze sociali che rappresentano il futuro del movimento (Lenin, Due tattiche), altrimenti nessuna rivoluzione avrà sbocco positivo… fino alla successiva esplosione.

Ora, cosa avvenne in Russia? La rivoluzione borghese sfociò in una insurrezione che nello stesso tempo produsse organismi politici proletari in grado di essere diretti dal Partito Comunista. Lenin chiamò questa situazione "dualismo di potere". Non è la formula che ci interessa, bensì la situazione reale che era senz'altro esplosiva, assolutamente originale, e che scombussolava ogni previsione, persino quelle formulate nelle Due tattiche, dove pure si diceva che in Russia era matura una rivoluzione in cui rientrassero non solo i compiti attuali, popolari, ma anche quelli futuri, proletari e comunisti. L’Ottobre rese invece possibile anche la guida diretta e senza mediazioni del partito comunista.

In Lettere sulla tattica (aprile 1917) Lenin insiste sulle potenzialità oggettive che spingono ad una soluzione proletaria dei problemi: la guerra e la fame; ma aggiunge che il segno più evidente di una rivoluzione, "sia nel senso rigorosamente scientifico che nel senso pratico-politico del termine", è il passaggio di potere da una classe all'altra. Ebbene, in Russia nell'aprile la rivoluzione borghese era "già terminata": ora era in corso il passaggio del potere al proletariato (che doveva assumersi anche i compiti della rivoluzione borghese).

Infatti Lenin precisa: la rivoluzione è un processo storico determinato, l'insurrezione è un'arte (che nella precisazione della Sinistra Comunista diventa rovesciamento della prassi). L'accezione rigorosamente scientifica è quella della rivoluzione in senso lato di cui parlavamo prima, l'accezione pratico-politica è la preparazione dell'insurrezione, del momento locale, che nel caso specifico è "anello debole" di un più vasto movimento. Continua Lenin: non solo la situazione è del tutto originale, ma le previsioni del partito hanno avuto verifica storica solo nel loro insieme, mentre in"le cose sono andate in maniera diversa". Quanto diversa il "pazzo d'aprile" lo disse scendendo dal treno alla stazione di Finlandia, con ancora in mano il mazzo di fiori portogli dalla delegazione del governo provvisorio cui voltò subito la schiena rivolgendosi alla folla: "Compagni, soldati, marinai, operai! Sono felice di salutare in voi la rivoluzione russa vittoriosa, di salutarvi come il distaccamento d'avanguardia dell'esercito proletario mondiale… La guerra di rapina imperialista è l'inizio della guerra civile in tutta l'Europa… L'alba della rivoluzione socialista mondiale sorge… In Germania tutto è in ebollizione… Da un momento all'altro potremo assistere al crollo di tutto l'imperialismo europeo… La rivoluzione che voi avete compiuto non è che l'inizio e ha posto le fondamenta di una nuova epoca. Viva la rivoluzione mondiale!".

Sappiamo che queste aspettative, più che giustificate allora, non ebbero seguito: il motore d'Occidente si spense malamente e la scintilla russa si accontentò di accendere l'accumulazione capitalistica. Ma il succedersi dei fatti conferma il concetto, da te ricordato, di rivoluzione come processo unico, di cui gli episodi accennati non sono che momenti.

Immediatamente – siamo ancora in aprile, subito dopo le celebri Tesi – la situazione oggettiva è legata da Lenin alla formazione del partito, il solo agente consapevole della rivoluzione: localmente saldatura con i Soviet (cioè loro direzione), internazionalmente partito mondiale (denuncia della degenerazione kautskiana di Zimmerwald, proposta per una III Internazionale). Questa fu la "realizzazione" più difficile e abortì quasi subito per le ormai da noi studiatissime ragioni, prima fra tutte l'impossibilità di formare un organismo unico al posto dell'accozzaglia di partiti federati.

Tu dirai: ma se non è stato possibile il partito, proprio il nostro patrimonio teorico c'insegna che allora non era possibile la rivoluzione comunista (come momento pratico-politico). Esatto. Solo che, come dice Trotsky, le rivoluzioni non possono fermarsi a fare considerazioni su sé stesse mentre la società intera esplode. Infatti noi, retrospettivamente e con l'esperienza accumulata dalla Sinistra Comunista, siamo ben lungi dal mitizzare la Terza Internazionale. Il partito mondiale unico e organico nelle sue articolazioni locali non esiste ancora, ma non potrà mai più essere un doppione di partiti democratici già condannati dalla storia.

(Doppia direzione pubblicata sulla rivista n° 4 - giugno 2001.)

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