Il comunismo come divenire permanente

La questione come posta da Marx ed Engels

Riunione del 22 maggio 1998

Questa è una riunione tenuta a Torino e sbobinata così com'era, quindi senza modifiche specifiche per l'utilizzo nel lavoro comune. La prima parte, storica, si può adattare per un capitolo in questa posizione. La seconda parte, con gli schemi, può essere adattata per il capitolo 7 che è appunto sugli schemi illustrativi, con le elucubrazioni di Venezia sulla topologia e altri ancora da verificare. L'ultima parte è assolutamente grezza.

Nella bozza di Venezia, che i compagni dovrebbero aver già letto, il titolo provvisorio era: Sulla produzione socializzata ovvero il comunismo esiste già all'interno del ciclo di produzione del capitale. Non nego che la faccenda sia un po' difficile da digerire, ma adesso che abbiamo incominciato bisogna andare fino in fondo. Abbiamo un buon punto di partenza negli appunti sul Capitale, su Bucharin e sulla cosiddetta accumulazione socialista (Preobragenskij). Abbiamo tracce nel lavoro della Sinistra e sono scaturite indicazioni interessanti dalla riunione sul settore cosiddetto no profit. Con i compagni tedeschi abbiamo tradotto i punti salienti del lavoro di Berlino sul passaggio dal feudalesimo al capitalismo (separazione del lavoro dal prodotto e riflessi sul pensiero), tema che ci serve per comprendere la metamorfosi dei rapporti sociali profondi. Abbiamo anche deciso di ricercare nuove fonti nel materiale marxista, senza trascurare qualsiasi contributo possa venire da parte borghese. Non c'è solo la produzione e riproduzione materiale, vi sono anche i rapporti all'interno del capitalismo, le sue istituzioni, il capitale azionario e anonimo produttore di profitto medio come una specie di interesse. Per ottenere altri spunti sulla dinamica storica del divenire comunistico (eliminazione delle differenze tramite il loro utilizzo) studieremo a fondo l'Integrazione e poscritto di Engels al III Libro del Capitale e i suoi riferimenti sull'originale, dove si collega addirittura la socializzazione del lavoro e il livellamento dei profitti alla società di marca e questa al comunismo primitivo (e quindi l'estrema socializzaizone del lavoro sarebbe una base per il comunismo sviluppato; purtroppo il testo è tronco proprio dove a noi servirebbe di più uno sviluppo, sulla società di Borsa e sull'aumento della finanza).

Adesso dovremmo incominciare a scrivere qualcosa di utilizzabile per la pubblicazione progettata e dar via al consueto corso di elaborazione secondo lo sperimentato metodo che porta a tutti i nostri stampati. Come al solito bisogna affrontare la questione da un punto di vista storico, cioè dinamico. Se guardassimo alla fabbrica e alla produzione così come li potremmo fotografare adesso (o in un momento qualsiasi della storia capitalistica) non averemmo elementi significativi su cui basare un'affermazione del genere. Perché? Perché una fabbrica è un luogo di attività specifica dove si producono merci, dove non sono immediatamente visibili categorie non capitalistiche.

Però, se noi guardiamo alla fabbrica da un punto di vista storico, cioè indaghiamo sul suo divenire da quando è nata ad oggi, vediamo un succedersi di cambiamenti. In che senso? Da un punto di vista superficiale ogni tipo di produzione, in qualsiasi epoca, somiglia a un altro tipo di produzione. Vi è sempre un'applicazione di energia, vi è sempre un qualche tipo di progetto alla base delle cose da costruire, vi è sempre un risultato da raggiungere attraverso un processo conosciuto in anticipo e vengono sempre realizzati dei manufatti, insomma delle opere che contengono lavoro umano, conoscenza, materia trasformata. Questo vale per la pietra scheggiata di tre milioni di anni fa e vale per l'astronave di oggi. Per quanto le differenze siano grandi, abbiamo un certo tipo di analogia, ma non è quello il punto.

Per quanto riguarda il discorso che vogliamo fare ora, la differenza non è data dai materiali, perché tutto sommato se si usa acciaio invece di bronzo, o metallo invece di terracotta, la sostanza non cambia molto. Se discutessimo il processo storico della produzione umana in un altro contesto sarebbe diverso, perché dovremmo tener conto di elementi qualitativi anche per quanto riguarda i materiali: il fatto di produrre un oggetto in acciaio piuttosto che in terracotta, legno, pelle, osso o fibra, richiama immediatamente il processo retrostante, perché il metallo, che sia il bronzo o che sia acciaio va fuso. Se poi andiamo ad indagare all'interno dell'insieme dei metalli, vediamo che lo stagno fonde a una temperatura irrisoria, facilmente raggiungibile anche con un fuoco di foglie secche, mentre già il rame fonde a 1.000 gradi e presuppone una superiore tecnologia del fuoco; non parliamo dell'acciaio, che si ricava ad una temperatura di circa 1.700 gradi con processi di una certa complessità. Vediamo che anche una semplice osservazione sul materiale ci riporta a relazioni sociali e rapporti organizzativi tra gli uomini. Alla fin fine vediamo che lo sviluppo storico è determinante e dà un'impronta non solo al modo di produzione, ma anche al tipo di produzione attraverso la tecnologia produttiva disponibile.

Ciò che però qui ci interessa in modo particolare è il salto vero e proprio dalla produzione individuale o parcellare alla produzione socializzata nel vero senso della parola. Perché diciamo "nel vero senso della parola"? Mentre un qualsiasi artigiano ancora oggi si basa su una produzione individuale, già nell'antichità, molto presto insomma, l'uomo ha scoperto la produzione socializzata. L'archeologia ha portato alla luce esempi di opere grandiose che non possono essere solo il frutto di lavoro individuale moltiplicato per molti individui; tali opere non possono essere spiegate neppure ricorrendo all'esempio di lavoro sociale sulla base della divisione sociale di allora, che era data dalla famiglia, dalla tribù o da una organizzazione più articolata ma sempre riferita ad un insieme chiuso. Vi sono esempi di opere grandiose che sono frutto del lavoro collegato e sociale di tutta una popolazione i cui legami e rapporti sociali a volte portano ancora le tracce dello scomparso comunismo primitivo. Ma non si capirebbe il titolo "lavoro socializzato come anticipo di comunismo" se non riuscissimo a capire l'abisso storico che separa il comunismo primitivo dalla società futura e non studiassimo gli elementi materiali del suo divenire.

Tralasciando dunque un'indagine sul lavoro socializzato più antico - che sarebbe interessante, ma non è il tipo di lavoro che ci accingiamo a svolgere ora - dobbiamo vedere lo sviluppo del lavoro socializzato moderno. Dobbiamo cioè vedere come si giunge da un lavoro sociale che si concretizza in genere in opere usufruibili da tutti, e che si manifesta solo a tratti all'interno della storia delle diverse società (quando c'è bisogno di quelle opere e solo di quelle, quando tutta la società si indirizza verso la loro realizzazione, innalza il bastione, la cattedrale, l'acropoli e poi basta, tutti se ne tornano a casa e si dedicano al lavoro individuale) a un lavoro sociale risultato di una società più evoluta, una caratteristica produttiva e riproduttiva che diventa un fatto sociale normale di cui non ci si rende più neppure conto.

Voce dal fondo: ma il lavoro non è sempre stato sociale in quanto lavoro? Prima il lavoro non c'era...

Sì. Si potrebbe obiettare che in certi momenti della società più antica la comparsa del lavoro come fatto sociale sia insieme distruzione del comunismo primitivo e inizio del lavoro sotterraneo del comunismo. La vecchia talpa ha incominciato a scavare per tempo... In certi momenti dell'antichità classica vi fu produzione veramente sociale quasi in senso moderno e in effetti vi sono studiosi che sonostati portari a parlare di capitalismo antico. Per noi non è esatto. Anche se lo sviluppo della produzione e dei traffici era notevole, per esempio in Roma antica, dopo che con l'ellenismo (Alessandro il macedone) si era perfezionato lo strumento statale, non si può parlare di capitalismo. E' vero che Roma sviluppa, per la prima volta nella Storia, il lavoro socializzato permanente: in Fattori è ricordata la potenza collettiva di questo lavoro socializzato. Per la prima volta il lavoro sociale entra nella struttura della società come elemento stabile e non temporaneo. La rete stradale tra le città dell'impero, gli acquedotti, lo scolo delle acque, le caserme, gli avamposti fortificati, gli eserciti permanenti, le strutture burocratiche, tutto ciò diventa sistema e Roma, per la prima volta, generalizza il lavoro collettivo organizzato, facendolo prevalere su quello individuale. E' una struttura che dura intatta per molti secoli senza variazioni di rilievo, ma generalizzazione del lavoro sociale non significa che tutta la produzione si svolgesse a quel modo. Si trattava sempre di opere costruite dalla collettività per la collettività, quindi valori d'uso grandiosi cui si accompagnavano beni prodotti da individui come valori d'uso per altri individui. Quindi il modo di produzione antico evoluto presentava una caratteristica visibilmente sociale, anche esuberante come manifestazione organizzativa e monumentale, ma si trattava di un modo di produzione in cui la socializzazione era più un fatto di struttura organizzativa che un fatto che riguardasse la natura intrinseca della società. Siccome ogni produttore non era separato dal proprio prodotto per quanto usufruito collettivamente, siccome produceva in quanto individuo in somma ad altri individui applicando lavoro individuale e non lavoro medio sociale, l'intera società era di natura completamente diversa rispetto a quella moderna.

Il latifondo era condotto con mezzi non più primitivi di quelli ancora in uso in certe campagne d'Europa cinquant'anni fa; la produzione in serie era già conosciuta e vi erano specialisti in ogni ramo non meno bravi di quelli che oggi fanno lo stesso mestiere; i commerci erano fiorenti e certe ricchezze private raggiungevano vertici di concentrazione tali da preoccupare persino gli imperatori. Ma il ciclo del prodotto era quello del consumo diretto e immediato, anche se molta produzione circolava già attraverso un mercato che copriva tutto l'impero e si scambiava con i prodotti delle popolazioni d'Africa e d'Asia.

Questa piccola premessa ha ancora bisogno di un breve riferimento al passaggio intermedio che è quello avvenuto nel Medioevo, una vera rivoluzione. Inutile ripercorrere le tappe dell'accumulazione primitiva, per questo rimandiamo direttamente a Marx. Per quello che ci interessa, però, non si può fare a meno di sottolineare come la metamorfosi delle forme economico-sociali debba essere studiata sulla base del passaggio di una forma nell'altra attraverso profonde fratture che separano le epoche. Ciò è indispensabile per sottolinerare un concetto che dovremo ribadire più volte: l'inizio di una nuova fase, cioè il trapasso dalla vecchia forma alla nuova non ècreazione. La nuova società è costruita con i materiali che si formano nella vecchia, vale a dire che le caratteristiche peculiari di ogni società nuova sono ricavabili dalle leggi di sviluppo inerenti la società vecchia. Sono queste leggi di sviluppo che la distruggono e fanno scaturire un nuovo modo di produzione. Qualunque concezione del trapasso verso la società futura che non tenga conto di questo dato di fatto ben spiegato da Marx è da considerare alla stregua di un deteriore utopismo fuori epoca.

Terminato il ciclo storico dell'antichità classica, con l'espansione massima di Roma e l'introduzione di tecnologie sviluppate al massimo per l'epoca, il Medioevo sembra un'epoca barbarica, un ritorno indietro nella storia. La distruzione della civiltà antica non poteva essere più drastica. Ciò (e peccato per le distruzioni) è un fatto rivoluzionario. La cosiddetta barbarie medioevale introduce un elemento essenziale, complementare a quello della produzione socializzata che non va perso, e che prima non esisteva: il mercato in quanto tale. Il denaro assume le prime potenzialità di mezzo di accumulazione. Mentre gli uomini credevano ancora di far sopravvivere l'antichità classica (il Sacro Romano Impero), nella vita quotidiana si faceva strada il nuovo scambio mercantile e soprattutto, intorno al XII secolo, la nuova forma di lavoro socializzato: il lavoro a salario. In Italia, dove è addirittura arduo parlare di feudalesmo date le condizioni particolari di sviluppo, Federico II (visto che ne parlavamo prima) è un imperatore che si credeva restauratore della romanità classica perduta e seminava impianti capitalistici dove s'insediava. La Zecca di Stato a Palermo non era solo il simbolo della maestà imperiale ma il centro dei traffici moderni su cui s'innestava un'attività che non è temerario chiamare bancaria. L'imperatore neoromano abbatte feudatari, confisca castelli e impianta manifatture; stimola i traffici marittimi della Sicilia e monopolizza il sale, l'oro, la produzione di metalli, controlla la produzione di stoffe, l'importazione della porpora...

Voce dal fondo: le prime dogane...

...Istituisce le prime dogane non tanto per il dazio, che è tipica gabella feudale, quanto per il controllo dei movimenti e la registrazione delle merci in entrata e in uscita (è il primo tentativo input-output di contabilità su di un'economia di trasformazione manifatturiera; non a caso nel secolo XIII nasce nel Nord la banca mercantile con strumenti sofisticati come le carte di credito, ma al Sud nasce il bilancio nazionale) e la prima università di stato. Insomma, tutta l'attività economica viene pianificata al fine di dare forza all'impero e, attraverso lo Stato, invece del ripristino della romanità nasce qualcosa di nuovo, un'economia e un diritto completamente diversi da quelli che lasciarono i predecessori longobardi e normanni.

Proprio in quel periodo si estende l'utilizzazione degli Ebrei come tramite per il denaro che frutta denaro, mestiere che non era compatibile con gli insegnamenti cristiani. C'è molta semplificazione storica in questa semi-leggenda, ma è un fatto che Federico prima li massacra e poi li fa entrare nel proprio sistema economico come protagonisti. Del resto lo stava facendo anche con gli Arabi si Sicilia. Dopo averne eliminato definitivamente l'influenza, costituisce dei centri musulmani all'interno della cristianità, come a Lucera e saranno arabi alcuni reparti militari d'élite nel suo esercito. La società federiciana si universalizza facendo concorrenza alla Chiesa e non è strano che si incomincino a sfruttare, sull'onda - sembra - di attriti sotterranei che maturavano all'interno della stessa Chiesa, le conoscenze e la rete di comunicazioni dei Cistercensi. Questi, per inciso, nel secolo precedente avevano basato la loro esistenza esclusivamente sul lavoro dei frati e dei conversi, finendo per introdurre il lavoro salariato nelle loro bonifiche agrarie. Con i proventi avevano dato vita ai primi rudimentali strumenti bancari (di fronte all'abbazia cistercense di Staffada c'è un casotto duecentesco ben conservato che le guide chiamano "loggia del mercato"; in realtà è troppo piccolo per essere esso stesso un mercato ma è sufficientemente massiccio per essere il luogo dove presumubilmente si maneggiava il denaro che serviva al mercato).

E' indubbio che l'ordine cistercense incomincia ad accumulare sulla base di una produzione socializzata, nel senso di manifattura, di fabbrica. Per la prima volta compaiono in Sicilia, forse sull'esempio cistercense, le manifatture di Stato (sartie di navi, telerie per le vele, metallurgia, saline). Tutto questo fluisce sul mercato e viene venduto in cambio di denaro. Non ci troviamo più di fronte alla socializzazione del lavoro finalizzata ad uno scopo transitorio, alla costruzione della fortezza o del tempio, innalzati senza corrispettivo di denaro con la forza di tutta la società, ma di fronte ad un lavoro socializzato nel senso che si produce tramite e per un mercato. E' vero che Federico è e rimane un imperatore feudale, come sostiene uno dei suoi biografi antiagiografici (Abulafia), ma è costretto a prendere atto di un fermento economico che non si basa più sui rapporti di produzione antichi. Insomma, la socializzazione del lavoro, che c'è sempre stata, assume via via caratteristiche diverse nel tempo fino a diventare, oggi, la caratteristica principale della società.

Qui entra in gioco Marx con la sua descrizione del divenire della produzione sociale. Nei Grundisse e nel Capitale egli riscrive la storia materialistica di questa sempre più marcata divisione tra il produttore e il suo prodotto, tra un certo tipo di valore d'uso e il valore di scambio, e viceversa, fino al capitalismo. Quand'è che il capitalismo si può chiamare veramente tale? Risponde Marx: quando la separazione tra valore d'uso e valore di scambio si fa totale. Prima che la separazione tra il produttore e il suo prodotto, tra il lavoro e l'oggetto che viene alienato, cioè finché non è effettiva e totale l'alienazione, non si può parlare di capitalismo pieno.

Tutto il lavoro che stiamo preparando dovrebbe essere introdotto su questo macigno che è il punto di partenza vero del capitalismo moderno e che in pratica è condensato - come concetto fondamentale - nel VI Capitolo inedito del Capitale (tra l'altro, curato dal Partito all'epoca della prima edizione). Questo capitolo aveva provocato, all'interno del partito, un certo fermento. Era stato "riscoperto" e suggerito ad un editore italiano per la pubblicazione perché era stato giudicato molto importante (l'edizione della Nuova Italia è a cura di Bruno Maffi). Erano state fatte delle riunioni e scritti degli articoli sul giornale, articoli che abbiamo in programma di pubblicare. Quel semilavorato di Marx era stato giudicato importante perché lì c'era praticamente la chiave del modo di produzione moderno, ovvero la discriminante fra il vecchio capitalismo e il capitalismo fatto, finito, modernissimo; la discriminante fra la dominazione formale del capitale e la dominazione reale del capitale, o detto all'inverso - come dice Marx - fra la sussunzione formale e la sussunzione reale del lavoro al capitale.

Dunque Marx registra, nel passaggio alla produzione moderna, non solo un salto di qualità, ma quasi un salto di natura, quasi che il capitalismo precedente non fosse proprio capitalismo. La natura del capitalismo "vero" è allora questa sussunzione reale del lavoro al Capitale, che per Marx è un altro modo di dire: pasaggio dall'estorsione di plusvalore assoluto all'estorsione di plusvalore relativo. Noi leggiamo in sintesi: centralizzazione, macchinismo, organizzazione, automazione, dominazione dei processi, lavoro altamente socializzato, rovesciamento della prassi... fino al confine della fabbrica che, come dice Venezia, segna il limite del comunismo operante qui, adesso, nella società capitalistica "così com'è" (questo invece è Marx). Vedremo che la cosa è un po' più complicata, ma questo è il punto di partenza fondamentale. Al confine della fabbrica il prodotto si trasforma in merce. Il suo carattere feticistico le imprime tutte le caratteristiche della società, in essa sono impressi i rapporti fra le persone e fra le classi, fra il valore d'uso e il valore di scambio, fra il soggetto-uomo che la produce e il suo diventar cosa, oggetto-merce a sua volta.

Ora, tutto questo non avrebbe modo di essere compreso se il VI Capitolo inedito non fosse il coronamento di tutto un lavoro (dai Grundisse a Per la crtitica dell'economia politica fino all'ultimo paragrafo tronco del Capitale) che spiega tutta la questione nella sua dinamica storica, nel processo del divenire del capitale moderno. Il punto di passaggio, se qualcuno andasse a cercarlo nella storia, non esiste. Cioè non esiste una data, un decennio, un secolo (beh, certo, neanche un secolo) in cui si possa dire: qui è il passaggio dalla sussunzione formale del lavoro al capitale alla sussunzione reale. Non c'è modo di trovare un punto nel tempo. Quante volte diciamo che la storia si svolge tutta in una volta e che contiene in ogni punto un'infinità di caratteristiche tipiche di ogni epoca. Si può dire per esempio che c'è una differenza sostanziale tra i Ciompi, veri lavoratori salariati, e i contadini che nelle bonifiche cistercensi ad un certo punto andarono ad affiancare i conversi prestando la loro opera in cambio di denaro. Nella Firenze di fine XIV secolo gli operai dell'industria tessile non solo lavoravano a salario e alienavano il loro prodotto, ma facevano parte di un sistema di lavorazione in cui l'individuo si dissolveva in un gruppo umano che prestava già lavoro sociale. Si era ciè di fronte a produzione industriale tout court, immersa in un complesso di relazioni che, se non permetteva ancora la dominazione reale del capitale, già si basava sull'estorsione di plusvalore relativo. E comunque si trattava ancora di un fenomeno di maturità inferiore rispetto ad esempi successivi, come le grandi manifatture cinquecentesche di arazzi e merletti e le fabbriche di armi della Rivoluzione Francese che per la prima volta applicarono la produzione industriale in serie. E comunque, anche in questo caso, ci troviamo ancora di fronte a capitale di tipo mercantile. Ci vuole la grande industria dell'800 coniugata allo sfruttamento dell'energia non animale e non naturale (macchina a vapore) per entrare finalmente nel regno del capitale maturo e, di conseguenza, nel regno del comunismo (qui metteremo tutte le citazioni del caso, già viste e imparate a memoria).

Marx sviluppa tutta questa parte soprattutto nei Grundisse come per chiarirsi le idee; quando nel Capitale riprende il tema, va dritto alla dimostrazione, non si dilunga più tanto. O meglio, tratta a fondo i fenomeni economici e sociali dimostrando come il comunismo lavora nella società così com'è. Le dichiarazioni esplicite sulla società futura sono rare ma piazzate nei punti cruciali come batterie di cannoni cui tutto il resto fa da alimentazione in polvere e proiettili. Questo metodo è importantissimo e lo si dovrebbe analizzare a fondo. Marx non sta scrivendo un'utopia, sta scrivendo il libro sul comunismo. E lo chiama Il Capitale. Questo procedere avrà pure un significato. Non sta intrattenendo il lettore con una dettagliata descrizione della società che gli piacerebbe: sta dimostrando che una certa futura società è implicita in questa che sta sotto gli occhi di tutti. Questa società ha demolito il vecchio modo di produrre e con esso ha demolito il vecchio modo di pensare. Ora sta demolendo sé stessa e porta alle estreme conseguenze il distacco tra l'uomo e il suo prodotto, sta cancellando una volta per tutte il significato millenario degli oggetti che legano l'uomo al vecchio regno della necessità, perché quegli oggetti stessi non sono più il tramite dell'uomo con la natura ma sono alienati, persi per sempre. Nel regno della libertà (del rovesciamento della prassi) non si produrrà più per alienare e nello stesso tempo possedere gli oggetti in un ciclo assurdo, ma per godere degli oggetti prodotti. E, come dice Marx, si può godere solo ciò che si possiede, ma non si può possedere tutto, mentre si può godere tutto solo se non si possiede niente. E' questo, questo che sta sotto i nostri occhi, il mondo che prepara la fine del possesso parziale e l'avvento del godimento totale. L'umanità non ha mai abbandonato del tutto questo antico sapere, solo che nel periodo che ci separa dal comunismo primitivo l'ha relegato alle religioni o alle filosofie e soprattutto non realizzato se non per eccezioni più uniche che rare: il Papa ha tutto e non possiede niente.

L'evolversi materiale della produzione si accompagna con l'evolversi "spirituale" della società. Marx fa notare che la base materiale della società ha un suo riflesso nel cervello degli uomini e si tramuta in un'ideologia che permea di sé praticamente tutta la struttura sociale attraverso gli individui. Questi ultimi poco per volta rinunciano alla loro individualità produttiva ed effettiva, nel senso che posano il loro cervello, il loro modo di pensare individuale, accanto al prodotto individuale e lo alienano con esso. Paradossalmente, proprio mettendo il cervello all'ammasso, cioè democratizzandosi, ipervalutano il proprio Io, il proprio egoismo, la propria opinione. Questo è necessario. Se così non fosse, non sarebbe possibile rifilare a milioni di individui centinaia di milioni di oggetti che nella maggior parte dei casi non vengono neppure utilizzati (tranne il televisore che serve a vendere altri oggetti). Questo paradosso è banale, ci arriva anche Umberto Eco. Ma il vero paradosso del superuomo di massa è un altro: più rincoglionisce individualmente, più si adatta alla rivoluzione che avanza, perché diventa completamente dipendente dalla società. Non per niente i veri e puri reazionari del nostro tempo non idealizzano più adunate oceaniche e futurismi industriali ma si ritirano nei boschi del Montana. Questa è la grande sconfitta della controrivoluzione fascista-progressista di vecchio stampo.

Marx dice: siccome la borghesia è alla base del pensiero dominante, e come classe domina non solo dal punto di vista materiale, ma anche ideologicamente, ne risulta che tutte le interpretazioni del passato, come del futuro, passano attraverso la sua ideologia. Questa parte è grandiosa in Marx ed è nei Grundisse. Quando la borghesia parla della storia, ne parla come se essa stessa fosse esistita nel passato a combinare le cose di cui racconta. Non si accontenta di stabilire per suo principio conservatore che esisterà nel futuro per l'eternità, inquina la sua propria conoscenza anche indagando sul passato. Se parla della produzione degli antichi Romani ne parla come si trattasse di produzione già socializzata nella forma permessa dal Capitale; lo stesso denaro è già Capitale e certi ricchi possidenti o trafficanti sono descritti come banchieri. Se parla di religione dell'antichità ne parla come essa stessa interpreta la religione, cioè rende antica la sua propria religione attuale senza andare troppo per il sottile, cioè senza badare che nel frattempo essa si è trasformata attraverso molteplici rivoluzioni. In questi duemila anni il cristianesimo è diventato altra cosa rispetto alle sue origini, ma esso viene proiettato indietro così com'è oggi, non parliamo poi di altre religioni, di cui si parla semplicemente a vanvera, proiettando su di esse la concezione borghese del mondo e della società. Vale a dire che la borghesia non è in grado, a causa di questa sua automistificazione ideologica (e neanche chi, pur non essendo borghese, vive nella società borghese) di capire quello che succedeva nei rapporti fra gli uomini e la divinità. Tutto questo lo possiamo verificare con estrema facilità. Prendete per esempio questo libro che restituisco a chi me l'ha prestato: è una biografia di Santa Ildegarda. Il pensiero medioevale comprendeva una mistica che noi a malapena riusciamo a penetrare; le sue visioni del mondo e del futuro si manifestano con immagini e oscurità che i contemporanei afferravano al volo mentre noi oggi abbiamo bisogno di un lavoro di interpretazione. Qui le immagini evocate da Santa Ildegarda sono trasformate in modo indegno, le sue fiamme allegoriche e apocalittiche diventano scene degne di Indipendence Day. L'autrice ha troppo in mente la sua società per poter descrivere le passioni di una mistica medioevale; sfoggia la sua erudizione ma ha una struttura mentale che proietta nel libro una bomba atomica, non fuochi siderei.

Ora, non è possibile pensare a Ildegarda, a Bernardo, a Tommaso, a quell'epoca terribile e portentosa che vede lo scontro gigantesco tra la Chiesa e le eresie, l'eplosione dei mercati, l'innalzamento di diecimila cattedrali collegate da strade nuove sulle quali non scompariva mai dalla vista un campanile, sulle quali i pellegrinaggi si confondevano con le fiere, sulle quali marciarono in migliaia per le Crociate, non è possibile pensare a Bernardo, o al suo rivale Abelardo con la testa di un borghese del XX secolo. Esempio. Qui siamo a Torino, culla della prestigiosa scuola egittologica italiana ecc. Ebbene, questa è la culla della scuola archeologica e storica che più di tutte razionalizza un passato, che è ancora tutto da scoprire, secondo il metro borghese. Naturalmente traducono, cercano, conoscono, catalogano secondo criteri modernissimi e sofisticati, hanno strumenti di indagine tecnologici, ma non riescono a scrivere di quest'antica società senza che traspaia il borghese travestito da egiziano antico. Leggete Sinuhe e scoprirete un medico della mutua che fa carriera tra importanti capitalisti, ignobili gangster e ambiziosi politici di tremilacinquecento anni fa. E dicono che l'archeologo francese autore della saga egiziana che tanto vende in questo momento sia ancora peggio (ma forse i suoi colleghi sono solo invidiosi perché vende un sacco e comunque anche questo indice di gradimento è significativo).

Tutto ciò non è folklore ma espressione di un fatto importantissimo con risvolti per noi fondamentali. Se credessimo che l'uomo possa, al di fuori di queste determinanti, pensare in altro modo e proiettarsi correttamente nel futuro o nel passato con la sola forza della sua autonoma coscienza, con lo studio approfondito o altro, sbaglieremmo di grosso. L'uomo non riesce neppure a giudicare il presente secondo un'autonomia di pensiero, figuriamoci se riesce a farlo con le epoche passate o future. Ma nello stesso tempo deve esserci qualcosa - ci insegna Marx - che permette all'uomo di immaginare un superamento del capitalismo in cui è immerso. Se non fosse così, dall'interno di questo sistema l'uomo non riuscirebbe a immaginare nient'altro che robaccia borghese e non saremmo qui a parlare di comunismo, di società futura e di comprensione del divenire umano attraverso la sua storia fatta di lotte ecc.

Marx ci offre uno strumento potentissimo d'indagine, quello stesso che abbiamo più volte ripreso negli ultimi tempi e che è per esempio utilizzato abbondantemente nella prima parte del nostro libro La dottrina dei modi di produzione: il principio di ricorrenza. Detto in altro modo e più estesamente, ora lo sappiamo, si tratta del passaggio, sotto trasformazione, di invarianti da un modo di produzione all'altro. Se noi riusciamo, spinti da elementi che esistono nella realtà, a vedere la dinamica dei sistemi sociali, e quindi la "periodizzazione" (come dicono i compagni tedeschi) della storia e delle teorizzazioni umane, allora vediamo anche la periodizzazione del giudizio degli uomini rispetto a tutte le società che ci hanno preceduto, compresa quella rispetto alla società in cui si vive. Se dall'interno di questa società non riusciamo a capire che cosa essa sia, abbiamo però la possibilità di proiettarci fuori, oltre, per guardarci indietro e analizzare perfettamente i suoi meccanismi. Spero che sia abbastanza evidente che ciò ha analogia con i procedimenti scoperti da tempo nell'ambito delle scienze e che abbiamo già affrontato in riunioni passate. Il fatto è che noi non possiamo proiettarci i n un sistema più potente, o futuro, senza avere un materiale trampolino di lancio su cui mettere i piedi. Se noi riuscissimo a vedere la società futura, da cui giudicare quelle passate, solo attraverso la potenza del pensiero, saremmo al livello della creazione di elementi prima inesistenti, ma sappiamo che solo Dio crea. Come abbiamo visto, Marx dice che se non ci fossero elementi materiali della società futura in questa società così com'è, il fatto di abbatterla dipenderebbe dalla volontà pura, dal pensiero ideale e quindi saremmo come dei Donchisciotte che corrono contro i mulini a vento. Quindi la cognizione del comunismo sviluppato non viene dal futuro perché non c'è ancora; non viene dal passato perché in esso conosciamo solo il comunismo primitivo degli ominidi (e oltretutto la conoscenza del passato è inficiata completamente da un'indagine filtrata attraverso l'ideologia borghese).

La cognizione del comunismo sviluppato ci viene solo dalla società così com'è. Per questo possiamo dire, con Marx, che esso non è un'idea alla quale far corrispondere il mondo ma un processo di trasformazione reale in corso che noi umani abbiamo ad un certo punto scoperto così come si scoprono le leggi di natura. E' stato relativamente facile in ambito non sociale dire che per valutare un sistema ci dobbiamo spingere da quello meno potente a quello più potente che lo comprende trasformato. In ambito sociale questa apparentemente elementare questione posta da Marx non viene digerita neppure dai marxisti più ortodossi. Il fatto è che sopravvive inalterato tutto l'utopismo del passato. Immaginando il comunismo come un modello da presentare alla società affinché questa vi si adegui, non si capisce come diavolo si faccia a spingersi nella società futura se questa non esiste ancora. E' qui che Marx dà il colpo di grazia a tutte le concezioni antiche del cambiamento. Come - dice - il comunismo non c'è ancora? Non è vero. Perché il comunismo non è la società futura. Il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Adesso, qui. E' il capitalismo che, negando sé stesso, si autosopprime, diventa il suo contrario.

E' di fronte a questo semplicissimo assunto - verificato empiricamente - che cadono tutte le teorizzazioni aberranti sui partiti compatti e potenti da costruire, sulle prese dei palazzi d'inverno, sui movimenti verso le masse, sulle questioni sindacali, sulla missione del proletariato e delle sue avanguardie, su tutta la paccottiglia marxista-leninista innalzata dalla controrivoluzione come barriera contro l'emergere del comunismo.

Nella serie n delle formazioni economico-sociali, dice Amadeo, la nostra società è n + 1. Qual è l'elemento che fa scattare il salto di fase, il passaggio da n a n + 1? Tutta la scuola marxista, a partire da Marx, individua nel proletariato la classe che farà saltare da un punto di vista pratico, formale, efficiente e storico i meccanismi della società borghese. La classe operaia è dunque elemento centrale nella teoria della trasformazione rivoluzionaria della società. Domanda: perché mai Marx individua in una classe particolare, oltre tutto la meno adatta ad elaborare teorie scientifiche sociali, la funzione esplosiva che farà saltare i rapporti esistenti? Perché mai la classe operaia dovrebbe essere depositaria di questo grande potere del futuro tanto da rappresentare il becchino della società presente? Ha forse la classe operaia delle qualità immanenti che la rendono adatta a questa immane missione?

La questione è meno filosofica di quanto appaia e decisamente semplice: la classe operaia è formata da un insieme di uomini che vivono tutti i giorni dentro il principale elemento che contribuisce a cambiare lo stato di cose presente. Non è l'ideologia, non è la sottomissione o lo sfruttamento morale, non sono i rapporti tra le persone o tra le classi, non è la comprensione di uno stato di cose, non è la coscienza di essere una particolare classe produttrice di tutto il valore. Il processo materiale che determina la classe a essere la dinamite che farà saltare questa società è il processo complessivo della produzione.

Tutto ciò nell'opera di Marx, specie nel Capitale è detto a volte in modo esplicito ma il più delle volte in modo implicito; la difficoltà sta nel collegare le poche cose esplicite, quando il contesto ci ha chiarito come utilizzarle, con tutto il discorso implicito. Marx non è un osservatore banale della realtà contingente e non è un caso che la struttura del Capitale sia proprio costruita sulla base di un divenire storico della società umana. Le determinazioni che pesano sulla classe proletaria sono già contenute nella struttura del Capitale. Il libro, si sa, incomincia con l'analisi della merce e tutto ciò che è implicito in questa categoria capitalistica è alla fine reso in senso storico ed esplicito nel paragrafo sul carattere feticistico. Non per niente Amadeo lo mette in rilievo negli Elementi. Qui la merce rivela effettivamente di essere lo specchio reale di questa società. I rapporti tra le cose prodotte socialmente sono rapporti tra persone, quindi rapporti tra classi. E il primo capitolo si chiude con questo.

Ora, perché Marx, che qui tratteggia il rapporto di classe all'interno della merce, non continua il discorso sulle classi e le loro determinazioni? Sappiamo che il capitolo sulle classi doveva essere alla fine del Terzo libro, dove ne rimane un abbozzo. Perché c'è questo salto nel Capitale? Da un punto di vista logico sembrerebbe ragionevole continuare l'analisi dalle determinazioni sociali della merce alla sua circolazione (come avviene nel secondo e terzo capitolo), poi alla "trasformazione del denaro in Capitale" (come nel quarto capitolo) e quindi alle classi, dato che è in questo processo che esse si fondano, l'una produttrice di plusvalore (assoluto e relativo) e l'altra che se ne appropria. Invece Marx dispiega tutto il processo materiale del divenire del lavoro sociale. Non è solo una questione di procedimento dall'astratto al concreto, dal generale al particolare. Attenzione: Il Capitale non è stato scritto di getto: ci sono stati prima i Grundrisse, quindi Marx sapeva già cosa faceva. Il Primo Libro non è un semilavorato come quelli successivi, ma un testo che lui ha corretto per la pubblicazione definitiva. Se il percorso è quello il motivo va ricercato non tanto nell'esigenza di seguire qualche percorso logico in generale, ma un percorso che sia coerente con il trapasso storico passato e quello ancora da venire. La potenza di questa descrizione è tutta ricavata attraverso la descrizione minuziosa della crescita della forza produttiva sociale e questa viene descritta attraverso la storia del potenziamento del lavoro sociale. Se leggiamo anche solo l'elenco dei capitoli che vanno dall'inizio a quello sulle macchine, vediamo che il vero capitalismo nasce in una dinamica che porta all'estorsione di plusvalore relativo e questa è resa possibile dalla divisione del lavoro e dalla manifattura.

Tutto ciò porta al capitolo sulle macchine, alla descrizione di una società ormai matura per un aumento illimitato della forza produttiva e quindi della necessità del comunismo. Ma la necessità del comunismo in Marx non è un qualcosa che l'uomo sente soggettivamente: essa è necessità in quanto oggettività, realtà effettiva, che produce cambiamento. Vale a dire che in Marx c'è la dimostrazione che con il sistema di fabbrica il capitalismo si avvia verso la sua propria distruzione. E si capisce, perché nel sistema di fabbrica è implicito il comunismo.

Nel capitolo sulle macchine non si poteva non considerare il sistema delle macchine e quindi la fabbrica automatica. Ora, il telaio automatico disponibile all'epoca di Marx era un gioiello di meccanica, ma non era nemmeno da mettere in confronto con le macchine automatiche di oggi, con i cicli completamente automatizzati di oggi. Eppure, nonostante le evidenti differenze tecnologiche, nel ciclo di allora vi era tutta la potenza dispiegata della società nuova. Già allora.

@@@ Di qui in poi il microfono è stato forse orientato male o posto più distante e si fa fatica a seguire, il testo è un po' ricostruito a orecchio. Qui si ferma anche la prima revisione al testo.

Il fatto tecnico non introduce una differenza sostanziale, ma quello che succede intorno al fatto tecnica diventa veramente essenziale. Perché la tecnologia, l'applicazione della scienza - e qui ci sono dei bellissimi passi sul progresso parallelo tra scienza e tecnologia. Tutta l'applicazione della scienza alla produzione permette un avanzamento della tecnologia e viceversa, per cui l'uomo diventa completamente asservito alla scienza e alla tecnologia. Cioè tutti queste protesi che l'uomo si crea attorno a sè per aumentare la sua forza e la sua velocità, anche la sua intelligenza in un certo senso, intesa complessivamente come sistema, non liberano l'uomo dalla sua necessità di sviluppare un'energia per mantenersi, ma lo rendono più schiavo di prima. Questa è una contraddizione. Non può esistere per sempre una contraddizione tra il fatto che le forze produttive liberano l'uomo e un modo di produzione lo rende sempre più schiavo.

Allora Marx va a indagare che cosa succede all'interno... e lì allora naturalmente ci sono tutte le questioni legate all'introduzione della macchina, l'anticipo rispetto a quella che sarà la caduta del saggio di profitto ecc. ecc. Ma c'è la descrizione del ciclo produttivo che è veramente formidabile. Che cosa succede all'interno del ciclo produttivo? Che finché il prodotto del singolo operaio non esce dalla fabbrica non è merce. Questo l'avevamo già visto all'epoca, quando l'aveva tratteggiato Venezia e questo qui è veramente il nucleo fondamentale su cui si basa tutta la costruzione successiva e da cui trarremo tutte le conseguenze.

Ora, brevemente, bisogna aggiungere alcune cose rispetto a quanto è stato detto finora e non c'è stato tempo assolutamente di prepararlo, ma qualcosina abbiamo già intravisto. All'interno del ciclo produttivo c'è un funzionamento, ci sono delle relazioni che sono di natura completamente diversa dalle relazioni che esistono al di fuori del ciclo produttivo. Questa è già una cosa che nessuna società esistita finora ha conosciuto. Che cosa significa? Che al di fuori del sistema produttivo intanto vige l'anarchia; e lì dovremo vedere quando stenderemo per iscritto tutti i vari particolari, che cosa significa effettivamente anarchia della società capitalistica. Non significa soltanto separazione tra valore di scambio e valore d'uso, cioè la merce viene prodotta per la sua natura di valore di scambio e viene utilizzata secondo il suo valore d'uso dal singolo acquirente. Cosa che fa già dire a Marx, a livello di riproduzione semplice che basta immaginare che c'è un qualche cambiamento rispetto al valore d'uso mentre la produzione, nel vulcano della produzione, secondo il valore di scambio è sempre uguale, e gli scaffali famosi di Marx si riempiono, il prodotto diventa invendibile ed è immediatamente crisi. Sembra un discorso banale, ma quella è la teoria della crisi in Marx. Non c'è bisogno di andare a vedere le complicazioni che avvengono nella riproduzione allargata con tabelle, cifre [@?]... Quando c'è la potenzialità che una contraddizione esploda, quella è già la teoria della crisi. E l'avevamo vista all'epoca coi compagni di Roma quando insistevano su questo punto.

Ma la cosa più importante è che questa contraddizione si confronta con un'altra contraddizione che è all'interno, cioè la contraddizione esterna, cioè da quando finisce il ciclo del vulcano a quando inizia la palude, tutta questa cosa qua si scontra con il ciclo esclusivamente interno. Se noi andiamo ad analizzare perché c'è un vulcano della produzione, vediamo che lì effettivamente, non essendoci quel tipo di anarchia strutturale - cioè è una natura della società avere questa anarchia - all'interno del ciclo produttivo non esiste, all'interno del ciclo produttivo non c'è dissipazione, non solo nel senso di sciupio che è già un buon termine di paragone, c'è proprio dissipazione di energia, cioè nel senso meccanico di attriti, insomma nel senso del secondo principio della termodinamica. All'interno del ciclo produttivo c'è il contrario di quello che c'è all'esterno. All'esterno c'è entropia, nel senso di tendenza al massimo disordine, all'interno del ciclo produttivo c'è immissione continua di informazione, tendenza al massimo.... e qui bisogna fare forse uno schizzo...

[@ disegno alla lavagna]

Dunque, il problema è questo.

Quando esistono delle molecole separate in un insieme è inevitabile che ci sia dissipazione, disordine, attriti, perdita di energia lungo la strada insomma. Questo era già stato notato nella meccanica dell'Ottocento, ne parla addirittura Engels nella Dialettica della natura. Un sistema lasciato a se stesso, sistema che abbia molecole in movimento, o pezzi in movimenti, o individui in movimento, comunque un sistema granulare, discreto, fatto di elementi discreti, che possono essere [@ in?] tutte le relazioni che si vuole ma non seguono un ordine particolare, o seguono un ordine che è basato su delle contraddizioni, questo sistema non può funzionare, entra in crisi. Infatti c'èbisogno di una retroazione affinché il sistema possa sopravvivere. Facciamo un esempio (stiamo parlando della palude però adesso): se il sistema - è un sillogismo di tipo elementare - se il sistema ha delle caratteristiche cumulative, e quindi ha una retroazione positiva, l'accumulazione non può che essere di tipo esponenziale. Perché se il tipo di retroazione è quello, se a un elemento ne aggiungo un altro è come dire "aumenta qualche cosa del 2% nel tempo t, nell'intervallo di tempo". Tutte le volte che noi diciamo: "cresce del 2%, 1, 3, 4, 5, 10 è una crescita esponenziale, cioè senza limiti, va verso un asindoto. Questo non è possibile in un mondo finito. Tutti questi sistemi che hanno crescite esponenziali arrivano a qualche tipo di freno, qualche tipo di disastro, di catastrofe. Uno degli elementi della crescita esponenziale è che il sistema cresce cresce cresce, la popolazione invece non cresce in modo esponenziale, crescessero tutti quanti insieme va bene, come dimostra Bucharin - ma se uno degli elementi non cresce c'è la crisi. Ma non è questo il dato fondamentale.

Il dato fondamentale è che all'interno del meccanismo capitalistico il tipo di crescita esponenziale porta anche alla concentrazione dei capitali dell'industria, l'industria diventa grande e comincia ad espropriare i contadini, gli artigiani ecc. ecc., espropria sempre più in grande - il discorso che fa Marx, no? - finché vengono espropriati i capitalisti. E' evidente: se c'è una crescita esponenziale anche della fabbrica che si concentra, si mangia spazio intorno, elimina capitalisti, diventa monopolio. Il meccanismo della libera concorrenza porta al monopolio. L'unico sistema di retroazione che la società fatta in questo modo riesce a inventare è che lo Stato blocchi i monopoli. Bill Gates se ne sta accorgendo! E' già qualcosa di diverso del semplice computo di energia di pezzi meccanici. E cioè: abbiamo una retroazione che ha a che fare con l'informazione del sistema; ovvero, iniettando informazione dentro il sistema ordine, il sistema riesce a sopravvivere.

All'interno del ciclo produttivo non c'è un'evoluzione darwiniana di questo tipo: io vado verso il disastro, poi me ne accorgo, faccio in modo che qualche tipo di retroazione porti delle correzioni, tiro un sospiro di sollievo, metto la flebo, e vado avanti. Nel ciclo produttivo l'ordine è messo prima. Cioè c'è un piano di produzione, c'è un autoritarismo di fabbrica, il prodotto finito viene progettato, viene progettato il modo di produrre questa cosa qua, l'iniezione di informazione c'è prima. Quindi noi abbiamo - è qui che volevo disegnare la "macchia di leopardo" - un mare di anarchia in cui c'è un sistema entropico che a un certo punto si accorge di essere tale e cerca di ovviare in qualche modo. Dall'altra parte abbiamo delle isole che sono assolutamente antientropiche, o sintropiche, o [@ neghentropiche?], tutti i nomi che hanno voluto dare, e che comunque sono fatte così. Non è che si accorgono a un certo punto... se mai migliorano perché col sistema della concorrena, confrontandosi tra di loro introducono più informazione ancora. Non viene solo fatto il progetto, questo lo facevano anche gli Egiziani e i Romani, disegnavano prima le torri, le mura, gli archi o le statue, c'era una produzione secondo un piano; il fatto è che adesso il piano è all'interno di un lavoro assolutamente socializzato e ogni cellula di questo sistema organico sa che cosa fare, sa bene che cosa fare. Non è più un artigiano che lavora, si fa la sua statuetta che poi qualcuno dirà dove mettere; è proprio lavoro medio - Marx usa un'espressione bellissima - è lavoro medio sociale. Ogni cellula esprime un suo lavoro sociale. Mentre nel resto della società invece ognuno pensa ancora con la sua testa, non esiste lavoro medio sociale, non esiste lo scambio medio sociale o qualcosa del genere; ma il lavoro medio sociale esiste, perché la forza-lavoro si confronta con denaro, viene completamente venduta, il proprietario se ne fa quello che assolutamente vuole, e l'operaio l'ha venduta come una merce qualsiasi.

Questo tipo di discorso fa sì che le isole di ordine all'interno del mare di disordine siano un fatto esplosivo di per sé. Tant'è vero che - era qui lo schemino banale che volevo disegnare - se noi abbiamo un insieme fatto - può essere qualsiasi forma, no? - dove ci sono molecole tutte nel disordine che sappiamo... qui ci sono delle isole... all'interno di questo spazio... con invece una... [@?] che è polarizzata ...[@?] C'è una contraddizione esplosiva. Se vi ricordate - ma lo butto lì, è tutto da sviluppare - quando abbiamo fatto le riunioni sul determinismo, alla veloce, abbiamo fatto lo schema ripreso da René Thom a proposito del determinismo e della critica a Prigogine, dove invece di isole di ordine e disordine, si parlava di isole deterministiche in un mare di indeterminismo. Ora, dalpunto di vista della teoria dei sistemi, la teoria degli insiemi e la teoria del caos - e René Thom mette anche dentro la teoria delle catastrofi - sono equivalenti. Cioè, se noi disegnamo un sistema in disordine, o assolutamente entropico, o che al massimo si può concedere un andamento darwiniano, cioè errori, prove ed errori, un ritorno indietro, cioè un sistema di adattamento del più forte, o meglio della sopravvivenza del più adatto, ma all'interno gli mettiamo un organismo che somiglia molto al funzionamento dell'organismo biologico della cellula col suo DNA, col suo programmino ecc. ecc., questi due sono incompatibili. Ma sappiamo benissimo che se questo ha una tendenza entropica è assolutamente dissipativo, non ce la fa a recuperare tutta l'energia che perde, mentre questo invece accumula energia, perché accumula informazione, e più si perfeziona più accumula energia, perché diventa sempre più potente, abbiamo lo specchio di quello che è le forze produttive che si sviluppano, trovano il modo di produzione assolutamente angusto per il loro ulteriore sviluppo, e lo sfasciano. Cioè c'è un'analogia tra la teoria delle catastrofi, che è riassuntiva di tante altre teorie insieme, e lo schema di Marx della prefazione [@ o introduzione?] a Per la critica dell'economia politica.

Ora, è difficile sviluppare in modo teorico questo fatto, ma il fatto che ce lo siamo già incontrati per la strada e il fatto che si può fare un'analogia con quello che dice Marx, il fatto che la frase famosa dei mulini avanti, di don Chisciotte che... ricordiamola esattamente quella frase di Marx... Marx dice: Se noi non trovassimo gli elementi della società futura già in questa, così com'è - sottolinea lui, così com'è - saremmo come dei don Chisciotte ecc., ogni tentativo di cambiarla sarebbe donchisciottesco. Ma è evidente. Se noi immaginassimo l'avvento - usiamo un termine religioso - l'avvvento del comunismo al di fuori delle determinazioni materiali - ricordiamo che René Thom diceva: quelle sono isole.... [@Fine lato A della cassetta]

[@ Lato B della cassetta; manca però un bel pezzo di riunione perché ci siamo dimenticati di girare il nastro]

[@ tutto il pezzo seguente in corsivo e tra doppia parentesi tonda dev'essere parte di riunione - secondo me - sul determinismo!] ((.... noi contrapponiamo al principio di indeterminazione non tanto di Einsenberg quanto di quelli che non credono che le determinazioni portino a risultati molto precisi, riusciamo a fare un collegamento tra tutte queste teorie che la borghesia ha sparso per ragioni tecniche in varie discipline. Ma .... [@?] nel marxismo la vediamo già questa cosa qua; tant'è vero che...)) [@ rumoracci vari: giramento della cassetta?]

... guarda caso, Bucharin quando deve parlare del sistema di transizione....

Allora, Bucharin immagina naturalmente da russo, che ha vissuto la rivoluzione russa, grande, paese, che sta applicando i risultati di una rivoluzione, vede già il socialismo in un paese solo e vede la costruzione del socialismo e di lì non esce. Cerca di farsi uno schema del passaggio dal capitalismo al socialismo e individua nel capitalismo sviluppato un qualcosa di molto interessante; anche perché naturalmente se ne parlava nel Partito russo e Lenin aveva già detto qualcosa di importante. Ora, l'economia del periodo di transizione per Bucharin è un qualcosa che si basa su... il prodotto, una cosa che il capitalismo, quello che sarà l'evoluzione successiva di un prodotto che è già capitalistico e cioè la rete dei trust, la rete mondiale dei trust. Ora, Bucharin fa dei disegnini che sono di questo genere...

[disegno]

qui ci sono i trust, i collegamenti uno con l'altro, viene realizzata quella che Lenin chiama socializzazione internazionale del lavoro. Non è solo un intreccio ma un tipo di relazione organica che il capitale ha in giro per il mondo.

Ora, all'epoca del capitalismo industriale, c'erano delle relazioni che erano indirette, che erano relazioni attraverso un mare di indeterminazioni; cioè erano le grandi concentrazioni di capitale che attraverso il mercato si trasmettevano i prodotti. Nell'epoca del capitalismo finanziario cosa fa? Chiude nelle isole i vari produttori, li ingloba come in una macrocellula di relazioni tra di loro - un po' quello che abbiamo spiegato nell'ultima lettera, no? -, ci sono tante piccole fabbriche che però sono centralizzate sotto un unico controllo azionario, o di qualche tipo di relazione che a noi adesso non interessa andare a vedere. Queste isole a loro volta hanno delle relazioni che sono più macroscopiche di quelle di prima. Quello che non riesce a vedere Bucharin - almeno, sembra di capire; adesso lo studieremo a fondo - è che questo tipo di relazione è un fallimento qualitativo. Siccome non poteva conoscere le questioni dell'entropia (all'epoca avevano altro da fare, non è evidentemente una critica che facciamo a Bucharin), cioè esisteva già il principio della termodinamica, ma non poteva essere fatta la relazione, adesso che la borghesia stessa ha fatto questo tipo di relazioni separandole in tutte le loro discipline, ecco che i marxisti scoprono che l'avevano già fatto loro. Questo potrà dare fastidio, infatti troviamo sempre della gente che dice: piantatela lì di dire che l'avevate già detto prima, ma in effetti funziona proprio così!

Ora, il compito nostro, rispetto alle riunioni che dovremo fare, ed io finisco perché non saprei dire molto di più rispetto a queste cose, è andare a individuare all'interno dei testi marxisti tutto quello che cipuò fare da supporto per questo tipo di considerazioni. Non solo, ma fatto il lavoro rispetto ai testi marxisti allarghiamo un po' il cerchio e vediamo se per caso qualcuno non abbia già detto qualche cosa... Per esempio, è interessantissimo (e se non lo trovo a poco prezzo lo comprerò nuovo, pazienza, vuol dire che non andrò in malora) il libro di Jeremy Rifkin, intitolato Entropia. E' una visione termodinamica... è un libro molto interessante, anzi è più interessante ancora se messo in relazione a quello che scriverà dopo su La fine del lavoro. Se noi sviluppiamo questi temi... è come se fosse un lavoro giovanile, quando non era ancora tanto famoso e osava... fa lo stesso discorso: parla di crescita esponenziale, di dissipazione di energia, parla di isole di produzione, parla di mercato, parla di keynesismo, parla di misure che sono già state prese, parla di teoria dei sistemi in riferimento al secondo principio della termodinamica; e arriva alla conclusione che questa roba è...[@?]. E poi naturalmente nelle ultime due o tre pagine fa i suoi pistolotti morali e il suo predicozzo che non ci interessa. Ma l'analisi è veramente formidabile.

Ora, siamo noi che leggendo delle cose che dicono i borghesi ci lasciamo trascinare verso di loro, o sono stati i borghesi che, come già da un po' di tempo diciamo che bisognerebbe anche fare come studio, capitolano di fronte al marxismo? Noi sosteniamo, come già Bordiga, che sono i borghesi che capitolano davanti al marxismo. Quindi, da un punto di vista delle dimostrazioni che dobbiamo dare, è molto indietro il tipo di lavoro pratico che abbiamo fatto, ma è già molto avanti la discussione che abbiamo avuto con altri compagni. Per esempio, con Venezia, anche coi tedeschi per altri versi (be', lì su un piano più speculativo, devo dire) e per certi versi anche coi compagni romani, che, a differenza di gruppi che conosciamo, riescono a sopportare, anzi si fanno anche affascinare giustamente da queste nuove prospettive (poi fanno un mucchio di domande, piantano un po' di casino, ma sempre nell'ambito di cose molto accettabili, anzi positive, come direbbe Mimmo).

Allora, la situazione è questa: che sono in circolazione le copie di questo lavoro, credo l'abbia Paolo; qui c'è la raccolta di tutte le citazioni di Marx, con dei piccolissimi collegamenti, ancora un po' grezzi, poi c'è il lavoro su Bucharin, e va bene. Ma per adesso lasciamo perdere, che poi si complica e diventa molto molto difficile andare a vedere il collegamento tra quello che dice Bucharin e quello che è stato poi lo scontro sulla teoria dell'accumulazione socialista, che è un orrore in termini... non è proprio possibile!.. eppure in Russia, in quegli anni è venuto fuori un discorso del genere. E lì, un po' l'appello da cui era partita questa riunione, io ne farò un'altra, la farò su Bucharin e Preobazenski, se riesco, bisognerebbe proprio vedere sul Capitale, qui è stato fatto sul Primo Libro, bisognerebbe vedere gli altri due, uno lo vede Elena e il Terzo non si è impegnato nessuno. Poi ci sono i Grundrisse che sono stati scannerati, diciamo così, da Giorgio, ma non essendo integrato nel nostro lavoro, è molto molto probabile... ha trovato questa bellissima citazione di don Chisciotte, ma è probabile che gliene siano sfuggite altre. Anche perché non è che dobbiamo puntare sulla scoperta di una citazione. Possono essere tre pagine, é questo il problema: bisognerebbe prendere queste due o tre pagine e riassumerle, condensarle in qualcosa di utile alle riunioni.... [@ pezzo incasinato ma non importante, di dialogo sul da farsi] Se riuscissimo a fare un libro su questi temi... non c'è niente di nuovo; o per lo meno: c'è di nuovo che riprenderemmo a fare il lavoro che il partito u8na volta faceva normalmente e che ormai tutti hanno perso l'abitudine di fare.

Tra l'altro, se leggete bene - l'abbiamo letta un po' in fretta qua - la lettera di Silavano Lenzi, affronta probelmi di questo genere nel pezzetto sull'epistemologia, non so se vi ricordate. Lui a un certo punto ci chiede, io stavo rispondendo, mi era entrato un po' così nell'orecchio, mi era piaciuta la lettera, ma non avevo notato che approfondiva la questione fino a quel punto. Lui a un certo punto ci chiede: non siete per caso convinti che se Marx fosse vissuto alla nostra epoca avrebbe potuto utilizziare potentemente la nuova epistemologia di questo secolo? Ma, cavolo, quello era il lavoro che voleva fare Bordiga riscrivendo l'Antidühring. Marx sarebbe stato contentissimo di avere a che fare con la teoria della relatività, la meccanica quantistica, la teoria del caos, perché lì ci sono le dimostrazioni di quello che lui diceva per altra via. Noi non siamo in grado di andare più a fondo di quello che abbiamo fatto finora, ecc. ecc.; però siccome più o meno abbiamo frequentato questi campi, sbattendo magari il naso, leggendo i testi riusciamo a vederli con un'ottica... cioè, non c'è niente di nuovo. Ma, come tipo di lavoro, volendo non c'è niente di nuovo nel tipo di lavoro, perché se siamo arrivati a parlare di queste cose è perché avevamo già cominciato prima...

Voce: non c'è niente di nuovo nella teoria, c'è di nuovo nelle dimostrazioni pratiche della teoria: il fatto che questo comunismo è andato molto più avanti rispetto al 1860...

Relatore: Certo. Tra l'altro il Lenzi, sulla questione della continuità-continuazione fa un discorso, in quella lettera, molto più radicale di quello che abbiamo fatto noi. E cita Lenin, e dice: e già, bravi! Marxismo. Il marxismo è lo studio di una dinamica; e noi lo trattiamo staticamente? Bisogna trattare anche il marxismo dinamicamente. Cosa vuol dire trattare dinamicamente il marxismo? Era stato raggiunto un risultato. Guai ai marxisti che non riuscissero a raggiungere dei risultati che vanno un po' più in là. E cita Lenin che dice appunto una cosa del genere.

Basta! Perché non credo che per oggi sarebbe possibile fare esattamente quel tipo di lavoro, però qualche indagine intorno possiamo farla. Se anche non riuscissimo a produrre un testo a stampa completamente esauriente, ecc. ecc., già una indicazione di lavoro per i posteri o i giovani che venissero. Tanto più che per esempio, anche parlando con Moncalieri, abbiamo cercato di sviscerare un po' il problema ma da che parte cominciamo. Non si sa neanche bene, be', cominceremo da questo, senz'altro. Solo chiacchierando con Moncalieri, già due o tre indicazioni sono venute fuori, perché, mentre parlavamo di questo, della macchia di leopardo, dei trust, delle holding e del lavoro sempre più sociale, e della socializzazione dei rapporti in giro per il mondo, si parlava anche dell'ultima lettera che doveva ancora uscire, che grosso modo parla delle stesse cose sul territorio, accennando appena al fatto che c'è una relazione con la situazione generale. E Paolo ha notato subito per esempiuo che quando si parla di relazione tra aziende vuol dire che si influenzano l'una con l'altra, e se una rete di aziende, se questi trust immersi nella concorrenza si guardano uno con l'altro per fare... entrano in una relazione che è indiretta, ma che è altrettanto potente di quella che esiste all'interno del trust. Ma questo è quello che vuole raggiungere il comunismo. Cioè non c'è più l'isola di ordine in cui avviene una produzione in un certo modo in un mare di disordine dove tutto viene dissipato. Ma se si allarga a tutto il mondo la rete delle relazioni e delle reciproche influenze, vuol dire che è possibile far viaggiare, attravaerso questa rete di influenze, il piano unico per tutto il mondo. Anzi, anzi, pensandoci dopo, dovremmo sviluppare anche un'altra concezione: che se il tipo di relazione a rete mette in quelle condizioni le singole unità produttive, che non diventano più singole ma diventano cellule di un insieme organico, non c'è neanche più bisogno di immaginare al punto da cui parte il piano unico mondiale - che sarebbe anche una follia dal punto di vista organizzativo terra terra - ma verrebbe fuori un sistema organico...

Voce: [@ l'inizio non si capisce] ... mi sto rendendo conto che queste sono direttive emanate direttamente dal sistema di produzione mondiale, che gli Stati sono obbligati a recepire. Perché la certificazione del...[@?] arriva....[@?] viene direttamente dall'industria più avanzata che esiste oggi in Italia, che è l'industria spaziale. Cioè l'industria spaziale per poter garantire una certa sicurezza a tutti i componenti... [@?] è stata obbligata a sviluppare - cioè quindi, come si dice, meccanismo spontaneo del capitale - a sviluppare tutto un sistema di certificazione di qualità [@ degno?] dei componenti elettronici più sofisticati, fino alle pappette da ciucciare, a cui hanno dato vari nomi... Questo sistema sta unificando tutta la produzione mondiale in tutti i setori. E gli Stati più avanzati stanno cercando di farlo applicare dapperutto. Ma non perché sia una cosa derivata dal cervello di un [@?], ma perché si rendono conto che per reggere la concorrenza a livello mondiale bisogna deterministicamente indirizzare quelle frecce lì per forza in quel senso lì. Quindi unificazione delle produzioni a livello mondiale, per lo meno a livello dei paesi industriali più sviluppati. Io sto facendo questo discorso delle garanzie igienico-sanitarie nell'industria alimentare, che va dalla produzione primaria fino alla distribuzione alle mense, e tutte quante sono unificate da riunionimondiali del Fondo alimentare, la FAO e dal coso del Commerciao, dal [@ sigla che non ho capito]. Riunioni che hanno stabilito un codice di comportamento dell'industria alimentare, a cui tutti gliStati europei e americani si sono uniformati e a cui tutte le industrie si devono assolutamente uniformare. Quindi la conseguenza immediata è quella che avveleni meno gente, per quanto riguarda l' alimentare, ma la cosa più importante è che tutte le aziende di un determinato settore uniformano il loro modo di lavorare, la loro organizzazione, il loro piano di produzione, a livello mondiale.

Voce: E quindi questa unificazione alla fine porta a un equilibrio

Voce: No, non porta all'equilibrio perché poi c'è la palude

Relatore: Cioè, succede una cosa: che... ci siamo fermati sulla questione del piano mondiale. Ma e' una bellissima risposta questa qua. Quando, con una concezione un po' primitiva del socialismo, del comunismo, il modello, si parlava di piano mondiale, si immaginava sempre un centro unico, una specie di ONU della produzione della distribuzione. Questo è impossibile. Nessun organizzatore, nessun sistemista moderno potrebbe immaginare un'organizzazione verticale per guidare la produzione di tutto il mondo. Questo è fallito in Russia totalmente. Quello che inve si può fare è che le isole non siano autonome, in senso di anarchico, ma autoregolino la propria esistenza, la propria produzione, con un metabolismo di tipo organico. Sulla base di che cosa? Sull'informazione centrale. Non è più un'azione diretta a organizzare il piano centrale, ma il piano centrtale è una distribuzione unificata di informazione. Che cos'è l'iso...[@? ] novemila ...[@?] tutte queste cose qua? E' informazione, non è niente di materiale. Questo è un elemento antientropico che finisce dentro... é informazione. Ma da chi è recepita questa informazione? Dalla produzione. Non esiste niente di simile che possa intervenire... che possa iniettare informazione alla palude. Ci sono solo i governi che col keynesismo sono riusciti a fare qualcosa, di lì in poi...

Voce: Trovano resisstena, questa è una cosa importantissima, trovano resistenza perché la grande produzione... [@?] il produttore ha a che fare con la palude e dice: ma se io applico queste cose - l'informazione che arriva ti dice: guarda che se tu applichi queste cose razionalizzi la produzione e...[@?]. Ma il produttore dice: ma se io applico queste cose immediatamente vengo fatto fuori dal mercato, perché quelli che non le applicano, applicano prezzi più bassi e mi fanno fuori. Questa è la palude che nell'immediato la spunta sull'organizzazione della produzione.

Relatore: E, ma infatti non ci sarà materiale sufficiente per fare tutta una riunione... riprenderemo un po' bucharin, ecc. ecc., ma questa cosa qii della qualità totale un giorno o l'altro la dovremo vedere anche noi, perché non è mica un problema della qualità totale, il titolo è anche sbagliato, perché la qualità la raggiungevano anche prima; la qualità è sempre stato un problema per chi vuole produrre bene e vendere dei prodotti che abbiano delle chances rispetto agli altri, siano concorrenziali. Il problema della qualità totale è un problema di polarizzare tutte le risorse verso un certo risultato, cioè gli operai sulla linea ecc., tutto il sistema deve diventare organico, non c'è niente da fare...

Voce: Io sono uno che... seguendo queste procedure indicate dalle informazioni centrali si possono fare nello stesso arco di tempo senza fatica, senza dissipazione dienergia, semplicemente migliorando l'organizzazione del lavoro...

Relatore: E' taylorismo comunque, perché il taylorismo è stato... [@?], ma Taylor non diceva altro che organizzando meglio il flusso lavorativo si ottenevano risultati strepitosi, tutto lì. Infatti lui parla di organizzazione scientifica del lavoro. E questo è di nuovo un altro tipo di organizzazione. Tutto sommato Taylor è stato il primo che ha introdotto informazione in un sistema, perché tutto il sistema di Taylor non si basava sull'introduzione di nuovi meccanismi o nuove strutture; si basava semplicemente su una rilevazione meticolosa di tutto quello che era dissipativo e riorganizzare, esattamente con quelloche c'era, gli operai con... [@?], le linee di montaggio così com'erano fatte, soltanto togliendo disordine dal sistema...[@ ?] Taylor è stato veramente frainteso, volendo o meno; si è mescolato il taylorismo col fordismo, ... [@?] struttura precisa della catena di montaggio fatta in un certo modo, non era solo quello...

Voce: Comunque ci sono delle forti resistenze da parte... E' una palude, visto che abbiamo usato questo termine,... rispetto al modo di produzione... E' una contraddizione palese: da una parte fanno le leggi, l'Italia ha recepito la legge n. 155, del 27 maggio 1997, per esempio, che parla della regolamentazione per la sicurezza igienico-sanitaria nelle attività alimentari, che è qualità, attraverso una serie di procedure prese da... [@?]ecc. ecc. che è un'indicazione a livello mondiale di come bisogna lavorare nel settore alimentare. Gli Stati fanno le leggi, ma poi non emanano regolamenti applicativi, non emanano niente perché di nuovo questa contraddizione: cioè da una parte la necessità del capitale, necessità verso il capitale, delle forze produttive di dare un certo andamento a tutta la produzione, d'altra parte il modo di produzione che resiste, questo in generale, resiste fortemente a questa cosa qui...

Relatore: Adesso siamo rimasti d'accordo con Venezia che prenderemo degli appunti, faremo delle schede, delle cartelle... erano un po' perplessi per via dei tempi, non riuscivano più ad andare avanti e noi nemmeno, però in effetti questo tema... se riusciamo a trasformarlo in un libro...

Rivista n°54, dicembre 2023

copertina n° 54

Editoriale: Reset

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Newsletter 245, 19 gennaio 2022

f6Libertà

Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale.

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