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Contro la finzione di un marxismo senza Engels

Note nell'originale

Innovazione e dissoluzione

Il marxismo, per sua natura, non è mai stato cosa per intellettuali, i quali, però, si sono da sempre avventati su di esso al fine di proporne improbabili innovazioni e completamenti.

Quest’ultima stagione di "crisi del marxismo" forse segna, a differenza delle precedenti, il definitivo distacco dei ceti intellettuali "progressisti" dal campo teorico proletario. Non c’è da augurarsi che così sia: liberandosi dalla zavorra, il marxismo ha tutto da guadagnare. A noi qui preme sottolineare il legame necessario stabilitosi fra le pretese innovazioni teoriche e la progressiva dissoluzione della identità teorica del marxismo.

Lungo tutto questo secolo, gli "intellettuali marxisti" hanno continuamente offerto diverse e svariate "interpretazioni" del pensiero di Marx al fine pratico di renderlo, in ogni stagione, il più possibile omogeneo alle fioriture della filosofia borghese via via predominante. Così abbiamo avuto un "marxismo" dialettizzato con lo empiriocriticismo (contro cui si scatenano le giuste furie del mirabile Materialismo e empiriocriticismo di Lenin), poi col bergsonismo, con Croce (Gramsci & C.), con l’attualismo gentiliano (che ha agito anche nella costituzione dell’"operaismo" di Tronti), la fenomenologia (Paci e la sua scuola), il neopositivismo, lo strutturalismo (Althusser e seguaci) e così via. Queste paradossali metamorfosi hanno mostrato solo la totale subalternità dei ceti intellettuali al ritmo veloce con cui nella sociatà borghese si susseguono le mode "culturali" —la più assoluta mancanza di autonomia rispetto ai temi e alle forme della cultura ufficiale, l’assenza del minimo intento di separazione dalla stessa anche sul piano meramente etico. Necessariamente, il punto di approdo di questa progressiva dissoluzione dell’unitario e monolitico sistema marxista è stato la di- chiarazione di "morte del marxismo" —in due diverse versioni: il marxismo è ritenuto da sempre o una "grande narrazione" senza fondamenti o un paradigma teorico adeguato bensì per l’Ottocento ma oggi completamente obsoleto. Nell’ampio ventaglio di "motivazioni" di questo squallido percorso, è tuttavia individuabile nell’insieme una costante: il ripudio del contributo di Engels alla costruzione della teoria comunista, la finzione di un marxismo senza Engels. Da questo punto per noi decisivo consegue necessariamente, in primo luogo, l’invenzione di un marxismo senza Marx, e, in secondo, la conclusione di una negazione tout court. Conseguenza logica, questa, della premessa da cui ci si avvia: essendo il pensiero dei due fondatori della teoria comunista assolutamente solidale, inventarsi un Engels banalizzatore e travisatore permette di denunciare come "engelsiane" (cioè banali e travisate) molte affermazioni di Marx.

La costante anti-engelsiana

Per il sinistrese con velleità teoriche, Engels sarebbe stato un materialista volgare, un determinista rigido, un hegeliano arcaico ricaduto in una nefasta metafisica naturalistica.

L’accusa ha trovato concordi sia i riformisti che i "rivoluzionari". I primi individuano nel materialismo di Engels la negazione dell’umanismo, dell’"autonomia etica" dell’individuo e della "libertà dello spirito". I secondi vedono in esso la negazione del volontarismo, l’illusione del crollo spontaneo del sistema capitalistico o l’altrettanto illusoria affermazione della sua trasformazione graduale.

Di qui la ricerca continua di una divergenza profonda tra Marx ed Engels, che ha alimentato una lunga serie di filosofemi senza alcun fondamento storico.

E’ veramente indice di una grossolana malafede la tesi secondo cui Marx avrebbe assistito senza batter ciglio allo stravolgimento della sua filosofia da parte del suo più stretto amico e collaboratore. In realtà, Marx seguì da vicino l’elaborazione della Dialettica della natura e non solo lesso l’Anti-Dühring prima della sua pubblicazione, ma ne stese un capitolo. E la cosa ha la sua importanza, perché è proprio su questi due lavori di Engels che ha più insistito l’accusa di aver ripetuto, in forma banalizzata, la "dialettica della materia" di Hegel.

Ma, prima di entrare nel merito, è bene osservare che la tesi di un Engels "hegeliano deteriore" si collega a quella che vorrebbe fare di Marx un "kantiano inconsapevole" (come si vede, il risultato è sempre la scomparsa dell’originalità e autonomia del marxismo in quanto tale).

Chiunque abbia letto Marx, sa che i suoi riferimenti espliciti a Kant sono scarsissimi e ben poco elogiativi. Da dove nasce allora questa mistificazione? Su un equivoco che mostra tutta la miseria dei nostri "dotti".

Marx afferma che il dato è irriducibile all’attività del soggetto pensante e che il reale è qualcosa di più rispetto a ciò che è contenuto nel concetto.

Non è antihegeliana e materialistica —esclamano i dotti— questa enunciazione? E non è Kant il solo filosofo tedesco con un po’ di materialismo nel suo pensiero? Ecco dunque provata la dipendenza di Marx da Kant!

Ciò che noi semplici non comprendiamo —e nessun Colletti ce lo spiegherà mai— è per qual motivo la sacrosanta affermazione dell’esistenza di una realtà irriducibile al pensiero (convinzione comune a tutti i non idealisti) debba essere considerata, in sé e per sé, sufficiente prova di kantismo. Come ogni studente liceale sa, se il materialismo non consistesse in altro che nel riconoscimento di una realtà esterna al pensiero, dovremmo considerare materialisti anche Platone e S. Tommaso…

Inoltre, esisteva in Inghilterra e in Francia un filone materialista assai più vigoroso di quello kantiano, e Marx lo conosceva benissimo. Comunque, a differenza di un realismo generico, il materialismo è anche il riconoscimento della fisicità del soggetto e di tutte le attività comunemente considerate "spirituali". E, da questo punto di vista, tutto Kant è irrimediabilmente antimaterialista —e, quindi, agli antipodi di Marx.

Sono così posti gli elementi sufficienti per entrare nel vivo della questione e rivendicare pienamente il contributo materialistico di Engels alla teoria comunista.

Il nuovo materialismo tedesco dopo il 1850

L’accusa più comunemente rivolta ad Engels è che egli si sarebbe avventurato in una operazione inutile e negativa, quando avrebbe preteso di estendere a dimensione cosmica il materialismo storico di Marx. In pratica, avrebbe confuso dimensione umana e sfera della natura; e la causa di tale errore sarebbe individuabile nel materialismo volgare da cui egli non si sarebbe mai seriamente liberato.

La tesi dei critici si può così sintetizzare. La conquista teorica di Marx starebbe nell’aver compreso che gli uomini, mediante il lavoro, entrano in rapporti sociali fra loro e con la natura: non esisterebbe più, a questo punto, una conoscenza della natura se non in funzione della trasformazione della natura stessa da parte dell’uomo; Engels invece retrocederebbe ad una filosofia della natura in sé e per sé.

Questa critica è in primo luogo frutto di pura e semplice ignoranza —nel senso che ignora la trasformazione del clima scientifico e filosofico In Europa e specialmente in Germania dopo il 1850.

Da questa data, infatti, non è più la filosofia di Feuerbach a rappresentare il paradigma del cosiddetto materialismo volgare: un tale avvenimento pone alla teoria comunista problemi reali di precisazione e completamento.

Il nuovo materialismo volgare tedesco —che ha i principali esponenti in autori come Maleschott e Büchner, i quali non considerano più la vita né come una struttura di macchine costruite da dio, né come una proprietà di organismi resistenti alla morte, bensì come un processo continuo a livello cosmico, che attraverso la dissoluzione e la morte trova il terreno per il suo continuo rigenerarsi— supera il generico umanismo naturalistico di Feuerbach per legarsi saldamente alle scienze della natura. Con tale impostazione, esso non si limita più ad affermare la priorità del sensibile (nocciolo del programma feuerbachiano di capovolgimento della teologia in antropologia), bensì mira ad una spiegazione della sensibilità, dell’intelligenza, della moralità in termini rigorosamente biologici.

E’ ovvio che di fronte a questa nuova versione del materialismo volgare la critica di Marx a Feuerbach resta bensì in tutto e per tutto valida, ma appare troppo generica e, alla fine, insufficiente, in quanto il nuovo materialismo pretende di spiegare scientificamente (cioè di inquadrare in una serie di processi materiali obbedienti a leggi) anche il famoso "lato soggettivo" sul quale si era incentrata la critica marxiana. Ora Engels si assume appunto il compito di sviluppare la critica comunista di questa nuova forma di materialismo volgare. E lo fa egregiamente individuandone subito i due più gravi errori.

In primo luogo, essa riduce i comportamenti politici, morali e culturali dell’uomo ad attività immediatamente biologiche, senza tener conto della "seconda natura". Inoltre, considera le disuguaglianze sociali come una sorta di stortura rettificabile con il semplice sviluppo della scienza, non attraverso la necessaria lotta di classe.

Ora, di fronte a questa nuova impostazione del problema, la critica comunista non poteva più limitarsi ad una banale rivendicazione dell’elemento soggettivo, all’esaltazione di una prassi incondizionata che troverebbe il suo limite unicamente nelle condizioni esterne, e non già nel proprio fondamento fisico e biologico. Limitarsi alla riproduzione della critica a Feuerbach sarebbe equivalso di fatto, sul piano della ricerca scientifica, a collocarsi su un terreno più arretrato dello stesso materialismo rozzo. Solo tenendo presente questo quadro decisivo, il lavoro teorico di Engels diventa una formidabile lezione sull’autonomia del materialismo comunista da ogni legame con lo spiritualismo.

Ma c’è un altro avvenimento decisivo che troppo comodamente i critici di Engels tentano di occultare: l’affermazione della teoria evoluzionistica darwiniana, alla quale è opportuno dedicare una breve digressione.

La rivoluzione scientifica di Darwin

Sul finire del Settecento, un biologo francesce, Lamarck, aveva già sviluppato una sua propria ed approssimativa "teoria evoluzionistica", presto seppellita dalla restaurazione "fissista", cioè anti-evoluzionista.

Su nuove base scientifiche e in clima culturalmente decisamente più favorevole, Darwin propone una nuova teoria evoluzionistica incentrata su pochi ma chiari concetti:

a. la "lotta per l’esistenza", che è la condizione generale di competizione tra gli organismi e che determina l’intera economia della natura;
b. la "selezione naturale", che è il risultato necessario delle infinite interazioni tra gli organismi, per cui la comparsa delle differenze individuali può produrre negli organismi stessi situazioni di vantaggio o di svantaggio, che permettono loro di avere una maggiore o minore discendenza;
c. l’"ereditarietà dei caratteri acquisiti"

Si badi che la selezione naturale non conduce ad un necessario progresso nell’organizzazione dei viventi: alla concezione darwiniana è completamente estranea l’idea metafisica di Lamarck sull’esistenza di una tendenza necessaria al perfezionamento degli organismi.

Le scoperte rivoluzionarie di Darwin modificano radicalmente gli schemi concettuali di tutte le scienze naturali rivolte allo studio degli esseri viventi, introducendovi ladimensione storica e proponendosi come seria alternativa alla visione teleologica della natura e all’idea di un piano divino che governi armoniosamente l’economia degli esseri viventi.

La visione della natura che ne risulta è decisamente materialistica, e da un lato conferma, dall’altro confluisce, nel "materialismo volgare" tedesco a cui ci siamo sopra riferiti. Sull’onda del successo di Darwin, si forma quel reazionario movimento detto "darwinismo sociale" —il quale in verità non ha niente a che vedere direttamente con Darwin— che ha per programma la riduzione immediata della storia umana a storia della natura.

In questa situazione, uno sviluppo in senso "cosmogonico" del materialismo storico marxista era una necessità oggettiva: vedremo nella prossima puntata come Engels se ne fece carico.

Engels critico del materialismo volgare

Gli "intellettuali di sinistra" hanno prodotto e alimentato la convinzione che Engels e Marx abbiano dato due diverse valutazioni del darwinismo, e che di quest’ultimo Engels sia stato sostanzialmente subalterno. Anche questa diceria (come quelle già viste nella prima parte di questo lavoro) non hanno alcun fondamento. Citiamo Marx:

"La constatazione della lotta per l’esistenza nella società inglese (del bellum omnium contro omnes) ha condotto Darwin a scoprire nella lotta per la sopravvivenza la legge fondamentale della vita animale e vegetale. Il darwinismo, al contrario, considera questa come una ragione decisiva perché la società umana non possa mai emanciparsi dal suo stato ferino".

Attenzione: Marx individua due distinti passaggi —quello che dalla analisi della società capitalistica passa al mondo biologico (operazione propria di Darwin) e quello che dalle teorie sul mondo biologico tenta di passare a teorie politiche riguardanti la società umana in generale (operazione propria del darwinismo sociale). Secondo Marx il primo passaggio (quello di Darwin) è corretto; l’altro è completamente sbagliato.

Se fosse vera la tesi che vuole Engels influenzato dal darwinismo sociale, troveremmo in lui, accanto ad un approccio orientato alla conferma di quanto Marx dice di Darwin, anche (e soprattutto) una rivalutazione del "secondo passaggio" (dal mondo biologico alla società umana in generale). In realtà, Engels fa un’operazione oppostae, se discosta il suo punto di vista da quello di Marx, è per ridimensionare il cauto apprezzamento espresso dall’amico e compagno:

"Tutta la teoria darwiniana delle lotta per l’esistenza è semplicemente il trasferimento dalla società al mondo animale e vegetale della teoria hobbesiana del bellum omnium contra omnes e della teoria della concorrenza dell’economia borghese, come pure della teoria di Malthus sulla popolazione. Una volta compiuto questo gioco di prestigio (…) è molto facile trasferire di nuovo queste teorie dalla storia naturale alla storia della società, ed è allora un’ingenuità davvero troppo forte affermare di avere con ciò dimostrato che tali affermazioni sono eterne leggi naturali della società".

Ricapitolando: mentre Marx —pur avanzando delle riserve sull’utilizzazione di Malthus da parte di Darwin— si compiace del motivo polemico offertogli dall’analogia fra società borghese e mondo animale, Engels insiste maggiormente sull’esigenza scientifica di non confondere la lotta per la vita nella società capitalistica ("terreno artificiale" creato da determinati rapporti di produzione) con quello del mondo animale (svolgentesi su un terreno puramente naturale). La specificità della lotta di classe non può essere ricondotta alla genericità della lotta per la vita —e questa convinzione permetterà a Engels di contrastare ogni presentazione delle istituzioni umane come naturali prolungamenti delle forme di socialità di tipo animale. Insomma, non c’è alcuna subalternità engelsiana rispetto al darwinismo.

Al contrario, Engels pone un problema modernissimo ed attuale —quello della saldatura fra due diverse e distinte storicità (storia umana e storia naturale). E lo affronta sviluppando una critica su tre fronti:

- contro ogni concezione astorica della natura (che è anche una critica radicale alla filosofia della natura di Hegel)
- contro il darwinismo sociale
- contro ogni tentazione semplificatrice di tipo vitalistico o meccanicistico

Questa impostazione di Engels non è affatto scontata. Nei decenni conclusivi del secolo scorso, coloro che si schierarono (giustamente) contro l’ideologia darwiniana commisero l’errore di accettare, tra le varie ipotesi evoluzionistiche, quella che desse l’illusione di una più facile saldatura tra natura e uomo. E’, per esempio, l’errore di Plechanov, che accoglie la teoria evoluzionista "a salti" di Hugo De Vries, proprio per il suo carattere apparentemente più dialettico, antigradualista e rivoluzionario.

Il programma scientifico di Engels

In primo luogo, Engels avanza una critica rigorosa del materialismo volgare rimanendo sul terreno del materialismo —e su ciò abbiamo fin qui già sufficientemente insistito.

In secondo luogo, sviluppa una ricca polemica contro gli scienziati positivisti e, contemporaneamente, contro la filosofia dogmatica, proponendo una metodologia scientifica consapevole dei propri fondamenti, rigorosa nelle metodologie di verifica, conscia della mutabulità delle ipotesi. E’ una concezione del rapporto scienza-filosofia che mantiene intatta la sua attualità.

In terzo luogo, avanza una acuta tesi sulla storicità della scienza su cui mette conto soffermarsi sia pur brevemente.

Solo l’analisi storica delle leggi scientifiche permette di comprendere la non definitività della ricerca e l’impossibilità di fondare programmi scientifici su pretesi "atti intuitivi" atemporali, fuori dal tempo. Ma fin qui ci arriva anche Mach. Engels lo oltrepassa decisamente comprendendo con chiarezza che la storicizzazione del pensiero scientifico riguarda tutto il processo conoscitivo, anche le categorie stesse del conoscere. In Engels la demistificazione della assolutezza dell’atto conoscitivo si somma alla consapevolezza critica della pretesa immutabilità del presente storico, inserendo il divenire della conoscenza entro il divenire generale della realtà, e così recidendo alle radici la tentazione di contrapporre un carattere soggettivo e dinamico del pensare a un carattere oggettivo e statico dell’essere.

La frattura pensare/essere viene eliminare da Hegel riducendo l’essere al pensare: al contrario, Engels riconduce il pensare all’essere e alla materia; il pensiero fa parte dell’essere e non costituisce una sostanza diversa da quella della natura materiale.

Questi tre punti dell’impianto metodologico engelsiano trovano la loro sintesi nella tesi del materialismo dialettico.

Marx, Engels e la dialettica hegeliana

Rispetto alla dialettica hegeliana, Marx ed Engels hanno una posizione assolutamente solidale che può essere sintetizzata brutalmente in due punti.

La dialettica è da considerarsi come un complesso di leggi oggettivamente esistenti, e non come leggi del pensiero di cui la realtà oggettiva costituisca solo una proiezione fenomenica. Perciò si tratta di ritrovare, sul piano empirico, queste leggi della realtà —e tale secondo aspetto è considerato da entrambi il più problematico. Ciò nonostante, sia Marx che Engels, e con pari convinzione, non hanno mai cessato di credere che la dialettica sia utilizzabile da un punto di vista materialistico e hanno sempre respinto la tesi (oggi tornata in voga sull’onda del diffuso pentitismo) secondo cui la dialettica sarebbe intrinsecamente idealistica.

Tutto ciò significa che, per Marx ed Engels, la dialettica non è un aspetto prettamente logico, ma permette sia di definire una determinata concezione della razionalità della storia e del ritmo del divenire storico.

Questa concezione della dialettica non ha niente a che vedere con l’interpretazione che ne fa il sinonimo di semplice divenire generico, di non staticità —è chiaro che questa visione riduttiva si ispira a Eraclito, non certo a Marx. Il tentativo engelsiano di fondazione del materialismo dialettico si muove quindi, in tutto e per tutto, su una concezione della dialettica identica a quella di Marx.

La dialettica della natura

Engels tenta di dimostrare che le leggi dialettiche sono leggi reali dell’evoluzione della natura.

La prima la chiama legge della conversione della quantità in qualità e viceversa —il cui nucleo centrale consiste nell’affermare che una variazione quantitativa modifica la qualità.

La seconda è la legge della compenetrazione degli opposti, secondo la quale questi possono essere considerati l’uno separatamente dall’altro solo in astratto e con un procedimento arbitrario.

La terza è detta legge della negazione della negazione, secondo cui il divenire dialettico ha luogo per successive negazioni, e la negazione di una negazione non conduce alla semplice affermazione di ciò che viene precedentemente negato (com’è, invece, per la logica formale).

Ora è vero che le prove portate da Engels a sostegno della valenza pratica delle tre leggi appaiono deboli, ma ciò nulla toglie all’importanza della tesi metodologica. C’è infatti un nesso strettissimo fra le tre leggi della "dialettica della natura" e la critica del materialismo meccanicistico: mentre quest’ultimo escludeva per principio dalla scienza lo studio delle qualità, Engels ne rivendica l’importanza dato il rapporto realmente esistente tra qualità e quantità; contro le rigide e astratte schematizzazioni metafisiche che contrapponevano la causa all’effetto, il causale al necessario, la materia allo spirito, l’uomo alla natura, Engels rivendica una metodologia realistica della totalità e della complessità. Contro le concezioni riduzionistiche del movimento meccanico, avanza la terza tesi sulla "negazione della negazione".

Il materialismo dialettico postula, dunque, che ogni fenomeno va considerato in tutto il complesso dei suoi rapporti, tenendo conto della molteplicità dei fattori, visti e da vedersi sempre nella loro connessione interna. Una simile metodologia si contrappone a quella gnoseologia (teoria della conoscenza) che pretende di esaminare il fenomeno isolandone alcune delle parti e immaginando che il rapporto fra la parte e il tutto possa essere chiarito in un successivo momento.

L’impostazione engelsiana resta decisiva per lo studio di tutti i fenomeni connessi a situazioni di movimento, che in quanto tali non obbediscono a nessuna regolarità matematica proprio perché il loro orizzonte è una globalità fluida nella cui definizione interviene un numero illimitato di fattori. In questa "unità dialettica", in questo complesso intreccio di fattori, v’è un rapporto di contraddizione che assume una particolare importanza sul piano del metodo della ricerca. Nel campo storico-politico, ciò significa affermare consapevolmente la determinazioni delle "volontà individuali" da parte della situazione economico-sociale complessiva, contro l’illusoria pretesa che la determinazione del fine sia non-causata, ma neppure annegando la soggettività nell’anonima "necessità storica": il finalismo è tutto dentro la causalità, non è l’altra faccia della causalità.

Per Engels, ciò che l’uomo possiede in più rispetto all’animale è una maggiore capacità di progettazione e una maggiore intelligenza nella determinazione del fine, non una maggiore libertà (un maggior arbitrio) nella scelta di fini diversi.

Dopo Engels

Negli anni ’80 del secolo scorso, la cultura borghese registra a suo modo l’esaurimento del carattere "progressista" della propria classe, e avvia un processo involutivo segnato da una tenace reazione antimaterialistica e, sotto molti aspetti, veramente oscurantista.

In primo luogo si afferma un nuovo vitalismo che non solo si oppone al materialismo in nome di uno spiritualismo irrazionalistico, ma tende a considerare il mondo della vita come un ambito del tutto autonomo e irriducibile alla conoscenza fisica della natura. Si riproduce così nuovamente quella scissione fra umano e naturale, fra storico e scientifico, che influisce decisamente anche sulle varie filosofie antimaterialistiche, secondo le quali il mondo esterno è solo un contenuto del pensiero e che declassano la scientificità materialistica a realismo ingenuo.

Il nuovo storicismo torna ad affermare, con Hegel, che non c’è vera storia se non dello spirito, e insiste sugli aspetti di individualità irripetibile di ogni evento storico, caricandosi di irrazionalismo fideista e riducendo a intuizionismo ogni metodologia scientifica. Parallelamente, il ruolo della biologia è fortemente ridimensionato a tutto vantaggio delle scienze fisico-matematiche, che impongono modelli epistemologici (cioè di studio del metodo e dei contenuti della conoscenza scientifica) empirico-pragmatisti, secondo cui è l’esperienza stessa a produrre i fenomeni, o platonizzanti (che cioè negano ogni teoria dell’esperienza).

La stessa teoria dell’evoluzione viene messa in crisi: la (ri)scoperta delle leggi di Mendel e il sorgere della genetica vengono indirizzati alla confutazione della teoria darwiniana.

In questo clima di ritorno di ogni irrazionalismo (vitalistico, idealistico ecc.), largamente differenziato al proprio interno quanto concorde sulla pregiudiziale antimaterialistica, il programma del materialismo scientifico abbozzato da Engels è violentemente emarginato.

La tendenza si afferma appieno —con la sola eccezione di Lenin— anche nel campo marxista, entro il quale si diffondono svariati tentativi di interpretazione idealistica del marxismo.

Buona parte di ciò che lungo questo secolo si è autoattribuito l’appellativo di marxista è stato in realtà un prodotto condizionato dall’involuzione della cultura borghese e/o l’erede di una qualche degenerazione del campo teorico di classe.

Nella ferma convinzione che un marxismo revisionato in questo o quel punto fosse destinato necessariamente a divenire un non-marxista, la Sinistra Comunista ha sviluppato un patrimonio teorico basato sulla rigorosa difesa del materialismo comunista, e ciò non per fideismo dogmatico, bensì per acquisizione metodologica. La catastrofe complessiva —pratica e teorica— delle vecchie e nuove sinistre opportuniste mostra a chiunque abbia gli occhi per vedere che il punto di partenza per ogni seria costruzione della soggettività di classe sta —come da sempre noi sosteniamo— nella piena adesione alla totalità unitaria della teoria marxista.