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Appunti su: Lucio Colletti - Introduzione a "Il crollo del capitalismo"

L’introduzione di Colletti agli scritti antologici sul "marxismo e il crollo del capitalismo" ha due pregi: espone chiaramente i concetti che vi sono espressi, e mostra una buona conoscenza dell’opera di Marx, citato propriamente e a ragion veduta. Ciò ci permette di poterla confrontare con alcune delle classiche tesi marxiste della nostra corrente. Il testo è suddiviso in tre parti: la prima tratta del concezione del capitale nella teoria marxista e nelle teorie economiche moderne, dalla svolta marginalista del primo novecento in poi; la seconda riguarda la posizione di Marx rispetto, da una parte, al socialismo utopico e, dall’altra, all’economia classica; la terza, di cui qui non svolgerò il commento, riguarda invece la vera e propria discussione sul crollo del capitalismo, "crollo" inteso in senso puramente economico, avvenuta a cavallo tra otto e novecento in ambito marxista, o almeno tra teorici che più o meno propriamente si richiamavano alla teoria di Marx.

Venendo alla prima parte, Colletti parte affermando che, a motivo della natura delle lotte politiche e della storia stessa del novecento, è diventato senso comune un’idea del capitale e del capitalismo come d’una situazione in cui, da una parte, i mezzi di produzione sono concentrati in mano a un gruppo sociale ristretto, che ne sono privati proprietari; dall’altra v’è invece concentrata la massa della forza-lavoro, che per potervi accedere deve farsi ingaggiare a giornata in cambio di salario. Questa idea che, come dice Colletti, accomuna sia il rivoluzionario che il conservatore, sia il sindacalista che l’imprenditore, anche quando se ne avversano in toto le conclusioni, viene dritta dritta dalla teoria di Marx. Inoltre, quest’idea stessa ha due importanti conseguenze immediate: che il capitale, in un sistema economico, non è un insieme di cose, ma è un rapporto sociale, più precisamente un rapporto tra classi sociali; e, conseguenza ulteriore, che il capitale è un fenomeno storico, che ha avuto un inizio, ha uno svolgimento e avrà una fine.

Molto meno univoca, continua Colletti, è l’opinione diffusa in ambito di scienza economica, che anzi, in maggioranza anti marxista o, per lo meno, amarxista, considera per lo più il capitale, almeno a partire dai marginalisti, come un certo insieme di cose in un qualunque sistema economico. E, come dice, per uscire subito dal vago, Colletti analizza quello che è considerato ormai un "classico" dell’economia moderna: La teoria positiva del capitale di Böhm Bawerk, tenendo a precisare che tale concezione teorica non è affatto la bizzarria d’un pensatore isolato, ma l’idea condivisa di tutto il filone moderno del pensiero economico, quello, per intenderci, che gli inglesi e gli americani, per distinguerlo dalla classica economia politica, chiamano economics.

La somma, l’insieme delle cose, sostiene Böhm Bawerk, che non soddisfano direttamente un bisogno, ma servono a produrre un’altra cosa che possa soddisfarlo è capitale; sicché la produzione che va direttamente allo scopo desarmata manu (cioè, a mani nude) è produzione senza capitale, mentre la produzione che si avvale saggiamente di mezzi intermedi, cioè di strumenti per raggiungere lo scopo, è produzione capitalistica. Ovvio che messa in questi generalissimi termini non esiste virtualmente produzione senza capitale, se non forse agli albori della specie umana qualche comunità di puri raccoglitori (o sarebbe meglio dire "stenditori di mano") di ciò che la natura spontaneamente offriva, ammesso che una tale comunità umana priva di qualunque attrezzo sia mai esistita. Qualunque altra comunità umana, cioè, praticamente, tutte, per quanto scarsi e rudimentali potessero essere (un rozzo arco, una clava, qualche pietra scheggiata) che si sia avvalsa di strumenti e attrezzi, di fatto avrebbe avuto una produzione capitalistica, essendo il capitale quella dotazione di attrezzi. Qui spicca nettamente la formazione di questa teoria astraendo (nel senso peggiore del termine) da ogni aspetto storico e sociale dei sistemi economici.

È per questo che Böhm Bawerk, in esplicita polemica con Marx, può riproporre gli esempi del cacciatore o pescatore solitario usati dagli economisti classici, che Marx tacciava sarcasticamente di "robinsonate". Come questi esempi, sostiene Böhm Bawerk, sono serviti ottimanente ai primi economisti per dedurre "i tratti tipici generalissimi" di ogni sistema economico, lo scheletro, per così dire, di qualunque sistema, così spero e credo che possano servire anche a me per il medesimo scopo. Sicché nell’importante capitolo sulla formazione del capitale Böhm Bawerk può iniziare press’a poco così. Immaginiamo, dice, un uomo naufragato in un’isola deserta. Dopo essersi rifocillato alla bell’e meglio con ciò che la natura spontaneamente offre, cosa deve fare quest’uomo per entrare in possesso d’un primo capitale? Naturalmente la domanda è retorica e contiene implicita già la risposta: il primo strumento che costruirà per il proprio bisogno (per esempio un’arco per catturare prede di cui nutrirsi) sarà anche il suo primo capitale.

Questo punto delle robinsonate, al di là del folklore, diciamo così, è invece importante, perché mette in particolare rilievo due tipiche manifestazioni d’un atteggiamento del pensiero borghese respinto in toto dal marxismo: la discretizzazione della realtà. La prima è bene colta da Colletti, la seconda è balzata subito agli occhi a me, tanto più dopo la recente riunione di Rimini.

Dice giustamente Colletti che dall’esempio di Robinson viene fuori un’idea (discretizzata, aggiungiamo noi) di uomo come d’un individuo atomizzato, compiuto in se stesso, coi suoi bisogni, i suoi desideri e le sue individuali aspirazioni, la cui natura, immutabile nel tempo, non cambia neanche quando entra in rapporto con altri uomini dello stesso tipo a formare una data società, la quale non è altro che un aggregato, una sommatoria di tanti individui atomizzati, per quanto numerosi e complessi possano essere i rapporti sociali che li legano.

È per questo che Böhm Bawerk può fare l’operazione di dedurre il sistema economico più semplice e generale dal comportamento d’un singolo uomo posto astrattamente nelle condizioni ritenute più semplici, e poi trasporre il sistema così trovato a fondamento economico di ogni società nello spazio-tempo, che, per quanto differenti, possono tutte scomporsi, per così dire, nel minimo comun denominatore di questa concezione discreta dell’uomo. Ma da questo punto di vista ben più scientifico si dimostra il procedimento del mito biblico della creazione, che almeno fa iniziare lo svolgimento della storia umana, dunque anche della sua storia economica, non da Robinson, dal cacciatore o pescatore solitario, ma se non altro da Adamo ed Eva, dalla coppia biologica di uomo e donna, magari per un soprassalto di buon senso (forse la divina preveggenza che un tempo per quanto lontano il testo sacro della sua parola avrebbe potuto essere confuso con un trattato marginalista, dio ne scampi, deve averlo infine convinto a creare anche la donna).

Ma, non meno importante, le robinsonate mostrano la reductio ad absurdum a cui può arrivare la specializzazione estrema delle discipline scientifiche nel pensiero borghese, la discretizzazione del loro oggetto di studio, posto in una sorta d’isolata purezza, per cui ogni intervento d’un’altra scienza è visto come un’interferenza, se non come un disturbo che distoglie l’attenzione dall’oggetto di studio proprio a quella data scienza. Tanto più chiaro appare questo approccio di Böhm Bawerk allo studio economico, se si considera, come s’è fatto a Rimini, che i nostri maestri già circa cinquant’anni prima leggevano e studiavano avidamente i primi risultati che le scienze recentissime dell’antropologia e della paleontologia mettevano a disposizione, considerandoli parti integranti e da integrare del lavoro teorico che essi andavano svolgendo, per esempio, sulla moderna società capitalistica.

E cinquant’anni dopo, con risultati ben più corposi e probanti a disposizione, Böhm Bawerk può tranquillamente considerarli non pertinenti e rifarsi all’espediente delle robinsonate, che a cavallo tra sette e ottocento potevano essere giustificate dalla mancanza di dati certi sulle tribù primitive e tanto più sull’origine stessa della specie. Ma allora, che questa stessa dottrina economica, come s’è già visto, sia anche astorica e asociale, ciò non è altro che un’ulteriore aspetto di questo approccio ultra specialistico alla scienza, per cui Böhm Bawerk, come può ritenere di poter fare a meno dell’apporto delle più recenti scienze antropologiche e paleontologiche, con la stessa leggerezza d’animo può fare a meno anche degli apporti di scienze più antiche e consolidate come le scienze storiche e sociali. Bisogna però dire che parte della scienza borghese, di fronte ad alcuni cambiamenti troppo vistosi dello sviluppo sociale e scientifico per essere ulteriormente trascurati, sta cambiando totalmente questo atteggiamento specialistico (ciò che definiamo le capitolazioni al marxismo), almeno laddove la scienza non è ridotta, come appunto nell’economia, a mera sentinella dell’ortodossia antimarxista del pensiero borghese.

Ma anche dal punto di vista puramente economico, questa riduzione del capitale a mero strumento, mezzo di produzione, lascia piuttosto perplessi, annegando nell’indeterminatezza quella che è la caratteristica più importante, il suo tratto distintivo, del capitale, non solo per la teoria marxista, ma anche per tutta la scuola economica classica, se è vero come è vero che l’economia è diventata scienza venendo a capo della teoria del plusvalore, cioè del modo in cui nel processo economico si forma e si incrementa la ricchezza fondante la prosperità di società e nazioni. Il capitale è, insomma, nel processo economico, valore che si valorizza, autovalorizzazione del valore, e questo spiega il tipo di ricchezza delle società dominate dalla classe borghese.

E allora, per usare a mia volta i comodi surrogati di Robinson tanto cari a questo economista, finché Robinson con l’arco costruito caccia le prede di cui si nutre, esso è semplice mezzo di produzione. Ma se una nave di sua graziosa maestà britannica lo toglia da quella scomoda posizione, e se in viaggio riesce a trovare uno così babbeo da comprargli il suo arco ormai inutile, e, una volta in Inghilterra, con quei primi soldi si mette, come si suol dire, in affari e fa fortuna, solo allora possiamo dire che quell’arco è un capitale.

Ma a questo punto, altro che i grandi miti religiosi antichi, ma persino i fumetti moderni sono più scientifici di quella pseudoscienza che è diventata l’economia. Basta pensare per esempio al personaggio del "papero più ricco del mondo", che ha accumulato la sua enorme fortuna calcolata in "fantastiliardi" partendo dalla misura di valore minima che il denaro può rappresentare (la famosa prima monetina). Bisogna ammettere che qui v’è perfettamente illustrata quella valorizzazione del valore al contrario semplicemente cancellata dalla teoria "scientifica" di Böhm Bawerk. Come si possa spiegare l’arricchimento di Paperon de’ Paperoni è un quesito ormai fuori portata delle moderne teorie economiche.

Infine, per chiudere questa prima parte, mi piace sottolineare un passaggio in cui Colletti, quasi a mo’ di lapsus freudiano, di riflesso condizionato, lascia trasparire la sua impostazione generale crassamente borghese, con tutta la sua conoscenza puntuale di Marx. Colletti giustamente afferma che la riduzione del capitale da parte di Böhm Bawerk a mero mezzo di produzione, identifica il capitale stesso con ciò che Marx chiama il "processo lavorativo semplice", cioè, chiosa Colletti, e qui casca l’asino borghese, con il semplice rapporto del singolo uomo con la natura.

Questo è un punto decisivo della teoria marxista: si tratta della grandiosa concezione di Marx, che proprio a Rimini abbiamo approfondito, dell’uomo-industria, dell’uomo che si fa uomo attraverso il lavoro, dell’uomo che si adatta alla natura adattando con il lavoro la natura a se stesso. Ma Marx non considera affatto il "singolo" uomo, cosa che ci riporterebbe alla meschina concezione del cacciatore o pescatore solitario (Colletti riesce nell’imprese di vedere robinsonate persino in Marx), ma invece la specie tutta, vista nello svolgimento dell’intero spazio-tempo come una sola forma sociale. Basta e avanza questo semplice aggettivo a estromettere Colletti da quella visione del mondo in cui consiste il marxismo difesa da Bordiga contro il "riduzionismo" gramsciano, ma che è tipico d’ogni lettura borghese di Marx.

Venendo alla seconda parte, Colletti pone una differenza tra il Marx scienziato (rispetto agli utopisti) e il Marx rivoluzionario (rispetto agli economisti classici), senza cogliere l’unità dialettica della doppia posizione marxiana. Come detto, rispetto agli utopisti Marx fa valere il suo carattere di scienziato. I primi grandi utopisti già sapevano vedere e criticare a fondo i guasti e le storture del capitalismo e dei suoi rapporti sociali, ma quando si trattava di trovare la via d’uscita, (qui Colletti cita opportunamente Engels) essi traevano inevitabilmente dalla testa la soluzione ai guasti che scorgevano, dato che i tempi non erano maturi perché fossero già visibili nelle cose le peculiarità del capitalismo e il compito rivoluzionario proprio della classe proletaria. Non restava ad essi che proporre rapporti sociali idealizzati, basati da ultimo sulla morale cristiana, cercando da una parte di instaurarli in piccole comunità staccate dal resto della società, e dall’altra di appellarsi a qualche potente "illuminato" che usasse la sua influenza per imporli dall’alto a una società sorda ai loro proclami. Come afferma Colletti, la differenza d’approccio tra Marx e gli utopisti è pienamente visibile nel modo in cui viene trattato il tema dello sfruttamento. Per gli utopisti questo tema finisce per essere una esercitazione retorica in cui riversare la propria indignazione per concludere nella moralistica condanna del fenomeno in nome, come fa Proudhon, della justice éternelle.

Ben diverso è l’approccio di Marx, che sulla base dell’analisi economica del capitalismo afferma che lo sfruttamento consiste nel fatto che nel processo produttivo la forza-lavoro per una parte del tempo produce il salario per il proprio sostentamento, per l’altra produce quel plusvalore che è la fonte di reddito di tutte le altre classi capitalistiche: il profitto per gli imprenditori, la rendita dei proprietari terrieri, e l’interesse per i prestatori di denaro. Dal punto di vista della società capitalistica, l’operaio non riceve nessun torto, una volta retribuito del salario, il quale si forma ovviamente secondo le regole economiche del capitale. E neppure si può dire moralisticamente che il capitalista deruba l’operaio del plusvalore, ma si deve piuttosto dire che il capitalista estorce (ma il termine invalso nell’uso italiano non è felicissimo) il plusvalore dall’operaio, mettendolo in condizioni tali che il suo lavoro intensifichi continuamente la creazione di plusvalore, base materiale (ed è qui l’aspetto rivoluzionario del capitalismo rispetto alla società feudale) della conseguente intensificazione delle forze produttive.

Rispetto agli economisti classici Marx fa valere invece il suo carattere di critico dell’economia politica, di rivoluzionario. È proprio partendo dall’analisi scientifica dell’economia, dice Colletti, e corrobarata da tale analisi che viene nuovamente fuori in Marx in tutta la sua forza quella che Colletti stesso, seppure tra virgolette, chiama l’utopia, cioè la necessità di abolire le categorie economiche del capitalismo: denaro, merce, mercato, ecc. Nella società capitalistica i rapporti sociali sono capovolti, può affermare Marx in seguito all’analisi rigorosa della sua economia, in quanto la forza-lavoro, che produce tutto il capitale producendo il plusvalore, nel processo produttivo è solo una parte subordinata del capitale stesso. Infatti il capitale totale nella produzione è dato dalla somma del capitale costante (la materia trasformata) più il capitale variabile (il salario della forza-lavoro stessa) più il plusvalore (l’aggiunta di valore creato dalla forza-lavoro). Insomma, Colletti cita Marx, nel capitalismo i mezzi di produzione dominano la forza-lavoro, mentre in una società coi rapporti sociali non capovolti la forza-lavoro dominerebbe i mezzi di produzione. Per usare un’altra frase più icastica di Marx, nel capitalismo il lavoro morto vampirizza il lavoro vivo. È per questo la rivoluzione diventa scienza e la scienza rivoluzione, in quanto per raddrizzare i rapporti sociali occorre preliminarmente socializzare i mezzi di produzione, compito pratico rivoluzionario.

Marx arriva a queste conclusioni, afferma Colletti, criticando a fondo il presupposto "naturalistico" da cui partivano gli economisti classici nell’analisi delle categorie economiche borghesi, considerate come un dato "naturale" cioè eterno e immutabile, oltre il quale era impossibile e neppure pensabile risalire. Marx invece le sa vedere come un processo storico e sa risalire, per criticarne gli aspetti storico-sociali, alle loro spalle. Qui tocchiamo un punto decisivo della teoria Marxista. Marx non risale affatto, come sostiene Colletti, alle spalle delle categorie economiche del capitalismo, cosa che, per citare un esempio del Manifesto, fanno i socialisti reazionari, i quali, confrontando i rapporti sociali feudali e capitalistici e giudicando migliori i primi dei secondi (non senza qualche ragione), arrivano addirittura a teorizzare l’alleanza tra la vecchia classe feudale degli aristocratici e la nuova classe nata dal capitalismo dei proletari. Ben diversa è l’operazione di Marx, e mi rifaccio al nostro classico schema del rovesciamento della prassi, che mettiamo giustamente in connessione con lo schema della conoscenza di Einstein e quello più recente di Bateson.

In realtà Marx salta sopra quelle categorie economiche, arrivando alle categorie della nuova società, con un salto intuitivo che è anche salto rivoluzionario di conoscenza. È già qui nella parte teorica della dottrina marxista (se è lecito per un attimo scindere teoria e prassi) che la rivoluzione è scienza e la scienza rivoluzione; la prassi rivoluzionaria non è altro che un’ovvia conseguenza di ciò. Ed è da qui, da questo punto di vantaggio, da questo, per così dire, osservatorio privilegiato che Marx si volge indietro a criticare "storicamente" il capitalismo; mentre l’interesse estremo di Marx per tutte le forme sociali che l’hanno preceduto, a partire da quella feudale giù giù fino all’origine stessa della specie, nasce dal bisogno di studiare le transizioni storiche già avvenute per delineare le caratteristiche della nuova transizione. Del resto, la nuova conoscenza come teoria rivoluzionaria non è affatto una "specialità" che si applica a quella "particolare" scienza che sarebbe il marxismo, come sembra essere a Colletti; ma anche per dare a Cesare quel che è di Cesare, le stesse teorie dell’economia classica sono salto rivoluzionario di conoscenza rispetto alle teorie precedenti, se ci si mette nella sequenza temporale mercantilismo – economia classica – marxismo. Ed il bello è che Colletti cita proprio un passo di Marx in cui è chiaramente espresso questo concetto. Ma la sua idea veramente controrivoluzionaria della scienza di asettico, diciamo così, e distaccato studio e spiegazione dei fenomeni, gli impedisce di valutarne tutta la portata.

Dice Marx, citato da Colletti, la legge del valore, cioè il fatto che il valore d’una merce è dato dalla quantità di tempo sociale medio incorporato, cioè servito per produrla, ha fatto epoca. Naturalmente per Marx e noi marxisti fanno epoca solo gli svolti rivoluzionari, qui di conoscenza. Questa legge, che può essere forse più efficacemente detta legge dello scambio tra equivalenti, è appunto il salto rivoluzionario di conoscenza degli economisti classici (Smith e Ricardo, soprattutto) rispetto alle teorie mercantiliste precedenti. Mentre queste sostenevano la tesi che la ricchezza aggiunta, il plusvalore nasceva direttamente sul mercato, nel passaggio tra merce e merce, prendendo posizione favorevole alla vecchia classe capitalista dei mercanti; la legge del valore negava proprio questa tesi, in quanto sul mercato si scambiavano merci di valore equivalente, senza che dunque vi potesse sorgere plusvalore, che nasceva invece (tesi favorevole alla nuova classe rivoluzionaria capitalistica dei primi industriali) nella produzione, col meccanismo di cui s’è parlato a proposito dello sfruttamento.

È per questo che Marx, proprio perché vera scienza e vera rivoluzione erano le teorie economiche classiche, potrà usarle come base per un ulteriore e più radicale salto rivoluzionario di conoscenza; cosa che noi non potremmo fare con le attuali teorie economiche, diventate come sono nient’altro che falsa coscienza, ideologia, nel significato nostro del termine, uso deviato della vecchia conoscenza per negare pervicacemente, a sostegno di classi ormai ultra-controrivoluzionarie, la nuova conoscenza che l’ha superata. E allora, e chiudo con quest’ultima considerazione, questa posizione condivisa in pieno da Colletti d’una scienza "asettica" e separata dal vivere sociale è molto più reazionaria e "oscurantista" della posizione d’un cardinal Bellarmino e degli istruttori del processo a Galileo, e ciò sia detto a loro merito, in quanto proprio questa reazione dimostra come quegli antichi e "antiquati" aristotelici avevano saputo ben intuire che quel nuovo metodo conoscitivo del primo scienziato borghese, come stava rivoluzionando la conoscenza, così avrebbe rivoluzionato anche quei rapporti sociali su cui si fondava l’autorità stessa nel cui nome giudicavano lo scienziato. Non è un caso che qualche anno fa i degeneri eredi dei giudici e dell’imputato si siano anche formalmente riconciliati con sfacciata ostentazione. Pax controrivoluzionaria.