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Mercato, divisione del lavoro e transizione alla nuova società

Appunti di Venezia ispirati dalla lettura di un opuscolo dell'ex partito e da alcuni brani dell'ultimo libro di Roger Dangeville. Qui viene introdotto un po' di sfuggita il tema fondamentale della divisione del lavoro che sarà svolta nel capitolo successivo in modo approfondito.

"E' davvero così assurdo immaginare di poter fare a meno progressivamente del mercato alla scala del pianeta, amministrando centralmente la produzione ed il consumo di tutta l'umanità?".

E', questa, una domanda tutt'altro che retorica che poneva il raggruppamento (definentesi "Partito Comunista Internazionale") "Programma Comunista", in un suo Manifesto del 1981, dal titolo: "Dalla crisi della società borghese alla rivoluzione comunista mondiale".

La risposta che dava tale Manifesto ci sembra degna di attenzione: "E' il corso stesso del capitalismo che spinge ineluttabilmente verso un simile traguardo. Già le più potenti compagnie industriali fanno lavorare insieme migliaia ed a volte milioni di uomini che, nell'ambito di queste immense imprese, non hanno nessun bisogno del mercato per far circolare i prodotti usciti dalle loro mani" (sott. nostra).

Ogni comunista dovrebbe far proprio un simile concetto, in quanto ripetizione - non importa se non letterale; anzi: meglio se non letterale - di quanto scritto da Marx (Capitale, Libro I) sulla differenza qualitativa fra la divisione del lavoro nella società e la divisione del lavoro nella manifattura.

Non ci interessa quì parlare del più o meno burrascoso percorso di questo raggruppamento, sorto nel l952 da una scissione di "Battaglia Comunista". Ciò che quì ci preme é capire quali siano i presupposti teorici - i lavori da "negri" - che portano a simili affermazioni. In altre parole: simili affermazioni sono dovute al "caso" - in tal modo, per il movimento comunista esse avranno la stessa utilità dell'aria fresca - oppure si rifanno a specifici lavori che non conosciamo e che utilmente servirebbero un movimento comunista liberato dai vari "copyright"?

Negli anni '50 e parte degli anni '60, il raggruppamento "Programma Comunista" svolse un lavoro imponente sul piano della restaurazione dottrinale dei principi basilari della futura rivoluzione comunista mondiale. Non era un lavoro "astratto" - termine comunque preferibile all'asfittico "concretismo esistenzialista" -; era un lavoro eminentemente "pratico", a fronte di una controrivoluzione che aveva distrutto, prima ideologicamente e poi fisicamente, il movimento della Terza Internazionale.

Non vogliamo dilungarci, ma sarebbero sufficienti anche solo i lavori svolti per arrivare alla rivendicazione di classe della società comunista, per poter collocare "Programma Comunista" lungo il filo del tempo del partito di classe che storicamente va da Tommaso Munzer alla dittatura proletaria mondiale di domani.

Ci si chiederà: che c'entra questo discorso col citato Manifesto del 1981?

La risposta, in parte, l'abbiamo già data: dobbiamo cercare nei lavori del passato se ci sono elementi di continuità col nostro lavoro di oggi. Nel caso specifico, sappiamo che i famosi "negri" degli anni '50 e '60 hanno svolto un notevole lavoro sulle caratteristiche fondamentali del capitalismo e della sua negazione, il comunismo. Ma noi dobbiamo chiederci: hanno svolto positivamente anche quel lavoro che porta alla individuazione del feto della società comunista (dove e quali relazioni fra i suoi elementi costitutivi) presente nel grembo della madre capitalistica e che la rivoluzione comunista dovrà liberare?

Ponendo diversamente la domanda: vi è stato da parte di "Programma Comunista" un lavoro simile a quello svolto da Bucharin nel 1920 (Economia del periodo di transizione) che, partendo correttamente da Marx, riuscisse ad evitare di scivolare lungo la tangente del "socialismo in un paese solo"?

Fra l'ottobre ed il dicembre 1952, appare sul giornale "Programma Comunista" il Dialogato con Stalin: é la risposta ad un "dibattito" fra economisti russi e lo stesso Stalin, apparso in italiano sul supplemento n.9 di "Rinascita", con il titolo Problemi economici del socialismo nell'U.R.S.S.. Il Dialogato con Stalin non si pone certamente il problema di "dialogare con Stalin", o di partecipare ad un "dibattito a distanza". Molto più semplicemente coglie l'occasione per definire gli elementi essenziali e della società capitalista e della società comunista.

A noi, ora, per restare legati alla nostra particolare domanda, interessa soffermarci su uno specifico punto ( in Giornata prima - Anarchia e dispotismo): "Nella riunione a Roma il 7 luglio 1952 il nostro movimento si fermò sul tema del capitolo di Marx: 'divisione del lavoro nella società e nella manifattura', e per manifattura il lettore espresse azienda. Fu dimostrato che per uscire dal capitalismo occorre, col sistema di produzione mercantile, distruggere anche la divisione sociale del lavoro - e Stalin la ricorda - e quella aziendale o tecnica altresì, su cui verte l'abbruttimento dell'operaio e il dispotismo di fabbrica. Questi due perni del sistema borghese: anarchia sociale e anarchia aziendale".

Il resoconto della riunione di Roma appare sul n.14, del 1952, di "Battaglia Comunista", col titolo La divisione del lavoro nella società e nell'azienda.

Il sintetico resoconto premette che "l'esplorazione nel domani é scientificamente possibile solo se il movimento ha saputo gettare il ponte teorico e di azione che - in una sola arcata - va su tutta la storia per un ciclo intero di classe dalla prima formazione del proletariato alla soppressione del capitalismo". Oltre a ciò, sottolinea come "il Capitale, letto rigo per rigo, non é un freddo studio analitico del capitalismo, ma un programma rivoluzionario di partito".

Fatte queste premesse, il resoconto cerca di delineare i concetti espressi da Marx a proposito della divisione del lavoro.

Dobbiamo dire subito, liberando il campo da inconcludenti imbarazzi, che il resoconto é di un livello assolutamente insufficiente, se non - in certi casi - decisamente errato.

"Divisione del lavoro nella società é quella ... per cui gli uomini si dividono in gruppi sociali (caste, ordini, categorie, professioni) ognuno dei quali provvede a un certo settore della produzione".

No, non possiamo accettare questa eccessiva semplificazione, dopo aver letto "rigo per rigo" le paroledi Marx. Ricordando che "nonostante le numerose analogie e i nessi fra la divisione del lavoro all'interno della società e quella entro un'officina, esse non sono solo differenti per grado, ma anche per natura, Marx si chiede: "Ma che cos'é che produce il nesso fra i lavori indipendenti dell'allevatore di bestiame, del conciatore, del calzolaio?". Non certo il fatto che "ognuno dei quali provvede ad un certo settore della produzione". Se fosse questa la caratteristica, la differenza fra la divisione sociale e manifatturiera del lavoro sarebbe solo di grado, non di natura; sarebbe una differenza quantitativa e non qualitativa. Si cadrebbe nell'errore di Adam Smith che vede unicamente una differenza soggettiva, in quanto ognuno può con uno sguardo d'insieme abbracciare un'intera officina, mentre non potrà mai abbracciare l'intera società. Cosa produce questo nesso allora? Marx: "L'esistenza dei loro rispettivi prodotti come merci".

Continua il resoconto: la "la divisione del lavoro nella produzione e nell'azienda é quella per cui uno stesso oggetto finito non è manipolato da un solo lavoratore, ma in vari tempi e da tanti operai che attuano le successive trasformazioni". Attenzione: che cos'é questo "oggetto finito"? E' un "oggetto" uscito dalla produzione e pronto a rapportarsi sul mercato ad un qualsiasi suo equivalente? In tal caso, non é un "oggetto", ma una merce. Oppure si sta parlando del movimento interno alla produzione, laddove, durante ogni successivo tempo parziale, il corrispondente operaio parziale - formante l'operaio complessivo - attua ogni successiva tasformazione. In tal caso non abbiamo una merce, ma nemmeno un "oggetto finito" (dando per scontato che non si consideri "oggetto finito" un'automobile senza le ruote). Ma continuiamo con Marx: "E invece che cos'é che caratterizza la divisione del lavoro di tipo manifatturiero? Che l'operaio parziale non produce nessuna merce. E' solo il prodotto comune degli operai parziali che si trasforma in merce".

E' con questa potentissima sintesi che Marx indica il nucleo del problema e, nello stesso tempo, la sua soluzione. Che l'operaio parziale non produca nessuna merce, indica - piaccia o non piaccia - che, all'interno delle galere dove sono rinchiusi gli schiavi salariati e dove massima é la trasformazione di un uomo in un ilota, i rapporti fra gli operai parziali - iloti sì, al pari di qualsiasi individuo all'interno della presente società, ma non per questo trasformati in vespe, balene o fenicotteri - sono rapporti di produzione e di distribuzione neganti la legge del valore, la legge dello scambio fra equivalenti. Inoltre, dobbiamo aggiungere, questi rapporti di produzione e di distribuzione neganti la legge del valore si realizzano all'interno di un piano di produzione e di distribuzione senza il quale, dopo pochissimo tempo, qualsiasi operaio parziale non potrebbe avvitare nemmeno un bullone.

Quando leggiamo, dunque, che il comunismo spezzerà il "dispotismo nell'azienda", dobbiamo aver cura di scindere i due termini: "dispotismo" e "azienda". Se leggiamo con gli occhi ed i nervi del comunismo, dobbiamo dire che questo spezzerà l' "azienda", non il "dispotismo"; verranno spezzati i limiti aziendali, non il piano di produzione.

Ora, é evidente che eliminata l'azienda, si elimina anche il piano di produzione interno ad essa, ovvero "chiuso nei suoi limiti", ma il problema fondamentale é capire che l' "anarchia della produzione e distribuzione nella società non é corrispondente (in corrispondenza biunivoca) al "dispotismo entro l'azienda", bensì all'azienda in quanto totalità. Da ciò deriva che per eliminare l'anarchia della produzione e della distribuzione a livello sociale, bisogna eliminare la sua anarchica cellula aziendale, col fine di "sostituirla con un'organizzazione unica su basi razionali, togliendo agli oggetti di uso come al lavoro il carattere di merci".

Ora, cosa sono queste "basi razionali" se non il piano (dispotico) di produzione e di distribuzione alla scala dell'intera umanità. Se siamo consapevoli che non vi é bisogno di "ideare" il comunismo, essendo già presente - in forma fetale e, dunque, da liberare - all'interno dell'attuale società, allo stesso modo non vi é bisogno di inventare alcuna base razionale, alcun piano di produzione e di distribuzione, in quanto già indicato dall'interno delle presenti isole chiuse (aziendali, di fabbrica, da spezzare) di produzione.

"E' assai caratteristico - scrive Marx - che gli entusisti apologeti del sistema delle fabbriche, polemizzando contro ogni organizzazione generale del lavoro sociale, non sappian dire niente di peggio, fuorché: tale organizzazione trasformerebbe in una fabbrica tutta la società".

La difesa borghese della forma aziendale della produzione, si sposa con la forma "consiliarista" ed "aziendista" della lotta di classe, che vede nel "controllo aziendale della produzione" la possibilità della propria emancipazione dalla schiavitù del lavoro salariato. E non é difficile rendersi conto che, se l'ideologia dichiaratamente borghese della forma aziendale é funzione dei propri specifici interessi di classe, meno facile é cogliere che la forma "consiliarista" (del "potere in fabbrica"), può sì combattere il singolo capitalista di una o più singole aziende, ma non può combattere - anzi lo puntella- l'insieme del modo di produzione capitalistico.

Non si dice nulla di particolare, dunque, qualora si afferma che il maggior nemico di un movimento rivoluzionario non sono tanto le aperte ideologie borghesi, quanto le nascoste "romanticherie proletarie".

E' giusto quindi combattere il "consiliarismo aziendista" (al pari di qualsiasi altra forma di opportunismo), ma questo non significa che ci dobbiamo far prendere dalle convulsioni al profilarsi delle vecchie e nuove forme di "aziendismo". Ed il non vedere nelle parole di Marx - lette "rigo per rigo" - che non solo vi è una totale condanna di qualsiasi rivendicazione localista e aziendista, ma che, all'interno di questa stessa condanna, egli addita il nocciolo centrale ed esplosivo di tutte le contraddizioni della presente società, allo stesso tempo degli elementi fondamentali della sua positiva soluzione.

Il non vedere tutto questo é indice di un livello di lavoro (non dimentichiamolo: siamo solo alla fine del 1952) in gran parte ancora allo stato potenziale e che dovrà svilupparsi per oltre un decennio prima di poter toccare i livelli che oggi conosciamo.

Tutto risolto,tutto finito, poniamo al 1965?

No! Riconoscere i meriti di "Programma Comunista" significa capire che, per collocarsi lungo il filo della tradizione rivoluzionaria, bisogna far propri i risultati significativi di quel lavoro. Ma ciò non ha nulla a che vedere con una sorta di mitizzazione e col prendere atto che restava ancora molto da fare.

Può essere, a questo punto, utile la testimonianza di uno dei "negri" di allora (Roger Dangeville) il quale, in Economia e strategia della rivoluzione proletaria (Edizioni 19/75, l982) ricorda come "un ampio ed intenso lavoro teorico fu compiuto dal Partito nei primi decenni di questo dopoguerra per restaurare la piena validità del marxismo e definire la prospettiva della crisi futura che ottenne clamorosa conferma nel 1975. Ora su questo slancio si dovevano proseguire nel decennio del 1960 le indagini sul decorso del capitalismo mondiale ed il trapasso rivoluzionario della società comunista, come sbocco positivo alla catastrofe della crisi universale. La via era chiaramente tracciata in anticipo. Tuttavia, in seguito alle comprensibili ma insidiose suggestioni dell'attualità e delle cosidette necessità pratiche, alla pretesa di essere attivi ed operanti in tutti gli accadimenti immediati e nel voler sostenere le deboli fiammelle delle deboli forze rivoluzionarie, non si dedicò la dovuta energia all'incarico di sviscerare la soluzione positiva alla crisi storica del capitalismo: della società comunista nel grembo della base economica del sorpassato sistema borghese" (p. 8, sott. nostra).

"Non si dedicò la dovuta energia" implica che si dovrà dedicare la dovuta energia al fine di sviscerare questa soluzione positiva.

E', questo, quanto si é imposto Dangeville, assieme ad un piccolo gruppo di giovani compagni, attraverso la pubblicazione di Economia e strategia della rivoluzione proletaria.

Da quanto ci risulta, questo é il primo tentativo organico (dopo l' Economia del periodo di transizione di Bucharin) di sviscerare gli elementi costituenti - e la loro locazione - della "già esistente società comunista che, come il nascituro, vive prima nel ventre materno, in un altro organismo" (p. 9).

Diciamo anzitutto che, se consideriamo importanti alcune osservazioni sul lavoro di Dangeville (Roger ci perdonerà questa semplificante personalizzazione) é proprio perché si sforza di perseguire il nostro stesso obbiettivo: "Osserviamo che la presente monografia non verte sulla società comunista nella sua forma compiuta, ma sulla sua genesi nel seno del capitalismo e perciò sul suo specifico lato economico" (p. 24).

Le 600 pagine del volume si dividono in una prima parte (circa 200) che cerca di impostare il problema e di darvi la soluzione, alla luce dell' "attualità"; inoltre, vi é una seconda parte (400 pagine) che cerca di dare sostegno dottrinale alla prima, con citazioni tratte dai testi per noi classici.

Purtroppo, come di buone intenzioni é lastricato il mondo intero, così la sostanza del voluminoso lavoro si riduce ad un poderoso "volume di 600" pagine il quale cerca sì di imitare il volo fluido eppure vigoroso dell'aquila, ma quando é il momento di cogliere il nocciolo del problema, di picchiare sull'obbiettivo che si é prefissato, essa si rivela un'aquila stanca e cieca e, più che mettere in azione gli artigli, deve limitarsi a contenere la perdita delle penne.

Senza dilungarci troppo, diciamo subito che sono stati sprecati circa 25 mq. di buona carta. Ma questo sarebbe ancora un fatto insignificante.

La cosa grave é che, a 30 anni dalla riunione di Roma del 1952 e dal relativo resoconto tracciato su "Battaglia Comunista", se ne voglia riprendere il tema, senza citare lavori precedenti, osservando che "non (vi) si dedicò la dovuta energia" e riproponendo gli stessi errori (a quel tempo comprensibili), con l'aggravante di una prosopopea e di una "presentazione" dei testi classici, degni del funambolismo più sperticato.

Su questo piano diventa quasi più utile leggere un Gabutti che non tanti difensori della Sinistra e, più in particolare, di "Programma Comunista" anni '50/'60.

Ma proviamo a seguire un po' il testo.

"Marx rileva che la divisione del lavoro s'esprime nella produzione in modo diverso che nella società" (p. 98).

Notiamo subito che si scende ad un livello inferiore rispetto alla stesso resoconto del '52: se é vero che anche il resoconto parla ad un certo punto della "divisione del lavoro nella produzione", mostra chiaramente subito dopo - e lo dice esplicitamente - di intendere "divisione aziendale o tecnica del lavoro". Marx parla di "divisione manifatturiera del lavoro".

Ma che cosa diventa, per Roger, la divisione del lavoro "nella produzione"? Anzi, a questo punto, cosa s'intende per "produzione"? "Nella produzione, dopo ogni spinta centralizzatrice, aumenta di nuovo la divisione del lavoro, generando una infinità varietà e singolarità di imprese nei molteplici settori produttivi ed una ultraspecializzazione dei prodotti" (p. 98, sott. nostra).

Ora, se é vero che ogni impresa (industria, azienda, ecc.), arrivata ad un certo grado di sviluppo e di "elefantiasi" produttiva, tende a scindersi in due o più imprese - con conseguente ulteriore divisione e parcellizzazione del lavoro -, ciò non si realizza nella produzione (= nella singola fabbrica = nella singola azienda) bensì nella società.

Abbiamo fatto un'osservazione che ci potevamo risparmiare?

E' vero in parte. Basta leggere le parole seguenti dove, fra parentesi, vi è portato un chiaro esempio: "il mercato farmaceutico offre 3.500 medicamenti diversi, che si riducono in parte a sole 250 sostanze medicinali" (p. 98, sott. n.). Però, non bisogna barare: se é vero che il mercato offre 3.500 medicamenti, questi non sono di un'unica impresa, ma di più imprese. Questo significa (non troppo piccolo particolare) che la divisione del lavoro fra più imprese, producente i 3.500 medicamenti, non ha nulla a che vedere con la divisione del lavoro nella manifattura (Marx), o con la divisione tecnica o aziendale del lavoro (Resoconto). La divisione del lavoro "nella produzione" di cui parla Roger, non é altro che la divisione sociale del lavoro o divisione del lavoro "nella società".

Quindi, nessuna differenza! In Roger, la divisione del lavoro nella produzione é la divisione del lavoro nella società. Ed é come dire: la divisione del lavoro nella produzione sta alla divisione del lavoro nella società, come la divisione del lavoro nella società sta alla divisione del lavoro nella società. (Leggere per credere). Considerando come é stato posto il problema, avrebbe potuto semplificare dicendo: tutto sommato, la divisione del lavoro é la divisione del lavoro e non stiamo lì a "smenarla troppo".

Verrebbe proprio voglia di recitare la preghiera di nonna Meume di Amburgo (da una poesia di Biermann): "Oh Gott, lass Du den Communismus siegn!", che tradotta un pò liberamente dice "Signore, non ci capiamo più 'na madonna: fai tu che il comunismo vinca!".

Noi non siamo fra quelli che credono che basti recitare - come fosse una giaculatoria - le frasi di Carlo Marx. Però, qualora avvertiamo delle difficoltà nell'ulteriore elaborazione, comprendiamo benissimo che, piuttosto di sparare strafalcioni, é meglio attendere e ripetere.

Rispetto a Economia e strategia..., la differenza qualitativa fra la divisione manifatturiera e la divisione sociale del lavoro, tracciata da Marx nel Capitale é decisamente più semplice, più chiara e, soprattutto, più onesta. Parafrasando il Bordiga di Relatività e determinismo: altro che Adam Smith, quì si fa critica dell'economia politica ad un livello inferiore dei terziari di S. Francesco o dei pezzenti di S. Gennaro!

Economia e strategia... cita (p. 81) la lettera di Marx a Kugelmann, del 13.3.1868, dove scrive: "Io presento la grande industria non solo come la madre dell'antagonismo, ma anche come la generatrice delle condizioni materiali e intellettuali per la soluzione di questo antagonismo che certo non può avvenire pacificamente".

Nulla da dire sul fatto che la soluzione di questo antagonismo non possa avvenire pacificamente, allo stesso modo che non abbiamo nulla da eccepire sul fatto che tale soluzione sia data, in termini chiaramente leggibili, all'interno della grandeindustria. Scrive Dangeville: "Engels rileva che non si può in anticipo elencare ciò che la società comunista futura metterà nelle sue pentole" (p. 102). A parte il fatto che su 600 pagine, si poteva dedicare una riga per indicare un riferimento preciso (dove ed in che contesto Engels parla), é sicuro che non é importante quantificare il numero e la forma delle patate e del prezzemolo nelle future pentole, come non é importante, nell'effettuare una ecografia ad una donna gravida, determinare se la nuova vita avrà le orecchie alla Dumbo o meno.

Ma continuiamo: "Benché l'embrione racchiuda totalmente lo sviluppo ulteriore di un organismo, solo la crescita esplicita nel concreto la sua natura" (p. 103).

Ora, o la "crescita" é riferita all'embrione che nel processo del suo sviluppo fetale esplicita nel concreto - ancora prima di nascere - la sua natura dell'organismo operante di domani, oppure il termine "crescita" sta per "nascita" che espliciterà nel concreto - un domani - la sua natura. Nel primo caso, si tratta di smettere di spendere tante parole in tondo e di essere chiari come Marx; nel secondo, si tratta di dire che i tratti fondamentali (non patate, nè prezzemolo) del comunismo di domani ci saranno dati dal comunismo di domani e che la rivendicazione dell'abolizione del lavoro salariato, espressa oggi, non ha nulla di "concreto" e che non ha nulla da spartire con il determinismo, ponendosi essa sul piano della più ariosa delle ideologie.

Esagerazione?

"La potenziale società comunista non ha ancora nessuna oggettivazione e non trova quindi nessuna manifestazione nell'industria che è al contrario l'attuazione del capitale" (p. 103).

Ma và? E noi, a pensare che l'industria fosse l'attuazione delle nespole.

Non sempre la quantità si trasforma in una qualità nuova: ci vogliono ben precise condizioni affinchè si possa realizzare il salto qualitativo. Non sempre il semplice aumento del numero delle pagine permette - di per sè - di passare dal pollaio alla vetta di una montagna. Se parliamo di letame, si parli di letame; se si parla di azoto e ammoniaca, si parli di azoto e ammoniaca, anche quando sono imprigionati nel letame. Se si parla di industria, si parli di industria; ma se si parla di un operaio parziale il quale, nel rapporto produttivo con un altro operaio parziale, non produce nessuna merce, si parli di questo (ammesso che si riesca a vedere questo!).

Quì non ci si rende più conto delle parole che si usano: "la società comunista non ha ancora nessuna oggettivazione". Se queste parole hanno un senso, esse possono non tanto voler dire che oggi la società comunista non è pienamente relizzata (grazie dell'aiuto!) e nemmeno che, per realizzarla, é necessaria l'azione politica di classe; esse hanno un senso solo se si nega la natura deterministica della rivendicazione della società comunista, ponendola sul piano della "idealità".

Potremmo essere invitati a rileggere il testo, in modo da accorgerci di aver dimenticato "una parolina".

Rileggiamo: " la società comunista non ha amcora nessuna oggettivazione, e non trova quindi nessuna manifestazione nell'industria" (sott. nostra).

Come si possono conciliare simili affermazioni con quella di p. (, dove si parla dell' "ingigantire della società comunista nel grembo della base economica del sorpassato sistema borghese" (sott. nostra), solo Dangeville può capirlo.

Ma restiamo alla pretesa precisazione: quel "nell'industria" ci mostra che tutto sommato non vi é una negazione assoluta dell'oggettivazione della società comunista, in quanto essa può essere presente e manifesta.

Dove? Risposta: nel partito di classe!

"Riconoscere la natura fisica della società comunista già vivente consente di assegnare alla teoria la sua giusta forma organizzativa, cosciente, volontaria e attiva di partito" (p. 44).

A forza di voler la botte piena e la moglie ubriaca, certe frasi sulla "natura fisica della società comunista già vivente" (dove?) rimangono solo vuote frasi e l'organizzazione di partito perde la sua natura determinata, per risultare unicamente prodotto di atti coscienti e volontari.

Senza dilungarci troppo, pensiamo che questo aspetto specifico possa essere sviluppato in altra sede dove sarà importante mostrare la natura della rivendicazione delcentralismo organico: lo "scegliamo" perché "più adatto" del centralismo democratico; oppre non abbiamo alcuna possibilità di sceglierlo, perché esso si impone in quanto determinazione del piano di produzione, interno a qualsiasi singola azienda (manifattura, fabbrica), organicamente centralizzato, all'interno del quale l' operaio parziale, nel rapporto produttivo coi suoi compagni di lavoro, non produce alcuna merce.