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Appunti sullo Stato

I compagni tengano presente che sono delle note scritte in margine a una riunione e che quindi non hanno pretese di essere un lavoro finito. [Il testo è stato parzialmente ripreso a Venezia nel 2006]

Come la ricchezza della società capitalistica assume la forma di un’immane raccolta di merci, così la società stessa costituisce una catena infinita di rapporti giuridici.

Questo rapporto giuridico, la cui forma è il contratto, rispecchia il rapporto economico. Si pone di conseguenza la necessità non soltanto di analizzare il contenuto materiale della regolamentazione giuridica, ma dare altresì una spiegazione materialistica alla stessa come forma storicamente determinata. Vale a dire: se è necessario scendere all’analisi della sua forma nel processo del plusvalore lo è altrettanto e inevitabilmente operare un’analisi critica dei principi del diritto e della loro funzione in un determinato stadio dello sviluppo capitalistico.

Se originariamente il diritto di proprietà si è presentato come fondato sul proprio lavoro, nel capitalismo si presenta come il diritto di appropriarsi di lavoro altrui non retribuito. Il diritto è la forma mistificata del rapporto sociale capitalistico. La peculiarità del rapporto giuridico va ricercata nel rapporto fra possessori di merci. La genesi della forma giuridica occorre cercarla nei rapporti di scambio; allo stesso tempo che il prodotto del lavoro acquista la proprietà di merce, (che è la forma in cui si stabilizza la produzione capitalistica, e diviene portatore di valore), l’uomo acquista la proprietà di soggetto giuridico e diviene portatore di un diritto. Si può anche dire che il feticismo della merce si completa con il feticismo giuridico.

Stabilendo come base il testo marxiano "Introduzione alla critica dell’economia politica" si può affermare che il diritto preso nelle sue determinazioni generali non esiste soltanto nel pensiero e nelle teorie dei giuristi. Esso ha una storia reale che si sviluppa come specifico sistema di rapporti in cui gli uomini entrano non già per consapevole scelta ma perché ad essi costretti dalle condizioni della produzione. Il diritto va compreso come categoria storica che corrisponde ad una struttura sociale determinata, fissata sulla contraddittorietà degli interessi privati e non già fondata su una astratta società umana. Questo ci porta a confrontarci immediatamente con la funzione regolatrice e repressiva dello Stato che potremmo più puntualmente definire come strumento che regola e disciplina il diritto pubblico. Il diritto privato rispecchia il rapporto di proprietà e i conseguenti rapporti sociali, il diritto pubblico si fonda, invece, su una legittimità astratta dell’ordinamento statale. Queste funzioni, che possiamo definire "esterne", conducono ad identificare lo Stato con l’intero modo di produzione, tendenza che, già presente fin dalle origini, dato che non vi sarebbe stata alcuna accumulazione originaria senza le leggi sanguinarie dello Stato, si sviluppa e matura lo sviluppo stesso della concentrazione della produzione e distribuzione in monopoli. Il diritto pubblico può esistere soltanto come riflesso della forma giuridica privata nella sfera dell’organizzazione politica oppure cessa in generale di essere diritto.

Il diritto è un sistema di rapporti fra gli uomini che contrattano in maniera precisa quale deve essere tale rapporto: che riguardi il "tempo" o "valore" di qualsiasi natura contrattato da questi uomini, è evidente che si contratta quando si è separati, quando non è possibile avere quella determinata cosa che si vuole raggiungere, quando vi è già divisione del lavoro sociale e dunque appropriazione privata. Il "contratto" allora non è altro che il momentaneo superamento del "contrasto". Nel contrasto – e col contratto – vediamo già il superamento delle originarie comunità e ci troviamo in pieno nella fase intermedia della storia umana: quella delle società di classe ()non solo capitalistica dunque). Il diritto allora, anche se preso nelle sue determinazioni generali, dovrebbe essere considerato già "diritto pubblico" o, rovesciando i termini, si può parlare di "diritto" intendendolo senz’altro "pubblico".

Ora, se si dice che il diritto ha una storia reale che si sviluppa come specifico sistema di rapporti in cui gli uomini entrano non già per consapevole scelta ma perché ad essi costretti dalle condizioni della produzione e si considera inoltre che la fine delle comunità primitive, con conseguente avvio delle società di classe, non può essere studiata come somma di movimenti individuali di questo e quell’individuo, deriva che a) le condizioni della produzione si manifestano in blocco, in una particolare fase storica, b) che i rapporti fra gli uomini basati sulla divisione del lavoro e appropriazione privata sono dati, anche se non ancora pienamente riconosciuti come tali, c) che il diritto è un riflesso giuridico a seguito della comprensione e della volontà di stabilizzare e mettere ordine in tali rapporti contrattuali fra interessi contrastanti.

Indubbiamente il diritto privato nasce dalla realtà di rapporti di proprietà che possono essere letti solamente nell’insieme di dati rapporti sociali producenti il diritto pubblico che, ad un certo punto, sanziona (cristallizza legislativamente, si rovescia ne) il diritto privato di ogni individuale essere umano. Mi pare dunque che la frase concludente il paragrafo – "Il diritto pubblico può esistere soltanto come riflesso della forma giuridica privata nella sfera dell’organizzazione politica oppure cessa in generale di essere diritto" –, possa essere letta come una specie di inversione di quanto detto all’inizio, diventando: il diritto nasce dal diritto.

Tuttavia lo Stato, se trova i suoi presupposti nel ruolo di garante delle contrattazioni, non costituisce la totalità del processo giuridico. Esso rappresenta la funzione del dominio di classe e l’organizzazione destinata a condurre guerre esterne ed interne che non esige una interpretazione giuridica, essendo una sfera in cui impera la cosiddetta "raison d’ètat". Al contrario la sfera dello scambio mercantile, non soltanto può essere trasposta in termini giuridici ma si configura essa stessa come diritto. Perciò una teoria che non assuma questi differenti aspetti della realtà statuale rischia di alterare ideologicamente la realtà, non cogliendovi appieno il rispecchiamento dei fatti reali. Lo Stato è dominio di classe immediato a cui si giustappone un dominio indiretto, forza speciale separata dalla società ma di essa riflesso. Va definito come espressione storico-politica di una vasta struttura sociale ed economica della società divisa in classi: la sua funzione fondamentale consiste nella difesa e nell’ampliamento dello sfruttamento delle classi oppresse e al contempo avvolge tutta la società con innumerevoli fili, che non le permettono di disgregarsi tenendola nella rete dei suoi tentacoli. La macchina statale si realizza effettivamente come impersonale volontà generale, come autorità del diritto, proprio in quanto la società costituisce un mercato.

Il capitale necessita di una sempre maggiore concentrazione sociale dei mezzi di produzione e della forza-lavoro, si fa capitale sociale contrapposto a quello privato, determinando così la sua stessa soppressione come proprietà privata nell’ambito del capitalismo stesso.

Il fenomeno della concentrazione e centralizzazione nelle mani degli oligopoli finanziari ha determinato lo stadio in cui si sviluppa l’intervento dello Stato e una crescente interrelazione tra questo e i monopoli. Lo Stato di diritto si è sempre più manifestato come fattore di forza nella politica interna ed estera. Quanto più instabile si fa il dominio della borghesia tanto più si accentua il dominio di classe e la sua violenza, mettendo da parte la maschera dello Stato di diritto come forza organizzatrice e legittimante nei secoli dell’ascesa della borghesia.

La figura del contratto tra possessori di merci come genesi dell’ordinamento giuridico è annientata dalla forza sociale del capitale che si emancipa dal capitalista persona trasformandolo in sua funzione, così come la figura ancora sociologica del proletario si astrae in quella di funzione della produzione di plusvalore.

Le teorie giusnaturalistiche ideologizzavano la forma della concorrenza economica eternizzandola. Il capitale che sopprime la proprietà privata non prevede più concorrenti o avversari ma nemici. Lo Stato si arroga la decisione di stabilire chi è il nemico, sia nell’ambito dei conflitti interimperialistici sia in quelli interni di classe, di proclamare lo stato di eccezione. Dietro il tecnicismo del formalismo giuridico gli stessi giuristi borghesi affermano l’ordinamento giuridico dello Stato nella sua pura natura di strumento del dominio di classe.

Si è visto che la genesi dell’ordinamento giuridico è nel contratto tra possessori di merci e la progressiva trasformazione del diritto privato in diritto pubblico avviene con la formazione dei monopoli prodotta dalla concorrenza. La formazione dei monopoli non indica la "trasformazione del diritto privato in diritto pubblico" allo stesso modo che la concentrazione di tanti lavoratori nelle originarie manifatture è sancita dal diritto pubblico come lo è l’ulteriore centralizzazione di tante unità produttive nei successivi monopoli. Il diritto privato sulla proprietà delle manifatture è lo stesso che quello dei successivi monopoli: ambedue in ogni caso sottoposti alla legge della "miseria crescente" e legislativamente formulata dallo Stato, macchina di repressione a difesa del diritto pubblico (che rimane sempre quello dell’insieme del modo di produzione e non della somma di tutte le singole proprietà con i loro singoli diritti privati).

Lo Stato borghese sin dalla sua formazione ha garantito l’appropriazione dei beni e del prodotto sociale da parte di chi dispone di capitale accumulato, attraverso la codificazione del diritto di proprietà e della sua tutela armata. È soprattutto il capitalista collettivo che non si limita ad assistere dall’esterno ad una presunta spontaneità e naturalità dei fenomeni dell’economia ma vi partecipa fattivamente, attraverso l’esercizio dei suoi poteri.

La libera concorrenza determina la concentrazione della produzione e questa conduce al monopolio attraverso la necessità dell’accumulazione che, in conseguenza delle crisi periodiche, impone alla borghesia di adottare le forme delle intese, degli accordi, delle associazioni e delle alleanze. Le prime sfere di intervento furono quelle nei rapporti di mercato e nell’acquisto della manodopera. Poi le nuove forme investirono tutto l’ingranaggio produttivo fino alla formazione di monopoli, cartelli e sindacati di intrapresa. Il profitto monopolistico nasce da una primaria diseguaglianza nella crescita individuale dei capitalisti che nel processo di concentrazione diventa sistematica e si rafforza. Esso deriva dal fatto che un singolo capitale abbia speciali possibilità di accesso alle condizioni della sua valorizzazione: forza-lavoro, materie prime e, nel processo di realizzazione del plusvalore, mercato, crediti, impianti sovrastrutturali che consentano di valorizzare il capitale in misura superiore alla media e a conservare stabilmente questo privilegio.

Il monopolio è uno stadio avanzato del modo di produzione capitalistico indotto dai processi di concentrazione e centralizzazione e ne rappresenta la fase suprema ove maturano le condizioni per il suo superamento. Il potere dello Stato in questo stadio si determina come attività tesa alla conservazione della gerarchia monopolistica nell’acquisizione dei profitti e di organizzazione giuridica dei processi necessari a questo scopo, conseguendo in tal modo l’unificazione dei poteri dello Stato con quello dei monopoli in un sistema unitario, determinato dallo sviluppo delle forze produttive. Lo Stato, anche quando arriva ad imporre i prezzi di derrate o merci, il livello dei salari, gli oneri del datore di lavoro per "previdenze sociali" ecc., risponde comunque ad una dinamica il cui motore è il capitale. Tutto ciò conferma la legge fondamentale del capitalismo che è quella della destinazione di una gran parte del profitto all’accumulazione di capitale.

Ne consegue il divorzio tra proprietà e capitale che può esprimersi nella formula secondo la quale il capitale può fare a meno dei capitalisti come i capitalisti hanno fatto a meno del capitale. Ne discendono: 1) la determinazione della figura del capitalista puro come titolare dell’impresa senza proprietà che è anticipata nelle forme dell’appalto e della concessione; 2) la progressiva spersonalizzazione del capitale che, attraverso lo sviluppo delle banche, delle società per azioni, fino al capitalismo di Stato o capitalista generale, assiste alla scomparsa dei capitalisti come persone fisiche e si trasforma in potenza impersonale ed anonima.

Affrontare quindi la questione della classe dominante come il succedersi di personaggi diversi che recitano sulla scena il ruolo di sfruttatori significa non coglierne il carattere autentico di agente del modo di produzione capitalistico. I borghesi non sono semplici sfruttatori e detentori di ricchezze ma sono portatori della funzione di valorizzazione del capitale. Tali rapporti-funzioni nel loro processo di autonomizzazione, accentuano il loro carattere dinamico e impersonale che ha sempre meno bisogno di individui stabili, potendoli reclutare ovunque a ritmi sempre più serrati.

Alle persone fisiche si sostituisce una rete di interessi i cui gangli sono le imprese. Impersonalità, mobilità sociale, complessità e differenziazione definiscono la struttura del mercato mondiale capitalista in cui gli interessi della classe-rete diventano sempre più internazionali anche e soprattutto quando la lotta degli Stati nazionali li mette in conflitto tra loro. Tale processo si conferma nell’uso sempre più frequente di termini quali denazionalizzazione, deterritorializzazione del capitale, così come quello di globalizzazione dell’economia, tutti riconducibili al concetto di reticolo d’interessi.

Lo Stato rappresenta le necessità del processo di valorizzazione del capitale non dismettendo la sua configurazione di capitalista generale. Nella sua produzione giuridica trovano accoglienza norme che consentono di fare pressioni sulla sua politica, di combattere contro la protezione unilaterale dei monopoli, rispecchiando in tutto ciò la lotta tra segmenti della borghesia per l’appropriazione di quote sempre maggiori di plusvalore prodotto.

Questa fame incessante di sopralavoro non può, in nessun modo, venire eliminata: né con il mutamento della forma giuridica di proprietà, né con la statizzazione e tantomeno con la modalità di gestione delle imprese o di direzione complessiva dell’economia.

L’opposizione fondamentale assume sempre più la forma del conflitto tra lavoro morto e lavoro vivo. Le polarità in conflitto si configurano da un lato come l’impresa -azienda o meglio come rete di imprese-azienda, rete di organizzazioni la cui attività è finalizzata alla produzione e alla conservazione del lavoro morto e dall’altro i proletari, i portatori, gli erogatori di lavoro vivo, della forza-lavoro collettiva e sempre più socializzata.

Da un lato, i capitalisti intesi, come si è visto, non come possessori di capitali ma come fautori e difensori del sistema capitalistico che trovano nello Stato nazionale l’organo di difesa del loro sistema e della riproduzione di questo.

Dall’altro lato, coloro che lottano contro l’ingranamento delle forme di produzione, la macchina produttiva progressiva, coloro che mirano al superamento del sistema di produzione del valore, cioè il dominio del lavoro morto sul lavoro vivo. L’obiettivo è l’abolizione dello stesso proletariato, creatore di valore, unico fatto col quale scompare per sempre anche il dominio del capitale. La classe proletaria la si può definire dalla rivendicazione della sua scomparsa perché, come si è visto, poco o nulla rappresenta la sparizione di quella nemica , cioè quella capitalistica.

Ma il presupposto reale del superamento della forma e dell’ideologia giuridica è determinato dalla condizione della società in cui venga a cadere il diritto all’appropriazione del prodotto sociale, elemento fondamentale del modo di produzione capitalistico, persino al di là della proprietà privata dei mezzi di produzione, del salario e del mercato. Il comunismo giunto a piena maturità vedrà l’abolizione del valore e quindi una produzione antimercantile, antisalariale e antiaziendale che determinerà la scomparsa delle categorie del diritto borghese. Ciò significherà l’estinzione del diritto in generale, vale a dire la graduale scomparsa del momento giuridico nel rapporto tra gli uomini.

La conseguenza è che finché perdureranno gli attuali rapporti di produzione capitalistici, lo Stato non può estinguersi e nemmeno essere estinto. E ciò perché nell’epoca conformista della borghesia, il diritto ha perso, come la classe di cui è espressione, tutte le illimitate possibilità indotte dal capitalismo in ascesa, e si è esaurito in esercizi formalistici (Kelsen @ chi è e cosa dice questo autore). Sussiste solo per esaurirsi definitivamente.