Stampa questa pagina

Del finalismo materialista - Riunione sbobinata

(Torino, 27 settembre 2002 - registrazione)

[Preambolo sulla copiosa corrispondenza fra cablati a proposito di finalismo deterministico. Riferimenti bibliografici (Lalande, Amsterdamski, Thom e doc. da Internet). Anticipazione sui fenomeni di omeostasi, cioè di autoregolazione che "finalizza" il comportamento di uomini e macchine. Siccome la riunione è più che altro una chiacchierata per fissare una traccia, questa non è una sbobinatura completa ma una sintesi. È stata aggiunta qualche integrazione].

Abbiamo prima di tutto un problema di definizione. La terminologia registra: fine, fine ultimo, scopo finale, causa finale, finalismo, finalità, teleologia, teleonomia (Monod) e ora ci siamo inventati teleodinamica (Viride). Finis propriamente vuol dire termine o limite. Fines (o limites) sono anche le frontiere. Significati ulteriori: cessazione, punto in cui ci si ferma, compimento, perfezionamento di ciò che si voleva realizzare, l'evento stesso che si intende realizzare, scopo (e anche idea dello scopo), intenzione, specifico orientamento di una tendenza. Destino in quanto destinazione di un processo, di una dinamica, di un essere vivente, ecc..

La fine si contrappone inizio. Conclusione di un evento o fenomeno nel tempo. Confine di un oggetto nello spazio (in questo caso precisando che esso è usufruito o percorso nel tempo in vista del raggiungimento dell'ultimo elemento che ce lo fa percepire). Il fine (notare l'articolo) si contrappone a mezzo (tralasciamo per adesso l'implicito dualismo a-dialettico contenuto nel metodo delle contrapposizioni), cioè il tipo di azione o strumento adatto per raggiungere lo scopo. Ovviamente ogni definizione è irrimediabilmente tautologica: il fine è lo scopo.

Tralasceremo gli argomenti già parzialmente trattati qui e nella corrispondenza. Nel corso della riunione speriamo anche di riuscire a spiegare perché ci serve un neologismo di fronte alle concezioni correnti. Ma facciamo un po' di storia (parte già sviluppata nella corrispondenza dei compagni, solo bisognevole di qualche integrazione).

La distinzione fra causa efficiente e causa finale risale ad Aristotele. Ma è nella scolastica medioevale che fra le due diventa più interessante l'apparente ossimoro: causa finalis (es. in Abelardo). Come può una causa essere finale? Nella concezione corrente la causa è l'inizio di un dato processo che termina in un fine. Diciamo normalmente che un segmento della storia (o fenomeno come parte della dinamica della natura) ha un inizio ed un fine. La causa finale è l'elemento necessario per spiegare un processo attraverso la conoscenza dei mezzi adatti a raggiungere un fine. Ma cos'è un fine?

Raccolta di definizioni di "fine" da Tommaso d’Aquino (i corsivi sono nostri):
Contrario di infinito: L'anima umana non ha fine alla sua esistenza.
Fondamentale e opposto a esistenza: Fine quanto all'essenza.
Perfezione: Ciò che è ottimo in ciascuno è il suo fine.
Scopo dell'azione umana: Non è altro che ciò per cui le altre cose sono fatte.
Causalità: Ciò a cui tende l'azione di un agente.
Può essere l'inizio, se è voluto: Non è il principio, se ciò non è nell'intenzione del motore.
Livello superiore: Si chiama fine per eccellenza quella che è lo scopo degli altri fini.
Dare per avere: Lo scopo dell'essere che agisce, p. es. il guadagno dell’architetto (Finis agentis).
Progetto: Lo scopo del suo atto, p. es. la casa che egli costruisce (Finis operis).

Non solo in Tommaso la causa finale è annebbiata dalle varie definizioni. Naturalmente per gli scolastici l'espressione (qualche volta al plurale, "cause finali"), assumeva un significato che era più generale delle singole definizioni ed era utilizzata per dimostrare più che altro l'esistenza di Dio come architetto dell'universo. Questa gente aveva un cervello di buon calibro, non ottenebrato da presunzione "scientifica" moderna: scientificamente riconoscevano la necessità di non osservare i fenomeni come dovuti aprioristicamente ad un disegno divino, cioè riconoscevano il fatto di non mettere volontaristicamente Dio nel meccanismo della natura; ma una volta osservata scrupolosamente quest'ultima, come non riconoscere che tutto è mirabilmente disposto "con ordine, con intelligenza, con previdenza"? Come non credere a una causa intelligente al di sopra di tutto? Non potevano evidentemente aver letto Kauffman e le teorie dell'autocatalisi dell'universo, le teorie della formazione spontanea di ordine dall'apparente caos della materia.

La causa finale, in questo senso, sarebbe diversamente interpretabile rispetto alla causa efficiente degli antichi. Noi abbiamo difficoltà ad assorbire il significato di entrambe perché intendiamo per causa un processo moderno, cioè intendiamo un qualcosa filtrato attraverso la meccanica cartesiana e il positivismo, la scienza capitalistica e il determinismo marxista. Ma il concetto scolastico, se abbiamo capito bene (bisognerà approfondire) è più vicino a quello modernissimo dei processi non lineari e autoreferenti (oltre K. anche altre teorie della complessità). Infatti causa finale non ci sembra affatto sinonimo di finalismo, ma qualcos'altro di più profondo e meno mistico che potremmo riassumere così: "la causa finale è quel processo deterministico che, con l'occhio ad un risultato, produce da sé gli strumenti, i mezzi e le procedure adeguati al raggiungimento del risultato stesso". Oggi diremmo un progetto.

Naturalmente in questa definizione è nascosto un paradosso, perché è chiaro un effetto "bootstrap" (quello insito nei computers quando per avviarsi utilizzano un software autoreferente, vuol dire "sollevarsi tirando i lacci delle proprie scarpe" ed è tutto quel frullare che si vede quando si pigia l'interruttore e il computer incomincia a riconoscere sé stesso e la roba che c'è dentro). Eppure questi sono gli scherzi della materia organizzata in quello che chiamiamo "vita".

Il dubbioso chiede: ma com'è possibile che ciò che non è ancora realizzato (se è da realizzare non dovrebbe ancora essere reale) produca effetti così reali da indurre la realtà stessa a piegarsi al fine da raggiungere? Lo stesso linguaggio con il termine "realizzare" non è, come diceva Amadeo, tipico degli utopisti che vorrebbero tradurre in realtà un'idea? Risposta: e allora un ingegnere, costruttore di ponti o altro, sarebbe un utopista quando "realizza" il suo progetto? No, perché la storia del nostro segmento osservato non inizia con i "dati iniziali" e non finisce con lo "scopo raggiunto", è, appunto, un segmento di un tutto più vasto. Allora, se è vero che una specie di riflesso dello scopo è contenuto nella "causa efficiente", la "causa finale" di Abelardo è qualcosa di più complesso. Ma qui c'è sicuramente un inghippo linguistico: chi ha detto che per realtà si debba intendere soltanto ciò che si tocca e vede, odora, sente ecc.? Ogni cosa che produce effetti è reale (da non confondere questa proposizione con una qualche hegelaggine, la deriviamo solo dall'esperienza dinamizzata attraverso i soliti assiomi ed espressa con quello che la lingua ci mette a disposizione).

L'idealista dice: allora da parte dell'ideale c'è un'attrazione sul reale. Ergo è vero che l'idea produce effetti, è vero che io rovescio la prassi realizzando un'idea. Neanche per sogno, diciamo noi. La definizione di segmento vista prima non permette quest'operazione. Se l'idea è l'inizio del segmento e lo scopo è alla fine, c'è qualcosa prima e dopo, quindi l'idea è prodotto e fattore nello stesso tempo. E vedete la dialettica, anche noi siamo d'accordo, senza fare trucchi, nel mettere indifferentemente l'agente del rovesciamento della prassi prima o dopo, a seconda delle condizioni al contorno. Inoltre, a questo punto, possiamo chiamare questo agente come vogliamo, idea o altro, preferibilmente con un termine non sputtanato, se c'è. Uno di noi può benissimo dire: ho un'idea, dipingiamo di blu la sede, e quindi prendere il pennello e farlo. Ma perché salta fuori un pincopallino a dire "voglio la sede blu"? Chi potrà mai dire se la sede blu è un'attrazione dell'ideale sul reale o un'attrazione del reale sull'ideale? Sentite cosa dice a questo proposito un certo E. Goblot citato da A. Lalande:

"[abbiamo] una specie d’azione a distanza nel tempo. In questo senso, la causa finale è proprio il termine a venire; la finalità è l’avvenire capace di determinare il passato. Equivale a sopprimere la finalità mettere la causa finale all’origine della serie: infatti non è più allora che una causa efficiente".

Qui sembra di capire che si presenti qualche problema ulteriore. Poniamo il solito punto fermo che è la definizione di comunismo: "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente". Ebbene, il movimento reale è fatto di molteplici realtà, per esempio quella oggettiva e quella soggettiva (meglio la somma di quelle soggettive). C'è una natura che fabbrica vita e c'è una particolare forma di vita che fabbrica metropoli "artificiali", in parte progettandole e in parte cadendovi prigioniera impotente. Siamo alla fatidica unione teoria-prassi a ciò che è insieme prodotto e fattore di storia (proposizione normale e banale, ma in passato stiracchiata a fini attivistici). Noi comunisti siamo determinati dalla linea continua della storia ma ne vediamo individualmente solo un segmento. La nostra azione collettiva è però determinata dal fine, che è la nuova società. Per giungervi c'è ovviamente un percorso e il fine, deterministicamente parlando, non è disgiunto dal percorso per giungervi, altrimenti avremmo una "creazione". E' qui che l'avvenire determina il passato e fa piazza pulita di coloro che sbagliano percorso, cioè intraprendono vie che portano da altre parti. Ciò che agisce nella prassi è lo scopo rappresentato (Marx, il Manifesto: i comunisti rappresentano in ogni momento l'avvenire del movimento ecc., ma anche Partito e azione di classe) e per l'individuo la rappresentazione o la determinazione si confondono nel suo cervello con il desiderio. Alla storia non importa, anche il desiderio, singolo, generalizzato e orientato (polarizzato) è una determinazione verso il fine.

L'obiettivo è la società nuova, e questa muove la realtà, cioè mette in marcia gli uomini anche se lungo il percorso quest'ultimo sbagliano strada. Se uno dice: vado da Torino a Milano; poi sbaglia strada e va a Genova, non è Milano la causa dell'errore, Milano è sempre là, non è da "realizzare". In questo senso Milano di per sé non ha neppure azione finalistica su chi la deve raggiungere. Perché quest'azione ci sia, occorre che ci sia Milano e gli uomini che la "vogliono" raggiungere. Perciò Milano in quanto tale non basta, occorre specificare che il risultato è "Milano raggiunta" e per ottenerlo, occorre che i viaggiatori abbiano il biglietto del treno, prendano il treno giusto o abbiano la carta stradale se vanno con altri mezzi.

Qui, volendo, si può osservare che il mondo reale si complica assai. Anche passando per Genova si può raggiungere Milano. Anche per Reggio Calabria o qualche percorso più astruso. Introduciamo a questo punto un sillogismo: se le determinazioni che hanno prodotto la rappresentazione-desiderio "Milano raggiunta" sono valide, allora Milano sarà raggiunta. Molti epistemologi della scienza dicono che questo sillogismo è sbagliato (i filosofi non sappiamo). Dicono che la proposizione "l'avvenire determina il passato" ha un errore logico fondamentale che è, appunto, quello del bootstrap: non ci si può sollevare in aria tirando i lacci delle proprie scarpe. Esiste Milano, ma non esiste ancora "Milano raggiunta", quindi in nessun caso "Milano raggiunta" può essere causa della sua propria realizzazione. Sembra ragionevole, e per esempio il grande Bacone lo sosteneva fortemente per amore della scienza. Nel '600 aveva ragione lui, dato che doveva combattere contro il finalismo mistico.

Sembra ragionevole, ma invece nel terzo millennio è una fesseria. La "causa finale esiste", eccome. La critica alla teoria dell'impossibile bootstrap è semplice: io non riuscirò mai a sollevarmi tirando i lacci delle mie scarpe, ma il computer riesce brillantemente a risolvere il problema e "bustrappa" tutte le volte che noi premiamo l'interruttore, a volontà, all'infinito.

Grazie tante, dice il baconiano positivista in ritardo: il computer ha dentro un programma. E non se l'è fatto da sé, qualcuno lo ha scritto, installato e attivato girando l'interruttore, cioè portando informazione ed energia dall'esterno. Perfetto: senza informazione ed energia dall'esterno l'uomo non sarebbe in grado di bustrappare. E quando l'ha fatto per la prima volta? Ovvio: quando il Creatore gli ha soffiato in volto l'alito divino. Vedete dove finisce il materialismo volgare che si basa sul segmento e non vede tutto il percorso.

Amadeo osserva che la logica non risolve tutti i problemi, anzi, ne procura. Secondo la semplice logica non si può saltare da un sistema dato ad uno di livello superiore. Immaginiamo, dice, di avere una macchina precisa al centesimo di millimetro e di voler con essa costruirne una precisa al millesimo. Non sarà mai possibile: i giochi, gli attriti, l'usura degli utensili, il principio del rendimento che non può mai essere superiore al 100% (e non vi si avvicina neppure mai) non me lo permette. Eppure è evidente che prima della macchina esistente, quella precisa al centesimo, ve ne dev'essere stata una precisa solo al decimo. Andando indietro nel tempo arriviamo al pitecantropo che con un mazzuolo d'osso preciso al centimetro costruisce un'ascia precisa al millimetro. Forse che il mondo non è "logico"?

Il mondo è logico-dialettico. La dinamica del colpo del mazzuolo, del modo di tenere il nucleo di selce, del "programma", cioè dell'esperienza memorizzata dall'uomo, e la natura del materiale "scelto", fanno sì che l'incontro di fattori quantitativi si risolva in un prodotto qualitativamente superiore ad ognuno di essi. La macchina precisa al millesimo sarà ottenuta con quella precisa al centesimo non attraverso la sua semplice messa in moto ma attraverso il modo di usarla. D'altra parte: come valutare il millesimo di millimetro se non si potessero costruire strumenti di misura ancora più precisi?

Oggi ne sappiamo molto di più rispetto al passato sul caos primordiale da cui è scaturito l'universo attuale; però sappiamo che questa espressione fa parte solo del lessico corrente e che non è del tutto corretta dal punto di vista delle leggi della termodinamica: in effetti noi siamo abituati a ragionare in base ad un universo che procede verso livelli superiori di ordine (formazione di galassie, di soli e di pianeti, comparsa della vita, sua evoluzione, ecc.), mentre il secondo principio della termodinamica stabilisce che l'universo non può che procedere dall'ordine verso il disordine. Se fosse vero che in ultima analisi agisce solo il secondo principio, l'universo intero sarebbe nella condizione di bootstrap, sarebbe condannato all'impotenza o avrebbe bisogno di qualcuno che dall'esterno gli scriva un programma e gli inietti energia accendendo l'interruttore.

Così come credono tutti gli attivisti del mondo: nessuna rivoluzione secondo loro è possibile se non c'è qualcuno che "educhi le masse" con un qualche programma, accendendo l'interruttore dell'insurrezione.

Engels non era tanto convinto del secondo principio, almeno nella sua versione originale (cfr. Dialettica della natura). Sarebbe stato molto soddisfatto nel constatare che vi furono in seguito sviluppi a conferma dell'esattezza delle sue critiche: l'universo è in grado non solo di mantenere energia e informazione, come egli affermava contro la teoria della dissipazione irreversibile, ma è in grado di produrre informazione e quindi di rendere reversibile la dissipazione. Se si esclude la volontà divina, l'orientamento dell'universo (col fine della morte termica o della rigenerazione dell'ordine e dell'energia) è comunque finalizzato. Se fosse definitivamente dimostrata la capacità deterministica di auto-organizzazione della materia, il finalismo materialistico sarebbe altrettanto dimostrato.

Siamo dunque arrivati a definire il "finalismo" in quanto dottrina della cause finali che tenga conto della dialettica fra l'intelligente metafisica antica e la scienza-conoscenza materialistica, eliminando il dualismo fra le volgari concezioni del provvidenzialismo-volontarismo (creativismo del dio o dell'uomo non importa) e il determinismo-orientamento battilocchiesco della storia. I filosofi, per quello che ne sappiamo, hanno trovato un trucco: onde evitare la montagna di malintesi, bisognerebbe sempre accompagnare il termine "finalismo" con un aggettivo. Ad un certo punto l'abbiamo dovuto fare anche noi (finalismo deterministico), ma si tratta solo di una trovata furbesca, come se l'aggettivo di per sé potesse aggiungere a tutta la faccenda dell'informazione non opinabile e interpretabile. Meglio dunque teleodinamica.

Forse adesso si incomincia a capire perché l'omeostasi è così importante per una concezione materialistica non solo della storia, cioè dei processi, ma dei pre-visti sbocchi della storia stessa. Dunque vi sono condizioni oggettive e soggettive implicite nel finalismo: una dinamica che tende a un fine o a uno scopo; un adeguamento dei mezzi al fine o allo scopo; una "produzione", da parte del fine, dei mezzi adeguati per la sua stessa realizzazione; un processo d'inserimento e adeguamento delle parti nel tutto; un processo di adeguamento delle parti tra sé stesse in rapporto al tutto; ecc. ecc. Non si creda che l'omeostasi sia preorgativa degli esseri viventi: la valvola di Watt rende omeostatico un sistema meccano-termico, i sensori del climatizzatore regolarizza il clima di un edificio, un missile viaggia verso l'obiettivo autoregolando la propria traiettoria…

[Interventi lontani dal microfono, non udibili]:

E' importante questo fatto dell'omeostasi… organismo…

C'è feedback dappertutto…

Si tratta di fenomeni che ci impongono un approccio rigoroso alla dialettica della volontà. Il volontarismo puro e semplice "vuole" il fine, mentre il nostro rovesciamento della prassi (come applicazione della volontà da parte dell'organo specifico della rivoluzione umana) è un processo deterministico che conduce ad un certo punto ad un sistema che si auto-organizza dandosi i mezzi e affinando gli scopi lungo il percorso (come il missile che mira al suo bersaglio correggendo la rotta, o meglio come il lavoro fa la mano e viceversa – non "uovo o gallina" ma entrambi). Nell'attività cosciente dell'uomo vi sono molti esempi assai banali di applicazione del principio di finalità. Nell'accezione comune (quindi non solo i citati progetti ecc.).

Un risultato futuro può essere concepito come possibile anche solo per evitare un disagio, un dolore, un mancato vantaggio. Nei semplici casi della vita quotidiana si cercano e trovano i mezzi adeguati per ottenere un'omeostasi domestica. Da questo punto di vista, per estensione, il "finalismo" è qualunque obiettivo che ci poniamo nello spazio e nel tempo, che immaginiamo razionalmente raggiungibile sulla base dell'esperienza e delle teorie che ne abbiamo ricavato.

Ma l'omeostasi, come abbiamo visto, non è una prerogativa umana. Perciò bisognerebbe approfondire la dialettica del cosiddetto corso "spontaneo" delle cose in natura. In effetti l'intero universo, dandosi un ordine meccanico e biologico, unificando inscindibilmente i processi reversibili (fisica) e irreversibili (termodinamica, entropia) fino a darsi una "mente" (nell'accezione di Bateson) non fa che comportarsi in grande nello stesso modo in cui il suo atomo-uomo si comporta in piccolo. Con il misto di feedback positivo e negativo l'universo si omeostatizza in qualche modo, quindi si polarizza, quindi si orienta, quindi si finalizza (si "asimovizza", per chi abbia letto la trilogia della Fondazione sul partito cosmico). A parte gli scherzi, dovremo affinare questi argomenti, ormai la pietra nello stagno è gettata.

Fine lato A della cassetta

In effetti siamo influenzati malamente dalla filosofia, anche per la necessità di contrastarne la metafisica, ma l'omeostasi è concetto potente che ci permette di vedere nella natura un "finalismo" un po' speciale rispetto a quello dei filosofi. Anzi, ci permette di demolire il concetto di finalismo così com'è stato finora coltivato. Quando nei processi naturali scorgiamo adattamenti di situazioni presenti a condizioni future, adattamenti che prevedono la modifica di materia, di organismi, di sistemi a condizioni che non ci sono ancora e che quindi non possono essere aristoteliche cause efficienti, tali da averli prodotti esse stesse, allora è obbligatorio soffermarsi sul fenomeno, perché il partito rivoluzionario è, all'interno della società che si è data la nostra specie, uno di questi organismi ecc.

Dunque non bisogna seguire i filosofi che antropomorfizzano i processi naturali e, anche quando non attribuiscono i risultati della natura a un'intelligenza divina, vedono comunque all'opera un forza in qualche modo cosciente (come certi illuministi teisti), che "fa" andare le cose, le aggiusta e le prevede come farebbe un artefice, un progettista. Se anche non si antropomorfizza alla maniera dei filosofi lo si può però fare, altrettanto erroneamente, alla materialista volgare, cioè mettendo una forza inconscia della natura al posto di quella cosciente umana, divina o teista che sia. Una volontà "naturale" che, come il nostro inconscio, o istinto, guida la natura (o essa stessa si guida) verso l'auto-realizzazione (alcuni neo-vitalisti d'inizio '900 e anche i primi evoluzionisti, compreso Darwin, manifestarono a diversi gradi qualcosa del genere).

Parte di questa corrente è semi-materialista, si ferma cioè alle soglie degli organismi biologici. Monod, con il suo "Caso e necessità", non ne è che un esempio evoluto. Per questa frazione di corrente esisterebbe una specie di orientamento spontaneo del vivente, dettato da caotici impulsi, delle specie di bisogni primordiali. La biomassa terrestre non avrebbe intelligenza o volontà, astuzia o istinto, raziocinio o calcolo, ma avrebbe la capacità di plasmarsi, dirigersi secondo i dettami di forze che agiscono e reagiscono contrastando altre forze ostili. Gli organismi non avrebbero la possibilità di "creare" proprie caratteristiche ma porterebbero in sé le condizioni necessarie a svilupparle a seconda delle loro condizioni interne in relazione a quelle esterne. Questa scuola non è da confondere con quella bergsoniana, completamente idealistica (l'evoluzione creatrice), che è anche alla base di alcuni ripescaggi "scientifici" moderni (Fantappié, Costa de Beauregard). Con tutte le sue varianti è quella che si ripresenterà, mascherandosi sempre più di materialismo (cfr. il velato neo-lamarkismo dell'articolo contro Monod scritto dall'ex partito).

L'apparente analogia con la fisica non deve ingannare. Se è vero che con "forza" in fisica si intende una grandezza orientata e che più forze possono concorrere a una "risultante" altrettanto orientata (quando non sono semplicemente opposte e quindi si annullano), quel che manca in fisica (a parte certi fisici come il ridicolo Zichichi) è quella specie di psiche della materia, una variante del divino che, uscita dalla porta, rientra dalla finestra.

La questione del finalismo della natura ci sembra affrontata ormai seriamente anche dalla borghesia (capitolazione ideologica di fronte al comunismo, a parte il linguaggio e il persistente pregiudizio anticomunista). Le catene autocatalitiche di Kauffman sono una base che servirà all'uomo per andare oltre nella conoscenza dell'organizzazione della materia. Ma quello che ci interessa da vicino criticare è il persistente finalismo mistico per quanto riguarda i fatti sociali. La realizzazione di un fine tramite l'attività umana comporta un cosciente insieme di conoscenze teoretiche, abilità pratiche, condizioni ambientali e strumenti adatti. Abbiamo una dipendenza delle parti al tutto, un'armonizzazione (organicità) che a prima vista non ci appare per nulla "naturale" ma specifica di un'attività mentale cosciente, di una volontà specifica del molto specifico animale uomo. Un'intelligenza in grado di ordinare le cose, segno di previsione razionale rispetto al risultato da raggiungere, quindi segno di finalità o teleologia.

L'apparenza inganna. Infatti, se non partiamo dalla dialettica dei processi senza inizio (creazione) e senza fine (teleologia mistica) come nel caso degli studi di Engels sull'ominazione, si cade nell'idea statica di "arte" come esemplare sinonimo di finalità caro ai metafisici classici. Ad es. Leibniz era convinto che la società umana così com'è non potesse essere altro che il risultato di cause finali, una specie di scelta qualitativa di questo mondo fra tutti i mondi logicamente o geometricamente possibili. Ci dev'essere per forza una causa finale, perché questo mondo è il risultato di una valutazione preventiva fra esso e i risultati di tutti gli altri possibili. E ci sarebbe causa finale tutte le volte che vediamo realizzata un'armonia fra parti che dipendono dal tutto e viceversa. Una specie di rapporto di reciproca "convenienza" fra elementi diversi. Nelle cose umane ci sarebbe dunque una finalità del desiderio. A livello individuale questa finalità non rappresenterebbe altro che un'approssimazione limitata del livello finalistico superiore, sociale e naturale.

Anche Kant sembra fosse affascinato dal collegamento fra arte, bellezza e finalità (cfr. Critica del Giudizio). Vi sarebbero leggi – deducibili empiricamente dalla natura – passibili di unificazione in un sistema. Gli esseri viventi non sarebbero che uno fra i tanti esempi possibili di questa unità. Bisognerebbe approfondire: che si tratti di una presa di posizione a favore di una visione monistica della realtà? Bordiga aveva letto Kant, concludendo che, a dispetto della critica di Hegel (e di Marx), era una gran testa.

Comunque il libro citato c'è – gratis – su Internet (in inglese) e, se interpreto bene, dice grosso modo che si dovrebbe poter spiegare il mondo individuandovi una finalità intenzionale analoga a quella che caratterizza gli uomini. Analoga. Anche se non identica, questa "intenzione" potrebbe essere un espediente utile per capire l'ordine del sistema composto dagli esseri della natura. L'espediente è irrinunciabile perché noi stessi siamo fatti così: è nella natura del nostro intelletto partire da ciò che è prima nel tempo per finire a ciò che viene dopo. Di conseguenza ci sembra naturale spiegare il fine con il mezzo e non viceversa. Ci sembra perciò impossibile lì per lì che il fine possa determinare il mezzo. In questi casi, come nel nostro esempio del progetto, il fine sarebbe solo una rappresentazione e non una realtà. La causa finale sarebbe solo la "causalità di un concetto".

Detto questo, però, Kant aggiunge che uno spirito intuitivo, in grado di vedere al di là del tempo (eliminare il concetto di tempo?), sarebbe anche in grado di vedere il fine che produce da sé i mezzi per raggiungerlo, o meglio, una relazione diretta e specifica, non mediata, tra fine e mezzi. Se il fine non è ancora realizzato, dato che è nel futuro, ciò nonostante si può definire come causalità, dato che produce effetti sul presente. Lalande scrive per questa particolarità una formula: "causalità dell'avvenire" e aggiunge che in effetti "Se essa fosse intesa letteralmente, contraddirebbe i principi del nostro intelletto. Essa suppone il carattere illusorio del tempo e la contestualità reale dei momenti successivi, o per lo meno l’azione di un’intelligenza che non sia sottomessa alla durata e per la quale l’avvenire sia presente".

Questi passi mi sembra vadano citati perché la questione vi è posta in modo non dissimile, a parte il contesto idealistico, da come essa è affrontata in Partito e azione di classeda noi pluricitato proprio alla parte dove si dice che il partito è disegnato dai suoi compiti futuri. Può darsi che compagni volonterosi trovino altri passi di altri autori, folgorati da questa intuizione, ma per quello che vogliamo dimostrare, quelli di oggi dimostrano più che a sufficienza come l'umanità si ponga problemi suscitati dal movimento reale e solo uno schermo ideologico a volte separa verità che sembrano opposte. Noi non abbiamo niente a che fare con Kant, Hegel e altri idealisti, ma essi sono stati costretti, come siamo stati costretti noi, ad occuparsi dei problemi legati al futuro determinato e determinante, dimostrando a vari livelli che le due determinazioni non possono essere separate, sono un tutt'uno.

Kant ha anche un approccio curioso al problema della finalità, individuandone tre tipi: quella oggettiva (fine in sé), quella soggettiva (individuale o collettiva) e quella relativa (finalità intermediaria, cioè mezzo per una finalità di ordine più elevato). Il fine in sé sarebbe dunque la finalità assoluta, dato che i fini soggettivi e relativi non sono che sottoprodotti mediati, per i quali l'uomo è un mezzo per fini diversi fra loro e anche opposti (l'uomo negli accidenti della vita sipropone dei fini variabili). Solo la finalità oggettiva (fine in sé) può avere valore assoluto, trattabile come principio pratico non opinabile. E sarebbe questa, i filosofese kantiano, la vera natura dell'uomo: tendere (come specie?) ad un fine razionale non soggettivo. La cosa, come si vede, ha un qualche interesse per noi: il moralista Kant, l'idealista, è anche scienziato (a differenza di Hegel) e quindi non può che registrare, con il linguaggio del suo mestiere, la differenza fra l'uomo utilizzato dalla storia come mezzo e un qualcosa di ordine superiore, che rappresenta l'oggettività razionale del divenire.

Infatti non poteva mancare, su questa base, un accenno al rovesciamento della prassi, che precisa il senso di una finalità non disgiunta dall'unione teoria-azione. Al solito troviamo una contrapposizione, un dualismo indebito fra natura e società, ma più di due secoli fa era già un bel risultato giungere a tanto: per Kant ci potrebbe essere dunque un "regno dei fini" contrapposto al "regno della natura", cioè un regno caratterizzato dal vincolo sistematico fra gli esseri razionali, vincolo dovuto a leggi e obiettivi comuni. Sotto il dominio di questo vincolo gli esseri umani, che sono esseri razionali e quindi in grado di darsi dei fini, tendono al fine in sé (sono degli esseri-fine-in-sé). Ovvero: danno luogo a un sistema che raggruppa sotto le stesse leggi (in senso lato, non solo giuridico) i fini degli esseri razionali, che altrimenti sarebbero esclusivamente soggettivi e relativi. Non si tratta di un'utopia ma di una realtà operante perché già adesso 1) la società è fatta di esseri razionali tendenti al fine in sé; 2) si pongono quindi fini oggettivi determinati, cioè che si "devono" perseguire; 3) si pongono fini soggettivi che ogni essere razionale "può" porsi entro il vincolo della legge generale (morale, dice Kant, ma sorvoliamo).

Per quanto siamo distanti dalla filosofia, ormai "mandata in pensione", non possiamo fare a meno di notare (anche perché Kant ce lo dice non troppo fra le righe), che il regno dei fini ha soppiantato il regno della natura e che si intravede, nella dinamica verso il livello di ordine superiore, un ideale in cui la razionalità dei fini (rovesciamento della prassi, piano sociale?) non è utopia ma "ideale pratico", dato che può essere realizzato con la libertà (con la liberazione del soggettivismo e relativismo a favore del fine razionale oggettivo?).

Nel regno dei fini (regno della libertà) l'uomo è in grado di fare il proprio futuro. Quindi prevederlo e adeguare i mezzi al fine. Quindi è vero che il futuro è determinato e determinante (prodotto e fattore). Prendiamo la disputa presso i filosofi su questo punto. Si sa, ne abbiamo parlato, che vi sono dei materialisti in grado di dire sciocchezze metafisiche e dei metafisici in grado di dire cose materialistiche interessanti (cfr. scuola di Geymonat e scuola sintropica alla Fantappié). C'è un certo accanimento da parte dei primi nel negare che possa esistere un principio di finalità, cioè una proposizione scientifica, un concetto universale assiomatizzabile (quindi conosciuto a priori come i cinque assiomi di Peano) utile ai fini della conoscenza razionale. C'è una certa ingenuità da parte dei secondi nel vedere agire, ovunque vi sia vita, un principio che nega il secondo principio della termodinamica, un principio in grado di invertire la prassi entropica dell'universo. Per questi ultimi ogni fenomeno biologico è nient'altro che capacità della natura di darsi un ordine, che dunque è, proprio a causa del determinismo, chiave di una finalità.

La scienza, dicono i primi, ammette una legge solo quando essa sia valida sia qui che ai limiti dell'universo, sia per la materia inanimata che per quella biologica. Il determinismo è una legge universale perché tutto è determinato e quindi posso sempre avere la certezza del risultato; invece la teleologia non può essere un principio, dato che la finalità è riscontrabile solo in una ristretta classe di fenomeni. Sembra che tutto quadri, ma i secondi ribattono: non è scienza tagliare fuori dai processi conoscitivi una parte della natura solo perché non si adegua ai nostri concetti di legge e assioma. Anche senza poter formulare un principio assoluto, è provato che esiste una serie di fenomeni in cui è evidente un principio basato su cause finali e ciò di per sé rende razionale l'ipotesi finalistica, il determinismo inverso nel tempo. Se non fosse così, non potremmo avere quel misto di induzione e deduzione che sta alla base della scienza. Anche questo in qualche modi quadra, ma evidentemente non vi possono essere allo stesso tempo due verità. Dove sta l'inghippo?

Incominciamo con l'osservare che una sessantina di anni fa emerse l'ipotesi, poi formalizzata e provata, che il secondo principio della termodinamica e la teoria dell'informazione fossero rappresentabili con formulazioni non solo simili ma identiche. Per farla breve, diciamo che ciò significa che i processi deterministici, se si prescinde dal tempo giusta la intuizione di Kant, sono perfettamente reversibili. Il vivente assorbe energia e informazione assumendo ordine nuovo nelle sue strutture e così, in un universo aperto, nuovo ordine si forma con scambi di energia-materia. Tutto ciò fu chiamato neg-entropia, cioè l'inverso dell'entropia, cioè l'inverso della degenerazione dei sistemi verso il disordine e la morte termica.

[Finale sul significato di sintropia, neg-entropia, ecc. Parte eliminata dal relatore in quanto esposta in modo assai telegrafico, al limite della comprensibilità. Come già ampiamente discusso fra compagni, si cita l'equazione d'onda di d'Alembert, non orientata secondo il tempo. Da essa sono derivate interessanti osservazioni sulla reversibilità dei fenomeni. Riferimento a un fisico che ci ha spiegato come anche l'equazione di Schroedinger sia dello stesso tipo. Tutto ciò prescinde in modo assai kantiano dalla direzione del tempo e ci riconduce a scienziati che hanno, appunto, indagato sui fenomeni reversibili.]