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Salvataggi e fallimenti del capitalismo

Questo articolo di Maurizio Donato è stato pubblicato dalla rivista on-line Crisi e conflitti (http://www.crisieconflitti.it) e inviato a noi dall'autore per un eventuale utilizzo. Siccome si tratta di materiale utile al nostro lavoro, lo pubblichiamo in questa sezione.

Rischi, debiti e derivati: distribuzioni normali ed eventi eccezionali. Le ondate anomale e il giro della morte del capitale fittizio. Il mercato immobiliare e le cartolarizzazioni dei crediti. Crisi della teoria e teoria della crisi. Insolvenza e sovranità. Le riserve ufficiali come assicurazione dal rischio di insolvenza. Insolvenza sovrana e stato di emergenza

Tutti i paesi vengono, l'uno dopo l'altro, coinvolti dalla crisi e si vede allora che quasi tutti hanno importato e esportato troppo. Può accadere che la crisi scoppi in un primo tempo in quel paese che più di tutti gli altri concede credito e meno ne domanda, con la massa di capitali che ha dato in prestito all'estero. Viene ora il turno di un altro paese: tutti i pagamenti devono essere effettuati contemporaneamente. Ma in tutti i paesi vi è stata una sovraimportazione e una sovraesportazione, ossia sovrapproduzione stimolata dal credito e dal generale aumento dei prezzi. In periodi di crisi generale sempre, una dopo l'altra, come un fuoco di fila, lo stesso collasso colpisce tutte le nazioni, o per lo meno quelle sviluppate. E' curioso che gli esperti – appena un mese prima della crisi – facciano rivivere questa illusione: gli affari sono sempre sanissimi e il loro svolgimento progredisce a un ritmo favorevole, fino a che il crollo avviene tutto in una volta. Del resto, tutto qui si presenta deformato perché in questo mondo di carta non appaiono mai il prezzo reale e i suoi reali elementi, ma soltanto lingotti, denaro sonante, banconote, cambiali, titoli.

Karl Marx, Il Capitale, Libro III, cap. 30

Il 9 agosto 2007, a causa di "tensioni nel mercato monetario dell'euro", la Banca centrale europea ha iniettato più di 130mld$ in un tipo di operazione di emergenza che non era stata messa in atto "nemmeno" dopo gli attentati alle torri gemelle di New York; pochi giorni dopo, la sua omologa statunitense faceva lo stesso avviando contemporaneamente un ciclo di manovre di ribasso del tasso di interesse nel tentativo di scongiurare o almeno di ammorbidire i contraccolpi sull'economia reale del nuovo episodio della saga della crisi questa volta concentrata nel cuore del sistema finanziario occidentale. Dopo avere colpito nella seconda metà degli anni '90 paesi pur importanti ma non dominanti come Messico, Brasile, Corea, Thailandia, Indonesia, Russia, Ecuador, Argentina, la crisi irrisolta ha provocato finora il fallimento di una importante banca inglese, prontamente nazionalizzata dalle istituzioni del paese simbolo del liberismo, e di una recidiva banca di investimenti nordamericana, altrettanto rapidamente salvata dal provvidenziale intervento della Banca federale Usa.

Nonostante l'ottimismo profuso senza risparmi dagli apologeti del libero mercato, il modo di produzione capitalistico non sembra col tempo essere diventato immune dalla crisi. Anzi. Proprio in sospetta coincidenza con l'ondata di privatizzazioni e liberalizzazioni dei mercati finanziari definita col termine passato alla moda di "globalizzazione", le crisi economiche sono diventate più frequenti, più estese e più violente, sollevando più di un dubbio sulle interpretazioni fondate sul carattere eccezionale dei singoli episodi, di volta in volta attribuiti a comportamenti sbagliati di questo o quel soggetto economico cui attribuire il ruolo di capro espiatorio di turno. Conviene perciò affrontare l'argomento crisi senza pregiudizi ideologici, tentando piuttosto di rintracciarne le radici a cominciare dai comportamenti dei soggetti più in grado di orientare i mercati, le istituzioni finanziarie, e dalle teorie poste alla base delle loro scelte.

Rischi, debiti e derivati: distribuzioni normali ed eventi eccezionali

La famiglia dei prodotti finanziari si è arricchita di nuovi membri a partire dall'autunno del 1968, anno in cui fu stipulato il primo tipo di contratto moderno in cui sia presente un prodotto finanziario derivato. Le opzioni sono un esempio di derivato; più precisamente, si tratta di contratti che consentono di comprare azioni di imprese a un prezzo prefissato; le opzioni di tipo call consentono di comprare uno stock a un determinato prezzo di esercizio nel futuro, quelle put di vendere a un prezzo fisso; se il prezzo effettivo è più alto di quello di esercizio, l'operatore finanziario compra, vende e realizza un "profitto"; in caso contrario l'opzione scade e il sottoscrittore incassa il premio. Ma come "indovinare" il prezzo finale di un'azione? Come scegliere il prezzo da proporre nel contratto? Fino alla fine degli anni '50 gli analisti finanziati non adoperavano statistiche particolarmente sofisticate per prevedere il valore di un titolo, anche perché i calcolatori non erano diffusi come oggi; si guardava ai risultati raggiunti da una impresa e, al più, si teneva conto della volatilità del titolo, cioè dei suoi scostamenti dalla media dei risultati; ma, come comportarsi con le opzioni?

La scoperta rivoluzionaria di Fischer Black fu quella di sostenere che il rendimento di una opzione dipende dalla sua volatilità, esattamente come accade per le azioni; quando nel 1969, assieme con Myron Scholes, scoprì la "formula magica" in grado di slegare il prezzo dell'opzione dal suo rendimento, la teoria moderna della finanza era nata. Una importante banca di investimenti americana si mise subito all'opera per applicare la formula ai propri affari, traducendola pressappoco così: per coprirsi dai rischi è sufficiente tenere tanti stocks quante opzioni vendi e "replicare" il portafoglio: non ha alcun interesse se il prezzo dell'azione vada giù o su, dal momento che il guadagno è sul contratto. Basta aggiungere una percentuale di punto al tasso di interesse, ed hai fatto arbitraggio coperto dai rischi. Nella primavera del 1973 la Commissione statunitense di controllo sulla borsa consentì lo scambio di opzioni al Chicago Board Of Exchange, a maggio Black e Scholes resero pubblica la "formula magica" e Merton pubblicò un importante articolo collegato alla questione di cui discutiamo. Al di là degli aspetti tecnici sicuramente importanti ma non fondamentali per il nostro lavoro, ci interessa sottolineare le ipotesi alla base non solo degli articoli cui stiamo facendo riferimento, ma di tutta la nuova teoria economica e finanziaria ortodossa. Si tratta di assunzioni apparentemente innocue, considerate come dogmi dall'accademia, eppure ricche di implicazioni importanti, perché è a partire da queste fondamenta che si è sviluppata non solo la nuova teoria della finanza moderna, ma la concreta pratica di gestione delle banche che su tali ipotesi continua a fondarsi. Una prima ipotesi, espressa solitamente assieme a una seconda, presuppone l'esistenza di "scambi di mercato continui e senza frizioni". La critica di molti economisti eterodossi è stata rivolta negli anni prevalentemente alla seconda delle due affermazioni, sostenendo che in realtà le frizioni – definibili come costi di transazione – esistono ed è sbagliato non tenerne conto, ma a nostro giudizio l'ipotesi più importante è la prima, che presuppone la capacità dei mercati di funzionare sempre, come se non esistesse e non potesse mai esistere un problema di liquidità, che viceversa esiste e si manifesta come sintomo di crisi in una situazione in cui, ad esempio, tutti vogliono vendere ma non c'è nessuno che compra. La terza assunzione di fondo è probabilmente il vero assunto di base della teoria economica liberale, la pietra angolare su cui si costruisce tutto l'edificio dell'ortodossia economica e finanziaria: l'ipotesi di mercati efficienti. I prezzi – si sostiene - conterrebbero tutta l'informazione necessaria che viene "processata" dal mercato senza lasciare agli operatori alcuna possibilità di "vincere", di "battere" il mercato stesso. In un mercato efficiente nessuna impresa ha potere, e i prezzi, dunque i rendimenti delle attività finanziarie, seguono un tipico andamento da random walk, distribuzioni statistiche la cui forma è di tipo Normale, con media stabile e varianza finita.

La teoria finanziaria standard considera uno stock come un insieme di rendimenti sul capitale di cui osservare i risultati giorno per giorno; tale insieme, come ogni altro esempio del mondo naturale, può essere studiato dal punto di vista statistico formulando ipotesi sulla forma della sua distribuzione, di cui si possono considerare momenti significativi la media e la deviazione standard (dalla media), altrimenti definita come volatilità, il cui valore ci dice come si distribuiscono i rendimenti di un determinato stock attorno alla media. Esistono tuttavia altre caratteristiche che può essere utile conoscere riguardo alla forma di una distribuzione statistica: ad esempio una banca può chiedersi, scegliendo un investimento a caso tra quelli che compongono il proprio portafoglio, qual è il valore più basso che tale investimento può raggiungere in – mettiamo – 19 casi su 20. In termini finanziari, questa domanda equivale a chiedersi quale sia la massima perdita realizzabile su una singola attività, e la risposta dipende ancora una volta dalla forma della distribuzione: se si ipotizza che sia Normale, con la classica forma a campana in cui la maggioranza dei valori sta attorno alla media, allora basta conoscere la volatilità. Tuttavia, contrariamente alle ipotesi standard della teoria finanziaria, non è così scontato assumere che i rendimenti delle attività finanziarie si distribuiscano in modo Normale; è possibile invece ritenere che la loro distribuzione sia caratterizzata dalla presenza di leggi di potenza, come è più plausibile ritenere quando gli eventi oggetti di studio (nel nostro caso il valore delle azioni o comunque rendimenti di attività finanziarie) sono tra loro interdipendenti e non indipendenti. Ma l'ipotesi di mercati efficienti, l'assunzione di concorrenza perfetta, si basano proprio sulla presunta indipendenza di soggetti le cui scelte (i prezzi, i rendimenti delle attività finanziarie) sarebbero a loro volta eventi statisticamente indipendenti, con le conseguenze ipotizzabili in merito alla correlazione. Oggetti indipendenti producono tipicamente distribuzioni Gaussiane, normali, in cui gli eventi eccezionali sono così rari rispetto alla media che trascurarli è una scelta saggia, dal punto di vista della ricerca; al contrario, eventi interdipendenti tendono a rafforzare reciprocamente i propri risultati presentandosi a grappoli caratterizzati dal classico effetto contagio.

L'esempio tipico di distribuzione statistica dominata da una legge di potenza è quella del reddito e della ricchezza notata per primo da Vilfredo Pareto; l'80% della terra nelle mani del 20% delle persone; l'80% delle risorse concentrate nel 20% delle famiglie, e così di seguito. Ai nostri giorni l'industria del cinema è caratterizzata dalla presenza di leggi di potenza, dal momento che un singolo film "blockbuster" incassa in un anno più della somma di tutti gli altri, riuscendo in alcune stagioni a rappresentare l'unica posta in attivo del bilancio dell'intero settore. In termini più generali, applicare la legge di potenza all'economia finanziaria vuol dire che anche se un evento come una crisi si produce raramente, i suoi effetti vanno ben al di là delle probabilità che l'evento stesso si verifichi, producendo risultati catastrofici difficilmente prevedibili dagli attuali modelli su cui si fondano le scelte delle istituzioni finanziarie leader.

L'assunzione di Normalità nella distribuzione dei rendimenti dei titoli non è una semplice ipotesi statistica priva di conseguenze nella gestione degli affari; se si ipotizza che azioni e titoli sono correlati negativamente in modo da annullare la volatilità reciproca, allora è possibile "prendere due rischi pagandone uno". Se il mercato in questione è quello delle "opzioni", diventa relativamente semplice per una banca di investimenti realizzare profitti: basta vendere contratti sul prezzo futuro di un'azione a soggetti diversi con aspettative opposte; se perderà uno, guadagnerà l'altro, ma in ogni caso la banca avrà guadagnato sulle commissioni, rimanendo indifferente al prezzo finale del titolo. L'unico "piccolo" problema è rappresentato dalla liquidità necessaria a "replicare" le opzioni garantendo un collaterale, ma con un rapporto di leva praticamente infinito il problema non si pone quasi mai, dal momento che il capitale di una tipica banca di investimento è costituito in media da un decimo, a volte anche dal 5% del volume di affari che gestisce. Nella gestione corrente delle banche, tutte le volte che il "radar" segnala che si sta raggiungendo un limite rischioso, la scelta che la teoria ortodossa suggerisce non è fermarsi, ma cercare di raccogliere nuovo capitale da utilizzare come collaterale, facendo felici allo stesso tempo i regolatori di Basilea che raccomandano di utilizzare il VaR come indicatore del rischio. Così funzionava il fondo LTCM di cui era consulente uno dei premi Nobel citati in precedenza; così i proprietari e i manager di LTCM hanno guadagnato denaro a palate per anni; così il fondo è fallito nell'estate del 1998. Nelle stesse settimane in cui il governo russo dichiarò di non poter onorare (parte de)i propri debiti, il mercato non funzionò come la teoria prevedeva: insolvenza, a causa di illiquidità. Fallimento del mercato, assieme all'insolvenza di un soggetto sovrano.

Come ammettono candidamente oggi eccellenti economisti chiamati a stimare gli effetti della crisi generata dal mercato immobiliare, gli intermediari finanziari gestiscono il bilancio delle proprie attività e passività in modo esattamente opposto a quanto fanno usualmente i soggetti economici "normali", che tendono ad abbassare il livello di indebitamento se la propria ricchezza cresce, e dunque comportandosi in modo anticiclico; al contrario, le grandi istituzioni finanziarie come banche e fondi, aumentano il proprio livello di indebitamento nei periodi di boom perché questo predicono i modelli di valutazione del rischio, quasi universalmente basati sul valore a rischio (VaR). IlVaR, in quanto stima delle perdite che una banca "approssimativamente" sopporterebbe nel caso si verifichi un evento eccezionalmente negativo, costituisce una stima della probabilità di perdite condizionata alla scelta soggettiva di due parametri, l'intervallo di confidenza e l'orizzonte temporale dell'investimento. La regola di gestione basata sul VaR consiste nel mantenere una quota di capitale che è pari alla somma considerata a rischio E = V x A; il rapporto di leva L rappresenta la quota delle attività rispetto al capitale mantenuto L = A/E ed è evidentemente l'inverso del valore a rischio L = 1/V. La caratteristica natura prociclica del rapporto di leva dipende così direttamente dalla natura anticiclica della misura del rischio: l'indebitamento è alto quando il valore considerato a rischio è basso e ciò accade quando il ciclo è nella sua fase positiva ed i prezzi delle attività finanziarie, come tutti gli altri prezzi, in ascesa; il rapporto di leva è basso quando il ciclo si trova nella sua fase negativa, caratterizzata da aumentata volatilità nei prezzi delle attività e di accresciuta correlazione dei suoi rendimenti.

Diversi autori hanno negli ultimi anni sottoposto a critica il VaR come misura efficace del rischio focalizzando l'attenzione in particolare sulle proprietà statistiche del VaR che, basandosi solo sul momento secondo delle distribuzioni (la deviazione standard), ignora sia indicatori come l'asimmetria e la curtosi, sia i momenti frazionali tipici della dipendenza di lungo periodo. E' a causa di tale insufficienza che la metodologia basata sul VaR sottostima gli eventi eccezionali, che tendono a presentarsi tipicamente a grappolo a causa della loro "memoria lunga". I processi di prezzo nei mercati finanziari, sebbene in maniera differente a seconda del tipo di mercato, tendono ad essere caratterizzati da dipendenza globale, trattandosi di processi statistici a memoria lunga, con funzioni di autocovarianza che declinano piuttosto lentamente a causa dell'aggregazione di flussi di investimento con orizzonte temporale diverso e diverso grado di liquidità. I processi che governano i prezzi di azioni, monete e obbligazioni seguono una tipica dinamica non lineare, in cui periodi di alta frequenza nelle transazioni si alternano a periodi di condensazione e di rarefazione. Dal punto di vista dell'efficacia della misura, è stato pure sottolineato il carattere puramente fittizio dei "test di stress" che riflettono il ruolo della soggettività nella scelta dell'intervallo di confidenza del VaR: scegliere livelli di confidenza più alti implica VaR maggiori, che a sua volta implica un più alto livello di capitale richiesto, ma anche periodi più lunghi per testare la misura. Se, ad esempio, l'orizzonte temporale degli investimenti è un giorno e la banca sceglie un intervallo di confidenza del 95%, vuol dire che si aspetta una perdita peggiore del VaR in media un giorno ogni venti; se scegli un intervallo di confidenza del 99%, devi aspettare in media più di tre mesi per verificare se il test funziona, ma se l'orizzonte temporale dell'investimento è un mese allora la scelta dell'intervallo di confidenza al 99% implica che devi aspettare almeno cento mesi, cioè otto anni, prima di poter sapere se il modello funziona e se l'orizzonte dell'investimento è un anno, allora scegliere il 99% significa aspettare un secolo! Inoltre, l'ipotesi generale è che le osservazioni in ciascuno dei periodi siano indipendenti e stazionarie, e si tratta di un'assunzione tutt'altro che verificata.

Per apprezzare a pieno la relazione che esiste tra fondamenti teorici della teoria finanziaria e crisi, è utile tornare a considerarne lo svolgimento storico, che dimostra come le opportunità di impiego del capitale in eccesso siano da porre in relazione ai nuovi mercati finanziari apparsi sulla scena del capitalismo contemporaneo. Nell'estate del 1971 il dollaro nordamericano si sgancia dall'oro, rendendo flessibili i tassi di cambio tra le monete e dunque aprendo un nuovo mercato su cui sperimentare teoria e pratica economico-finanziaria. Ancora nel 1970 l'inflazione negli Usa era al 10%, il che significa per le banche che prestavano denaro vederselo restituire svalutato di un decimo; i tassi di interesse erano necessariamente alti e, per farli diminuire, la Banca federale statunitense era costretta a comprare titoli del Tesoro aumentando l'offerta di moneta. Questo comportamento a sua volta rafforzava l'inflazione producendo come risultato la recessione dell'economia. L'introduzione dei cambi flessibili consente di estendere i comportamenti speculativi oltre i mercati tradizionali delle azioni o delle merci: nel 1972 il Chicago Mercantile Exchange (CME) dà vita al nuovo Intenational Monetary Market (IMM) che consente di trattare contratti futures sulle valute, che sfruttano la differenza tra tassi di interesse e tassi di cambio, proteggendosi dal rischio con un future. Si poteva fare altrettanto (o meglio) con i titoli del debito pubblico? Il "problema" è di nuovo rappresentato dalla volatilità, ma con un senso capovolto rispetto alla logica di uso corrente: i tassi di interesse sono in genere molto meno volatili delle azioni e fino a quando la politica monetaria delle banche centrali considerava la stabilità dei tassi un valore positivo non c'è stato business in questo settore. La svolta arriva con la nomina a governatore della Banca federale di Paul Volcker (voluta dal democratico Carter) che innova la gestione della politica monetaria lasciando i tassi di interesse liberi di fluttuare; il 6 ottobre 1979 resta nella memoria dei mercati finanziari Usa come il "saturday night massacre", al lunedì i prezzi dei titoli persero l'11% perché tutti vendevano impauriti e la discesa continuò al ritmo di due punti al giorno per tutta la settimana. Le banche di investimento nordamericane persero milioni di dollari; tutte tranne una, la Salomon Bank, i cui azionisti e manager avevano colto l'opportunità dell'apertura (avvenuta nell'estate del 1977) del mercato dei futures sui buoni del Tesoro. La Banca di Salomone aveva coperto i titoli con futures inaugurando la nuova epopea della finanza moderna; finita l'era della stabilità, cominciava quella della volatilità.

Nello stesso tempo l'aumento del prezzo del petrolio e la fine della convertibilità dollaro – oro avevano fatto nascere un nuovo e promettente mercato: quello dei cosiddetti eurodollari, con sede a Londra. I ricchi sceicchi investivano colà i dollari ricavati dalla rendita del petrolio e, considerato l'andamento piuttosto piatto dei mercati azionari, preferirono puntare sul mercato delle obbligazioni. Poi, nel corso degli anni '80, il ciclo cambiò ancora, con il corso delle azioni galvanizzato dalla nuova politica economica reaganiana; alla fine degli anni '80 i mercati finanziari mondiali erano caratterizzati dalla progressiva riduzione dei rendimenti offerti dai titoli di Stato nei paesi industrializzati, accompagnata da una riduzione della volatilità e dall'aumento della correlazione tra i diversi mercati del debito pubblico, particolarmente nell'area valutaria europea interessata dal processo di integrazione monetaria. La speculazione doveva spostarsi altrove, e l'obiettivo scelto furono i mercati dei paesi "emergenti".

Le ondate anomale e il giro della morte del capitale fittizio

Una sera di settembre del 1985, all'Hotel Plaza, i leader economici e politici mondiali raggiunsero un accordo per favorire una discesa pilotata del dollaro, la cui sopravvalutazione soprattutto nei confronti dello yen aveva consentito alle economie concorrenti di ricostituire una forza che avevano perso alla fine della seconda guerra mondiale. Ci è voluto forse più tempo del previsto, ma nel giro di dieci anni i rapporti di forza tornarono ad essere più favorevoli alle economie occidentali, prima che il ciclo si invertisse nuovamente sul finire degli anni '90. Se si considerano gli investimenti di capitale come caratteristica della fase imperialista del capitalismo, il Giappone, che aveva superato il 10% nel totale dei flussi di Ide in uscita a metà degli anni ottanta, torna indietro al 7% nel 1993, più o meno la stessa percentuale del 1975; nello stesso periodo la quota degli Usa sul totale passa dal 23% di metà anni ottanta al 30% intorno alla metà degli anni novanta: indubbiamente un recupero, ma va ricordato che alla metà degli anni settanta le multinazionali americane contavano per più della metà (53%) del totale degli investimenti di capitale in uscita. Per quanto riguarda le destinazioni di questi investimenti, i paesi dell'Asia orientale attraevano a metà anni ottanta solo il 10% del totale dei flussi di capitale, che diventano il 25% a metà del decennio successivo.

Un risultato non secondario della svolta del Plaza e interessante per il filo del nostro ragionamento fu che la svalutazione della moneta statunitense consentiva di chiudere la crisi del debito estero dei paesi in via di sviluppo per avviare la nuova fase dominata dallo sfruttamento diretto di questi mercati attraverso la promozione degli investimenti, che avevano però bisogno di una massiccia dose di liberalizzazione per consentirne l'invasione. In quell'occasione, le banche private di Usa, Giappone, Europa rinunciarono a chiedere il rimborso totale dei propri crediti, dando avvio a una diversa modalità di gestione dei rapporti imperialistici in cui il ruolo più importante nel movimento internazionale dei capitali si spostava dai prestiti gestiti dai consorzi di banche, prevalenti nel ventennio '70-'80, agli Investimenti diretti all'estero effettuati dalle compagnie multinazionali e agli Investimenti di portafoglio gestiti dai cosiddetti investitori istituzionali. Beninteso, ciò non vuol dire che le banche si ritirassero dal business, piuttosto cambiava la modalità del proprio coinvolgimento, assieme agli strumenti operativi e finanziari con cui intervenire. Agli inizi degli anni '90 lo scenario è pronto, in concomitanza col declino dei tassi di interesse Usa e del conseguente collegato calo del dollaro, per un promettente afflusso dei capitali verso i paesi "in via di sviluppo" le cui economie erano state nel frattempo ampiamente privatizzate anche grazie agli "aiuti" del Fondo monetario internazionale generosamente erogati in cambio della ristrutturazione dei loro debiti. Per dare un'idea dell'entità dei flussi di cui si discute, ricordiamo che all'inizio degli anni '80, nella fase di avvio della prima crisi del debito estero, l'afflusso di capitali nei paesi in via di sviluppo non raggiungeva l'equivalente di 50.000mld di vecchie lire; dopo che la svolta del Plaza fu metabolizzata dai mercati, nel 1993, il flusso era arrivato a 300.000mld ma non appena, come successe durante il 1994, la politica monetaria Usa cambiò di segno, i capitali volarono via: tra la primavera e l'autunno dello stesso gli investimenti erano già calati a 200.000mld. Appare così chiaro che, nonostante si sia trattato e si tratti di movimenti di capitale ingenti in relazione alla storia passata di questi paesi, non si deve commettere l'errore di sopravvalutarne il peso, ma soprattutto occorre tenere ben presente il ruolo "di riserva" di tale impiego del capitale; i flussi finanziari prendono la via dei paesi emergenti solo se e quando le opportunità di profitto nei paesi dominanti appaiono incerte o in calo, pronte a spiccare il "volo verso la qualità" non appena la situazione lo consente. In particolare va sottolineato il ruolo centrale che ha giocato in questi movimenti la politica monetaria della Banca federale statunitense; il capitale si sposta verso la "periferia" dell'impero se e quando i tassi di interesse sulle obbligazioni del Tesoro Usa sono bassi, chiarendo bene il senso in cui va intesa l'espressione "capitale speculativo". Tra alti e bassi, le "ondate anomale" di investimenti nei paesi emergenti sono continuate e continuano tuttora, ed è molto difficile per i paesi "ospiti" cercare di controllarne i flussi. La "sovranità limitata" cui sono sottoposti i paesi dominati dall'imperialismo consiste proprio nella difficoltà di condurre una politica economica autonoma in grado di orientare la direzione dei flussi di capitale, sia in entrata che in uscita. Le "ondate anomale" si interrompono spesso bruscamente, con conseguenze fortemente negative sulle economie dei paesi coinvolti; alcuni autori hanno preso in esame tutte le più recenti ondate di investimento nei paesi emergenti per studiare le caratteristiche di eventi che hanno tutte le carte in regola per meritare la qualifica di eccezionali: su 87 episodi presi in considerazione (un aumento degli investimenti particolarmente superiore alla media storica di un dato paese) ben 40, ossia circa la metà, si sono conclusi in modo brusco, dando avvio a una crisi nel paese interessato.

Dopo l'episodio del Messico, su cui torneremo in seguito, furono alcuni paesi dell'est Asia le prime vittime di una "ondata anomala" che al suo ritiro ha scatenato una crisi gravissima in paesi che, in virtù dello sviluppo raggiunto, evidentemente cominciavano a rappresentare una minaccia per le multinazionali legate ai paesi dominanti. Dopo anni di crescita sostenuta, ottenuta anche grazie al legame valutario stabilito con un dollaro che perdeva quota come deciso al Plaza, bastarono poche settimane per provocarne il collasso; secondo le stime riportate da Joseph Stiglitz nel giro di pochi mesi la percentuale di disoccupati quadruplicò in Corea, triplicò in Thailandia e decuplicò in Indonesia. Non solo. Per via dell'accresciuta interdipendenza tra i sistemi economici, il crollo dell'area del mondo più vitale in termini di tassi di crescita e di accumulazione contagiò rapidamente altri mercati "emergenti" scatenando una crisi globale i cui effetti hanno provocato grosse critiche all'operato delle istituzioni capitalistiche. Uno dei pochi paesi del gruppo delle "tigri asiatiche" a non subire conseguenze particolarmente gravi dall'ondata anomala – a parte la Cina – è stata la Malesia, i cui dirigenti politici rifiutarono saggiamente di seguire i "consigli" del Fondo monetario rafforzando anziché ridurre o eliminare i controlli sul movimento dei capitali e cominciando a pensare a un'alternativa al ricatto valutario esercitato nei confronti dei paesi dominati. La gravità della crisi est-Asiatica aveva mostrato infatti come, oltre al controllo sui movimenti dei capitale, nemmeno la strategia di tenere la propria valuta agganciata al dollaro può essere considerata una garanzia sufficiente in un mondo di cambi flessibili, anche perché la speculazione internazionale può trovare diversi canali per manifestarsi.

Il mercato immobiliare e le cartolarizzazioni dei crediti

Ma,come abbiamo accennato sopra, non di soli investimenti all'estero vive il capitale, anzi. Proprio in virtù del carattere stratificato dell'imperialismo, il grosso dell'impiego del capitale avviene all'interno dei propri confini, e da sempre il mercato immobiliare è una valvola di sfogo importante per il capitale in eccesso, per alcuni addirittura il volano dell'economia reale. Fu nell'autunno del 1975, dunque in coincidenza con l'inizio dell'era della volatilità sui mercati dei cambi e dei tassi di interesse, che a Richard Sandor venne per primo l'idea di legare un contratto future ai mutui immobiliari. Erano le piccole Saving & Loans Banks che negli Usa finanziavano con il denaro depositato dai risparmiatori chi voleva comprare casa. Comportandosi in modo convenzionalmente conservativo, le S&L si rifiutavano di accendere mutui a quel tipo di famiglie – spesso composto da giovani coppie non ricche – che pure ne avrebbero maggiormente bisogno, dal momento che si tratta di soggetti economici che normalmente non sono in grado di fornire garanzie sufficienti. Il governo Usa aveva costituito una agenzia, la Government National Mortgage Association (GNMA) il cui scopo era comprare mutui dalle S&L, "impacchettarli" per poi rivenderli come obbligazioni; questi titoli, denominati mortgage-backed securities (Mbs), fruttando un interesse maggiore di quello pagato dai buoni del Tesoro, si rivelarono subito allettanti per gli investitori. Con i titoli in portafoglio, i costruttori di case americani potevano organizzare il finanziamento dei mutui prima ancora di iniziare a edificare; quando le case erano completate, potevano pubblicizzarne l'acquisto con mutuo incluso, il che costituiva una garanzia di vendita immediata. Ovviamente, un cambiamento nei tassi di interesse poteva generare perdite anche considerevoli per i proprietari di case, ma per le banche coinvolte nell'affare il rischio era già stato trasferito: cartolarizzato. Solo un anno dopo, nel 1976, furono sottoscritti i primi contratti futures sui titoli del debito pubblico e i big del mercato finanziario si spostarono rapidamente sul nuovo business, più redditizio e sicuro, ma nel frattempo le cartolarizzazioni erano diventate una pratica normale dell'intermediazione finanziaria che ha rivoluzionato il funzionamento delle banche. Durante gli anni '60 e '70 gli istituti di credito raccoglievano denaro sotto forma di depositi e conti correnti che poi impiegavano in mutui aziendali, ipotecari e prestiti. Oggi le banche concedono ancora mutui ed emettono carte di credito ma, una volta che hanno finanziato i prestiti, li convertono in titoli negoziabili, li cartolarizzano, trasferendo il rischio a soggetti diversi, che non sempre conoscono con precisione che tipo di titoli hanno in portafoglio. Nel 1980 la quota di debito del settore privato posseduta direttamente dalle banche era pari al 45%, mentre quella cartolarizzata rappresentava il 27% del totale; nel 2007 le banche tengono il 30% dei debiti e ne cartolarizzano il 55%.

Le innovazioni finanziarie che stiamo considerando hanno modificato profondamente la catena finanziaria della crisi con effetti perversi sui meccanismi di trasmissione, dal momento che, una volta operata la cartolarizzazione, gli ex crediti trasformati in titoli diventano obbligazioni junior, ossia subordinate, appartenendo a una classe con priorità inferiore nei confronti dei debiti qualora si verificasse un fallimento.

Un fallimento presenta tipicamente circostanze che richiedono una valutazione speciale per quanto riguarda i creditori, i debitori e i tribunali. Assegnare dei valori, prevedere le azioni della corte, determinare lo status dei detentori di azioni o di obbligazioni sono solo alcuni dei problemi implicati da una procedura di fallimento. Un investitore deve cercare di prevedere che cosa farà la società quando la ristrutturazione sarà completata, quanto varrà la nuova società, e soprattutto come il valore residuo dell'azienda fallita verrà suddiviso tra le varie categorie di creditori. In generale, più una obbligazione è junior, maggiore sarà l'incertezza sul suo valore finale; tale livello di incertezza può teoricamente tradursi anche in un apprezzamento, tuttavia – come riferisce il sito ufficiale del New York Asset Exchange – it is also not uncommon to see junior bonds receive only a few cents on the dollar for their claims.

In diversi e importanti lavori, Hyman Minsky ha costruito un modello utile a comprendere le conseguenze, se non le cause, della fragilità finanziaria per le imprese che sono costrette a ricorrere al debito come fonte di finanziamento. Distinguendo tra posizioni coperte, speculative e ultra-speculative, gli economisti che si rifanno al pensiero di quest'autore osservano che quando una impresa indebitata vede fallire un proprio progetto di investimento, i suoi creditori sono in qualche senso "costretti" a rinnovare il credito proprio per offrire a se stessi, oltre che all'azienda, qualche chance in più. Dal canto loro, per (sperare di) ottenere un profitto sufficiente non solo a recuperare i costi con un sovrappiù ma a rimborsare i debiti vecchi e nuovi, le imprese finanziariamente fragili sono a loro volta spinte a intraprendere progetti di investimento (reale o finanziario) che per essere più remunerativi sono necessariamente anche più rischiosi, con la ovvia conseguenza di moltiplicare il rischio di insuccesso in una spirale che può condurre al fallimento. L'insolvenza di un singolo può "contagiare" altri soggetti economici, tanto più numerosi quanto maggiore è l'intensità dei legami che l'impresa intrattiene col mercato. In altre parole, maggiore l'interdipendenza, maggiore il rischio di contagio, ed è proprio questa la situazione che vogliamo esaminare se, passando dal "micro" al "macro", affrontiamo il problema del fallimento non di un singolo attore economico per quanto importante, ma di un intero settore come quello finanziario e addirittura di entità sovrane come alcuni Stati nazionali considerando la crisi non già un evento eccezionale, ma la modalità normale di funzionamento del ciclo capitalistico di accumulazione.

La regolamentazione del settore bancario non solo negli Usa ma pure in Europa avvenne dopo quello che tradizionalmente si continua a considerare il più grande fallimento della storia del capitalismo, il crollo del 1929, che coinvolse pesantemente il settore bancario. In alcuni paesi come l'Italia il Tesoro è stato a lungo addirittura proprietario delle banche, ma più in generale sia in Europa che negli Usa nel periodo pre-privatizzazioni spesso indicato a esempio negativo di una eccessiva invadenza del settore pubblico nell'economia, non si sono verificati significativi esempi di crisi del mondo bancario, tranne alcune limitate eccezioni. Viceversa, da quando è stata avviata a livello internazionale la liberalizzazione del settore finanziario, non solo nei paesi "emergenti", ma anche in quelli avanzati, la frequenza e l'intensità delle crisi è aumentata fino a raggiungere i valori tipici del periodo pre-regolamentazione. Eppure, tale evidenza storica difficilmente contestabile sembra non scalfire le certezze degli apologeti del libero mercato; piuttosto che riflettere criticamente sulle contraddizioni in cui si dibatte il liberismo, le istituzioni finanziarie internazionali continuano a reclamare il diritto di possedere privatamente le banche, salvo invocare l'intervento pubblico ogni volta che la crisi si manifesta minacciando i propri interessi. E' successo con le S&Ls durante gli anni '80, poi con le gravi crisi finanziarie della seconda metà degli anni '90, sta accadendo di nuovo in questo periodo, con il salvataggio delle banche coinvolte nella crisi legata alla cartolarizzazione dei mutui sub-prime. Appare invece evidente che un comportamento coerente con l'impostazione liberista dovrebbe accettare e non solo teorizzare la possibilità del fallimento come una virtù del libero mercato. Se una banca o un fondo di investimenti fallisce, vuol dire che il mercato ha giudicato sbagliati o scorretti i comportamenti di quelle imprese, e se si decide di salvarli, ciò equivale a riconoscere ad alcune istituzioni del capitalismo uno status particolare che altri soggetti dotati di minora forza contrattuale non hanno. Tale status dipende chiaramente dal ruolo che il nodo finanziario gioca nella rete delle filiere transnazionali di produzione. Per via del meccanismo di trasmissione degli impulsi finanziari al settore reale dell'economia, una perdita del settore finanziario si trasmette amplificata al settore produttivo ed il moltiplicatore corrisponde esattamente al rapporto di leva delle istituzioni finanziarie. Seguendo i principi della teoria ortodossa della finanza, quando una banca osserva un attivo alto del proprio bilancio, deduce che il proprio rapporto di leva sia troppo basso e deve essere aumentato; se – ad esempio – aumenta il prezzo delle obbligazioni detenute dalla banca, cresce anche la domanda di queste obbligazioni che la banca sostiene aumentando la propria leva. Greenwald et al. (2008) trovano in questo comportamento un interessante analogia con la "capacità in eccesso" con cui operano normalmente le imprese manifatturiere; nel caso della produzione industriale, la tipica forma " a catino" della curva dei costi medi sta ad indicare che le imprese, per fronteggiare una domanda stocastica, devono operare con impianti che non lavorano quasi mai al massimo delle proprie capacità. Dal versante delle passività, questo comportamento implica un aumento dei debiti a breve, da quello delle attività la ricerca continua di impieghi e di nuovi potenziali debitori. Quando la crisi scoppia, come avviene nell'estate del 2007, le istituzioni finanziarie con un elevato rapporto di leva non hanno molte alternative: o contrarre le proprie attività rimettendo ordine nei propri bilanci, o riuscire a raccogliere nuovo capitale per raggiungere un nuovo equilibrio manovrando sul versante delle passività. In attesa del raggiungimento del nuovo equilibrio, il settore finanziario si vedrà costretto a ridurre di una quota anche significativa la leva del credito e questo comportamento avrà a sua volta ripercussioni amplificate sul settore reale dell'economia colpendo particolarmente gli agenti economici per cui il vincolo di bilancio morde. Per sistemi economici in cui la spesa dei consumatori dipende in modo considerevole dall'indebitamento, una contrazione del credito può ridurre di molto la crescita del reddito con effetti a catena sugli altri soggetti del mercato mondiale. E' per evitare questo genere di conseguenze che, quando scoppia la crisi, si torna a invocare l'intervento pubblico.

Dal punto di vista teorico richiedere l'intervento pubblico per salvare una istituzione finanziaria fallita segnala che la teoria liberista non funziona in modo coerente e questa considerazione assume un peso particolare a seconda del giudizio che si dà sulla probabilità che si verifichi un evento negativo, cioè a seconda che si consideri o meno la crisi un evento eccezionale, per frequenza, diffusione, intensità.

Crisi della teoria e teoria della crisi

La teoria economica ortodossa assume, nei confronti delle crisi, un atteggiamento che tende a presentare i suoi fenomeni come eventi eccezionali, ossia accadimenti rari che, almeno dal punto di vista della frequenza con cui si manifestano, non rappresentano altro che scostamenti occasionali da una modalità di funzionamento del macrosistema economico contrassegnato nella maggior parte dei casi da regolarità e prevedibilità nel comportamento dei soggetti. Le crisi finanziarie in particolare, che costituiscono gli epifenomeni con cui si manifesta la prima apparizione della crisi, vengono analizzate spesso senza considerarne le relazioni con il settore reale dell'economia, quasi a voler preservare la fondatezza di almeno una parte della teoria, da non contagiare con il suo versante finanziario. Ancora, si tende a restringere le preoccupazioni relative alla crisi al sottoinsieme dei mercati "emergenti", a voler significare che se problemi esistono, questi hanno origine e causa in sistemi ancora "primitivi" rispetto al ristretto club dei paesi a capitalismo "maturo" che riuscirebbe a tenere efficacemente sotto controllo anche le dinamiche potenzialmente perniciose del capitalismo, in virtù della sua lunga storia e – va da sé – della superiore abilità della sua classe dirigente. Con tali dispositivi ideologici, non sorprende che la crisi venga sottovalutata e ridimensionata dalla teoria mainstream, che fa ricorso a un ventaglio di ipotesi esplicative che, pur con molti elementi alternativi, hanno alcuni punti in comune.

Alla base c'è l'idea che le crisi economiche vadano considerate alla stregua di eventi eccezionali naturali come i terremoti, per loro natura rari e difficilmente prevedibili. Una variante – come accennavamo sopra – consiste nel separare drasticamente l'economia reale, presupposta stabile e efficiente, da quella finanziaria, fraintendendo in questo modo la nozione di capitale finanziario da intendersi invece, leninianamente, come unità, fusione avvenuta e realizzata nelle holdings, di banche e imprese. Non è possibile separare nettamente il capitalismo finanziario da quello produttivo per la semplice ragione che spesso queste due funzioni del capitale convivono nello stesso soggetto, tipicamente rappresentato da una holding, che opera sia nel campo degli investimenti produttivi che in quello della speculazione, attraverso strumenti operativi diversi che rendono solo più difficile l'individuazione della piramide societaria agli occhi del fisco. Tuttavia, è possibile considerare separatamente le due funzioni del capitale ed in questo senso appare corretto sostenere che siamo in presenza di una tendenza a una progressiva autonomizzazione delle funzioni meramente speculative del capitale, a patto di tenere bene a mente che tale fenomeno avviene proprio a causa dei meccanismi su cui si fonda l'accumulazione di capitale, che rendono ciclicamente insufficiente la produzione di plusvalore in rapporto al valore e alla consistenza del capitale esistente.

Per estorcere plusvalore nella produzione, tra i diversi modi teoricamente possibili, quello storicamente più efficace per battere la concorrenza è l'introduzione di continue innovazioni tecnologiche nei prodotti e nei processi produttivi. Le nuove tecnologie incorporate in macchinari e sistemi organizzativi più efficienti aumentano la forza produttiva del lavoro, che riesce così a realizzare volumi maggiori di merce in un tempo di lavoro inferiore a quello necessario con macchinari o metodi di produzione meno avanzati. In questo modo, a patto di riuscire poi a vendere la maggiore quantità di merce prodotta, le imprese innovatrici possono sfruttare con la concorrenza la possibilità di produrre e dunque di vendere le singole unità di merce a un prezzo che sarà più basso unicamente perché più breve è stato il tempo di lavoro necessario a produrle. L'introduzione di continue innovazioni tecnologiche, resa "obbligata" dalla concorrenza crescente, aumenta la forza produttiva del lavoro e per ciò stesso, riducendo il tempo di lavoro necessario a produrre la singola unità di merce, ne riduce anche il valore. Il comportamento dei capitalisti innovatori ha successo a patto che si riesca a vendere sul mercato un quantitativo di merce superiore a quello prodotto con la tecnologia precedente, il che significa assumere un contesto di domanda infinitamente crescente; bisogna considerare il ruolo dei cicli, dal momento che gli effetti di monopolio temporaneo da innovazione durano fintanto che i capitalisti imitatori non riescono a replicare le condizioni della best technology nei propri impianti; soprattutto, le innovazioni tecnologiche modificano la composizione del capitale aumentando la sua parte costante a spese di quella variabile, che può anche crescere in assoluto, ma sempre meno di quanto aumenti la spesa per capitale fisso. La riduzione relativa della quota di capitale variabile sul totale significa che diminuisce il lavoro necessario su scala globale, mentre cresce il lavoro eccedente, superfluo. In queste condizioni, se si mantiene l'ipotesi marxiana secondo cui il valore delle merci dipende dal tempo di lavoro necessario a produrle, e si continua a ritenere conseguentemente che il plusvalore si estrae dal lavoro necessario, si può concludere che, riducendosi il lavoro necessario, si abbassa – col tempo, in tendenza e con tutte le controtendenze che è necessario prendere in considerazione, in primis il credito – anche il saggio di plusvalore, che si trasforma grazie alla concorrenza in saggio di profitto, relativamente al capitale in circolazione. Tra le controtendenze all'opera una, di natura ciclica, consiste nella svalutazione periodica e nella distruzione quando la svalutazione non basta più, di quote di capitale in eccesso rispetto alla quantità necessaria a mantenere il saggio del plusvalore a livelli soddisfacenti. Mentre il capitale cerca, via innovazioni tecnologiche, di aumentare il saggio di profitto facendo crescere il numeratore del rapporto, periodicamente si tenta di mantenere il risultato raggiunto facendo diminuire il denominatore. L'altra tendenza, di lungo periodo, è quella rappresentata dal credito e dalle innovazioni finanziarie che, anticipando finanziamenti, rinviano il bilancio del capitale posticipando all'infinito la realizzazione. Fino a questo momento è stata proprio quella del credito la leva principale, la cui manovra può incepparsi se i soggetti economici non riescono a sostenere adeguatamente i due pilastri fondamentali su cui si regge l'equilibrio finanziario di una struttura, la liquidità e la solvibilità.

Del fallimento di una impresa abbiamo detto, ma la gravità della crisi costringe oggi a fare i conti con un problema inedito per la storia economica del capitalismo, il fallimento dello Stato sovrano.

Insolvenza e sovranità

Le differenze tra insolvenza sovrana e fallimento di una impresa sono evidenti dalla natura dei soggetti coinvolti, tuttavia è difficile resistere alla tentazione di istituire una analogia, utile se non altro almeno a sottolineare i problemi cui vanno incontro la logica giuridica e quella economica quando devono occuparsi di situazioni eccezionali. Possiamo definire insolvenza sovrana la situazione in cui, a causa di una crisi economica che si può manifestare in riferimento ai conti correnti, al tasso di cambio, ai bilanci delle banche, il governo di un paese sospende il pagamento degli interessi sul debito estero o il rimborso del valore del principale del debito estero stesso (default). L'insolvenza sovrana può essere dichiarata sia con riferimento ad obbligazioni collocate sul mercato internazionale dei capitali, che nei confronti di prestiti erogati da un pool di banche estere; in questo contesto, quando non specificato ulteriormente, ci riferiremo in generale al debito pubblico detenuto da creditori esteri, prestando particolare attenzione al problema della denominazione valutaria del debito emesso. Escludere dalla trattazione il debito pubblico collocato all'interno non modifica la sostanza delle nostre osservazioni, dal momento che le crisi sovrane dichiarate sul debito collocato all'estero si sono manifestate nel periodo 1975-2002 con una frequenza dieci volte superiore a quella riferita al debito pubblico interno. La differenza rilevante tra le insolvenze sovrane degli anni '80 e quelle del decennio scorso va rintracciata piuttosto nel cambiamento intervenuto nella composizione dei finanziamenti esteri, dai prestiti bancari alle obbligazioni; tale modifica si è di conseguenza riflessa in un analogo cambiamento intervenuto nella tipologia di insolvenza sovrana prevalente, con le conseguenze in termini di gestione della crisi debitoria.

Un primo problema riguarda la definizione: che cosa deve intendersi esattamente per causa di insolvenza di uno Stato? Paulus parla di "proven inability to pay its debits"come criterio oggettivo, che in termini economici potrebbe riferirsi a una situazione in cui il raggiungimento dell'avanzo di bilancia commerciale necessario per consentire di onorare i propri impegni internazionali richiederebbe una compressione dei consumi interni al di sotto del livello di sussistenza. Diverso è il caso teorico dellaunwillingness to pay, da intendersi come indisponibilità del sovrano a rispettare i propri impegni contrattuali. La differenza tra impossibilità e indisponibilità a pagare è sufficientemente chiara dal punto di vista semantico e dell'atteggiamento soggettivo cui rimanda, ma non altrettanto in quanto ai riferimenti oggettivi, al valore delle variabili, dei "fondamentali" dell'economia in grado di rivelare senza possibilità di errore se una dichiarazione di insolvenza sovrana sia da attribuirsi a impossibilità o indisponibilità da parte di un governo. Da parte nostra, non insisteremo su questo aspetto del problema, centrando piuttosto l'attenzione sulla logica, politica giuridica ed economica, che ha guidato la riflessione su come intervenire una volta che la dichiarazione di insolvenza abbia avuto luogo.

Come appare evidente, in una relazione contrattuale di tipo debito/credito, non si può trattare il problema dell'insolvenza senza considerare il punto di vista dei creditori, il che equivale ad affrontare l'aspetto del rendimento dei titoli sovrani. Nel caso della Russia, la condizione in cui si trovava il governo di Mosca nell'estate del 1998 era quella di debitore in dollari nei confronti dei prestiti del Fondo monetario internazionale e in rubli nei confronti delle banche occidentali rispetto a titoli denominati in valuta locale che fruttavano un interesse annuo superiore al 40%. Si tratta, come è evidente, di un rendimento talmente elevato da implicare un livello di rischio conseguentemente alto; le banche occidentali, cui non mancano sofisticati strumenti di monitoraggio dei rischi, erano evidentemente più che consapevoli e felici di impegnarsi nel business, dal momento che l'economia russa prometteva di rappresentare la nuova frontiera del neonato capitalismo privato made in Moscow. L'anno precedente, con il boom delle privatizzazioni delle risorse ex sovietiche, la borsa di Mosca era cresciuta del 149% in termini di dollari, mostrando come sia obbiettivamente difficile accettare il punto di vista secondo cui le crisi sovrane – come quella del debito russo – possano essere considerate eventi "eccezionali" nel senso di imprevedibili: quando il valore di una serie storica si allontana così bruscamente dalla sua media, per quanto limitata possa essere la serie stessa, dovrebbe essere evidente che si tratta di rendimenti "eccezionali" e in quanto tali difficilmente sostenibili e replicabili se non per periodi estremamente limitati. Inoltre il mercato delle obbligazioni pubbliche funziona in modo diverso da quello delle borse: il rischio è in media più basso, e sarebbe ragionevole attendersi rendimenti conseguentemente minori. Prestare denaro ai governi dei paesi "emergenti" è un business estremamente conveniente e, per i creditori, non più rischioso della media se si tiene conto che i rendimenti effettivi (ovvero tenuto conto dei casi di default e/o di rinegoziazione) dei titoli di debito emessi dai paesi (allora considerati) in via di sviluppo tra il 1968 e il 1988 sono stati equivalenti ai rendimenti dei meno rischiosi titoli di stato statunitensi o inglesi. Secondo Lindert e Morton il rendimento effettivo dei titoli pubblici emessi dai paesi in via di sviluppo tra il 1850 e il 1970 sarebbe stato addirittura superiore, sebbene di poco, a quello di alcuni titoli del Tesoro americano. Più recentemente, alcuni economisti del Fondo monetario internazionale hanno confrontato il tasso d'interesse sui titoli emessi dai paesi oggi ridefiniti emergenti tra il 1970 e il 2000 con quello dei titoli pubblici Usa a 3 e a 10 anni, trovando che il rendimento dei primi risulta in media del 9% l'anno, valore analogo a quello dei titoli Usa decennali e leggermente superiore a quelli a breve. Ne risulta che, pur tenendo conto dei rischi di insolvenza sovrana, il rischio di prestare denaro ai paesi emergenti è praticamente zero, il che solleverebbe semmai un'altra questione, relativa al ratingsolitamente inferiore per questi titoli rispetto alla media delle obbligazioni private. Come sta emergendo chiaramente dall'ultimo episodio della crisi generato dalla concessione di mutui immobiliari anche a soggetti senza merito di credito, le innovazioni finanziarie centrate sui prodotti derivati consentono alle banche di liberarsi dal rischio di prestiti poco sicuri trasformandoli in obbligazioni sul cui grado di rischio la valutazione è rimandata alle agenzie di rating.

Tuttavia una differenza tra debiti sovrani esiste, ed è tutt'altro che irrilevante: la maggiore variabilità e la minore correlazione dei titoli del debito estero dei paesi emergenti con i rendimenti dei mercati azionari dei paesi dominanti. Queste caratteristiche giocano però a favore e non contro le banche creditrici, dal momento che consentono al capitale finanziario transnazionale di investire tranquillamente nei mercati emergenti, trovando poi nel "ritorno alla qualità" un ottimo strumento di copertura dai rischi. A loro volta, la diversa (maggiore) variabilità e la minore correlazione al ciclo mondiale del debito pubblico dei paesi emergenti dipendono in maniera cruciale dalle diverse caratteristiche del debito tra paesi dominanti e paesi dominati, particolarmente in riferimento all'ammontare del debito, alla quota del debito estero sul totale, alla sua durata (maturità) e alla valuta in cui il debito è denominato. Nei paesi "emergenti", ossia dominati dall'imperialismo, non solo – come è facile attendersi – l'ammontare di debito è maggiore, ma anche la quota del debito estero sul totale è tipicamente molto più alta della media dei paesi dominanti e, soprattutto, non è possibile per i governi che raccolgono tasse in una valuta diversa da quelle forti accendere debiti nelle proprie monete. Gli Usa, il maggior debitore del mondo, hanno un debito estero che vale circa il 30% del proprio reddito nazionale annuo, ma si tratta di un debito interamente denominato in dollari. Da questo punto di vista, il calo continuo e per certi versi impressionante del valore del dollaro che continua da anni e che non accenna a diminuire nel primo trimestre del 2008 ha un indubbio effetto benefico sul valore del proprio debito che si svaluta assieme alla moneta. Al contrario, come ben sanno al FMI, il 99,7% del debito estero dei paesi emergenti è denominato in valuta estera, di cui un po' più della metà è costituito da dollari; detto in modo diverso nel periodo più caldo delle crisi di insolvenza sovrane i centri finanziari dei paesi dominanti (Usa, Ue, Regno Unito, Giappone e Svizzera) hanno emesso il 71,5% del debito estero e tuttavia la quota di debito denominata nelle loro valute (Dollaro, Euro, Sterlina, Yen e Franco svizzero) risulta pari nello stesso periodo al 94,6%; di converso, i paesi dominati dall'imperialismo hanno emesso tra il 1993 e il 2001 il 9% del debito mondiale ma le loro valute pesano per lo 0,7% del totale. Barry Eichengreen e Ricardo Hausman parlano a questo proposito del "peccato originale" della finanza internazionale che fonda sul ricatto valutario la propria forza, impedendo ai paesi dominati di poter accendere debiti nelle proprie monete. C'è da sottolineare a tale proposito il ruolo della Banca mondiale, che pure dovrebbe onorare il proprio ruolo internazionale di prestatore di fondi indipendente in quanto a loro denominazione valutaria; ripetutamente chiamati in causa su questo argomento, i dirigenti della Banca si sono difesi dichiarando che anch'essi, come qualsiasi altra banca, per poter erogare finanziamenti devono a loro volta reperire fondi e questi, sul mercato internazionale dei capitali, sono denominati esclusivamente in valute forti. Va tuttavia osservato che delle due linee di finanziamento con cui la Banca mondiale reperisce i fondi necessari alle proprie attività istituzionali, una è effettivamente "di mercato", mentre l'altra è costituita dalle risorse conferite alla Banca dai singoli governi nazionali e queste sono denominate in valuta locale, sicché non ci sarebbe alcun problema se almeno alcune linee di finanziamento a progetti di sviluppo locale potessero essere fornite in valuta nazionale invece che in monete forti.

Le riserve ufficiali come assicurazione dal rischio di insolvenza

Con questo "peccato originale" da scontare si capisce come, soprattutto dopo la disastrosa esperienza degli anni '90, la maggioranza dei paesi "emergenti" a rischio, abbia cercato e stia cercando di assicurarsi dal rischio di insolvenza trattenendo riserve monetarie in eccesso, anche "molto" in eccesso rispetto al valore considerato di "equilibrio" dalla teoria standard a riguardo. Curiosamente (dal punto di vista degli economisti ortodossi) mentre un comportamento del genere, osservato oggi con comprensibile scrupolo da tutti i principali candidati ad essere colpiti dalla speculazione internazionale, dovrebbe essere salutato con favore da parte dei custodi dell'ortodossia monetaria, è proprio il livello di riserve e ancor più il loro utilizzo ad essere oggi al centro degli strali del Fondo monetario internazionale. Avendo accumulato negli ultimi anni, grazie anche ad una dinamica del prezzo delle materie prime per una volta a loro favorevole, un ammontare di valuta estera al di là delle necessità pur prudenziali di ridurre il rischio di fallimento, questi paesi hanno deciso di utilizzare una parte di tali riserve costituendo Fondi sovrani che compiono investimenti di mercato né più né meno degli altri investitori istituzionali che sono impegnati quotidianamente in operazioni di movimento dei capitali. I Sovereign wealth funds possono contare (primavera 2008) su attività del valore di 3.100mld$, che rappresentano ovviamente una cifra più che rispettabile, soprattutto se rapportata al totale delle riserve detenute dalle Banche centrali dei paesi emergenti che ammontano, oro escluso, a 4.200mld$; se alla metà degli anni '90 l'investimento gestito dai Fondi sovrani era limitato a 500mio$, le mutate condizioni del mercato mondiale hanno consentito a questi nuovi soggetti di entrare con un certo peso anche nelle istituzioni finanziarie occidentali per quote che si aggiravano sui 10mld$ nel 2006, fino ad arrivare a 80mld$ nel 2007. Comprensibile la paura della concorrenza, tenendo a mente che le attività gestite dalle compagnie assicurative occidentali ammontano a 16milamld$, quelle dei fondi pensione a poco meno di 18mila, e che l'attivo del sistema bancario Usa è stimato (dicembre 2007) dal Federal reserve board in 1.100mld$.

Se però escludiamo l'argomento della concorrenza, dovrebbe essere ragionevole riconoscere che, piuttosto che tenere tali riserve inattive e improduttive, sia conveniente per qualsiasi paese, ma a maggior ragione per soggetti deboli sul piano internazionale, cercare di utilizzarle nella maniera più redditizia ma il Fondo monetario e le altre istituzioni internazionali considerano improprio un tale utilizzo cercando in vari modi di regolamentare (alias ostacolare) tali operazioni, gettando una luce sinistra sulle "preoccupazioni" che tali istituzioni esprimono in ordine alla eventualità che i paesi emergenti possano venire colpiti nuovamente da eventi eccezionali negativi dai quali stanno con ogni evidenza cercando di assicurarsi utilizzando strumenti di mercato. Vale la pena insistere su questo punto, dal momento che molte delle riflessioni degli economisti che si stanno occupando di quest'argomento sono rivolte a mettere in guardia dai "rischi" di un utilizzo improprio delle riserve ufficialmente detenute dalle Banche centrali, che per la teoria ortodossa dovrebbero rimanere congelate nei caveau lasciando ai soggetti privati della finanza internazionale il monopolio di tutte le operazioni più redditizie vietate, ma non è mai esattamente chiarito il perché, esattamente a quei soggetti pubblici che ne avrebbero maggiormente bisogno. La ragione di una tale impostazione appare più chiara se si esamina la letteratura che considera, a proposito della gestione delle crisi come uniche alternative considerare il Fondo monetario internazionale come prestatore di ultima istanza (International Lender of Last Resort, ILOLR) o coinvolgere i creditori privati in un processo, da rendere meno costoso, di rinegoziazione del debito. Il disegno istituzionale è abbastanza evidente: a provvedere i Paesi in difficoltà dei fondi necessari alla crescita e allo sviluppo possono e devono essere unicamente i soggetti "a ciò preposti": IMF e banche occidentali, con il ruolo più limitato possibile da riservare agli Stati dominati la cui sovranità va messa sotto tutela. Per discutere criticamente una tale impostazione e rilevarne i limiti, oltre ad insistere sulla questione dell'utilizzo delle riserve ufficiali anche come Fondi sovrani, che semmai dovrebbe essere una possibilità da prendere in considerazione anche da parte degli Stati dominanti, piuttosto che cercare di impedirla agli Stati dominati, passeremo in rassegna nuovamente i principali episodi di crisi dell'ultimo decennio, questa volta però con l'attenzione rivolta non tanto alle ragioni che hanno reso possibili le crisi, quanto agli strumenti di volta in volta adoperati per risolverle.

Che si tratti di incapacità o di mancata volontà di onorare i propri impegni da parte di un governo, uno dei problemi principali dei contratti di debito pubblico riguarda lapriorità che possono vantare i creditori nei confronti di tali obbligazioni. Come è noto agli studiosi di diritto fallimentare, un tipico regime che regola l'insolvenza deve definire, in termini generali, come trattare i diversi diritti su una impresa fallita in caso di ristrutturazione e come definire l'ordine dei pagamenti in caso di liquidazione. Le leggi fallimentari indicano che, in via generale, azioni e obbligazioni hanno grado inferiore (junior) rispetto al debito: i debiti vanno pagati prima e, se i debitori non possono pagare, i creditori possono prendere il controllo dell'impresa. Nel caso dei debiti sovrani, non esiste alcuna regola formale che stabilisca l'ordine di priorità, e questa assenza ha fatto sì che il dibattito si sia concentrato attorno alla dimostrazione di quanto una analogia con il settore privato sia sostenibile o, al contrario, impossibile da argomentare. Oltre all'assenza di un regime formale che regoli la seniority non esiste nemmeno una Corte che abbia il potere di forzare un governo a rispettare una qualche regola, e queste due caratteristiche lasciano ai governi una discrezionalità nell'ordine dei pagamenti che tipicamente può lasciare scontenti alcune classi di creditori.

La priorità di cui qui si discute può essere di tipo assoluto o relativo; priorità assoluta vuol dire che le obbligazioni senior vanno rispettate interamente, quelle di rango minore per una quota inferiore e così di seguito, mentre un regime di priorità relativa assicura solo un miglior trattamento ai senior rispetto alle obbligazioni di grado inferiore. Da un punto di vista materialistico, appare evidente come sia la forza contrattuale relativa dei contraenti ad assicurare agli stessi un grado di protezione conseguente anche sul piano giuridico formale; non sorprende allora che al Sovrano sia stato storicamente riservato un grado di libertà superiore a quello di un qualsiasi altro soggetto contrattuale di natura privata: la battaglia sull'interpretazione delle clausole contrattuali riflette così l'attuale declino della forza della sovranità statuale (più precisamente, della sovranità degli Stati dominati, meno di quella degli Stati imperialisti) nei confronti della maggiore forza dei soggetti che rappresentano gli interessi del settore privato dell'economia. Nel corso degli ultimi trenta anni, una delle "traiettorie naturali" del capitalismo giunto alla sua fase di imperialismo transnazionale è stata la progressiva trasformazione del ruolo del settore pubblico, a favore di una privatizzazione non solo delle risorse del pianeta, ma anche – e conseguentemente – dello stesso regime giuridico dei contratti, da quelli che regolano il mercato del lavoro, fino a quelli che regolano l'insolvenza. In tutti i campi una regolazione di natura privatistica tende a soppiantare la logica pubblicistica, fino a realizzare oggi un inedito mix in cui la governance si esprime in nuovi soggetti della sovranità che, sul piano interno dei singoli Stati nazionali, vanno dalle varie Autorità indipendenti ai Consorzi misti alle Fondazioni fino alle Organizzazioni non governative.

Volendo riassumere e sintetizzare le questioni sul tappeto facendo riferimento all'esperienza degli ultimi dieci anni, il dibattito a proposito dell'insolvenza si è concentrato su una domanda: è meglio provvedere a rifinanziare con fondi pubblici lo Stato insolvente (ipotesi definita in letteratura come Bailout) o è meglio incentivare in qualche modo la ristrutturazione del debito coinvolgendo attivamente il settore privato dell'economia (Bail-in)? Dei principali paesi coinvolti nella seconda metà degli anni '90 in crisi talmente gravi da portare in tre casi alla dichiarazione di insolvenza da parte del sovrano, la scelta di intervenire con prestiti – salvataggi ha avuto successo praticamente solo nel primo degli episodi verificatisi, il Messico.

Insolvenza sovrana e stato di emergenza

La crisi dell'economia messicana costituisce un caso particolarmente importante perché fu il primo episodio di quella fase nuova del ciclo della crisi, avviata con l'accordo monetario raggiunto all'Hotel Plaza nel settembre 1985 e poi venuta a maturazione completa nei primi anni '90. Quando, per effetto del cambiamento nella politica monetaria Usa, il dollaro tornò (per l'ultima volta) ad apprezzarsi, i capitali volarono via e non solo dal Messico del "miracolo economico", per tornare verso la "qualità", ossia i titoli pubblici emessi dal governo nordamericano. A partire da quel periodo, cioè dalla metà degli anni '90, il giro della morte del capitale fittizio ha colpito, con un effetto domino, l'Argentina, il Brasile e, più tardi, le economie delle cosiddette "tigri" dell'Asia orientale. Ecco perché, con riferimento alla crisi messicana, l'intervento di salvataggio è stato così immediato e deciso: circa 38mld di dollari sono stati messi da Imf (18mld) e Tesoro Usa (20mld) a disposizione di chi voleva liquidare i Tesobonosemessi per finanziare la speculazione e dopo lo scoppio della crisi ridotti a un valore da liquidazione. La ragione di tanto interesse è fin troppo evidente: quella del Messico è una economia con rapporti strettissimi con gli Usa e il NAFTA uno strumento cruciale di tali rapporti.

Il caso polare (in quanto a strumenti adoperati) rispetto al Messico fu l'Ecuador: se nei confronti della crisi messicana la strada scelta fu quella del salvataggio diretto e totale, nei confronti dell'Ecuador si adottò la strategia opposta. Alla fine dell'estate del 1999 il governo dell'Ecuador si dichiarò insolvente nei confronti dei vecchi Brady bonds: la decisione fu commentata con toni fortemente preoccupati dai dirigenti del Fondo monetario internazionale i quali dichiararono pubblicamente, per la prima volta, che non intendevano prestare aiuti al governo centroamericano, anche perché all'epoca il governo di Quito non aveva alcun programma in gestione con il Fondo. La prima lettera di intenti è di settembre, anche se negoziati veri e propri non iniziano prima di aprile dell'anno successivo: debitori e creditori furono lasciati contrattare "liberamente" e, in estate, il governo offrì di scambiare i vecchi titoli con nuove obbligazioni il cui rendimento era fissato a meno della metà (6,5mld$): il tasso di partecipazione fu del 99%, ma la vera posta in gioco fu chiara nel giro di poche settimane. A settembre dello stesso anno il governo dell'Ecuador dichiarò di rinunciare alla propria sovranità valutaria per adottare il dollaro Usa come propria valuta; la decisione scatenò una rivolta popolare generalizzata in seguito alla quale, il 2 febbraio del 2001, venne dichiarato lo stato di emergenza. La successione temporale degli avvenimenti deve far riflettere: non è accaduto che provvedimenti economici di tipo straordinario come la dollarizzazione dell'economia di uno Stato sovrano siano stati presi in conseguenza della dichiarazione dello stato di emergenza; al contrario, la proclamazione dello stato di emergenza è stata la reazione all'opposizione popolare nei confronti di un provvedimento eccezionale, come la rinuncia alla propria sovranità valutaria. Il risultato, anche limitando le osservazioni alla sola ristrutturazione del debito ecuadoregno e dunque tralasciando ogni altra considerazione sulle conseguenze della dollarizzazione, è che il governo dell'Ecuador, pur in presenza di una crescita dell'economia, di prezzi del petrolio in aumento, e di un surplus di bilancio, ha dovuto continuare in tutti questi anni a pagare un altissimo prezzo per i propri prestiti al Club di Parigi e agli altri debitori esteri con il coupon sull'eurobond che ha continuato ad aumentare fino al 2006, senza dunque aver risolto il problema della sostenibilità del proprio debito.

Nelle stesse settimane in cui il governo dell'Ecuador contrattava con i banchieri internazionali la ristrutturazione del proprio debito estero, anche il governo russo era impegnato in una operazione analoga il cui valore era però cinque volte superiore: il valore dei titoli da scambiare era pari a 31,8mld$. Il caso dell'insolvenza russa è diverso anche per altri aspetti, a parte l'entità, rispetto alla crisi dell'Ecuador. Nei mesi precedenti la crisi, l'economia russa era considerata ufficialmente dagli investitori e dalle istituzioni internazionali la nuova terra promessa del capitalismo: finalmente liberata dalle regole e dalle inefficienze dello Stato "socialista", il paese più esteso del mondo con i suoi 11 fusi orari, era considerata indubbiamente dai pescecani della finanza internazionale una preda più appetitosa di un piccolo paese equatoriale. Ben prima, e dunque in totale assenza, di una qualsiasi ristrutturazione del settore pubblico o di una regolamentazione dei mercati, la liberalizzazione dei movimenti di capitale fortemente perseguita dagli ambienti finanziari occidentali in combutta con le nuove "forze emergenti" (la mafia russa, tanto per non far nomi) si è tradotta in un disastro senza precedenti per la finanza pubblica, in cui evasori interni e banchieri esteri si dividevano gli alti rendimenti sul debito pubblico trasferendo poi all'estero i capitali. Per assicurarsi dal rischio di una svalutazione del rublo, gli investitori esteri si coprivano con le banche locali, sottoscrivendo contratti che obbligavano gli istituti di credito russi a vendere dollari a una data prefissata e a un prezzo già stabilito, anche se nel frattempo il rublo si fosse svalutato. Non c'è da stupirsi se la crisi si sia manifestata a partire dal settore bancario, e in un certo senso è stato un vantaggio che le banche russe fossero prevalentemente impegnate in questo genere di business piuttosto che nel finanziamento alla produzione, ché questa assenza di legami ha impedito un effetto contagio più pesante sul settore reale del paese. Nei confronti della crisi russa l'intervento diretto del Fondo monetario ci fu, ma si trattò solo di un piccolo aumento nell'esposizione che passò da 13 a 19mld$ nel corso del '98; il grosso del salvataggio riguardò il fallimento del fondo LTCM, ma questa è un'altra storia. L'insolvenza russa riguardava 14mld$ nel debito denominato in rubli (i celebri GKOs e gli OFZs) e 32mld$ di debiti emessi in epoca sovietica; i primi furono ristrutturati nel corso del 1999, gli altri (il cosiddetto debito nei confronti del Club di Londra) vennero riconvertiti in eurobond più tardi, nel 2000.

Nel caso dell'Argentina, la decisione chiave riguardò la fissazione del tasso di cambio: il governo, già agli inizi degli anni ‘90, seguì fedelmente i consigli (e gli interessi) dei creditori, fissando una parità di 1:1 col dollaro che serviva unicamente a garantire la stabilità per gli investitori che volevano ritirare i loro risparmi. Le privatizzazioni dei più importanti settori economici del paese, assieme all'apprezzamento del valore del dollaro verificatosi tra il 1998 e il 2001, si rivelarono insostenibili per il debito del paese: tra la metà del '99 e l'estate del 2000 i tassi di interesse a breve sul dollaro crebbero di 175 punti base generando una situazione fuori controllo. Quando divenne evidente che gli investitori esteri avevano smesso di avere fiducia nella sostenibilità del debito argentino, anche i risparmiatori interni cominciarono a esportare capitali fuori dal paese facendo esplodere la crisi. Il Fondo monetario internazionale approvò a gennaio del 2001 un programma di salvataggio che (15mld$) serviva a coprire giusto il fabbisogno pubblico del primo trimestre dell'anno, con l'idea che il governo di Buenos Aires dovesse/potesse cercare il grosso dei finanziamenti di cui necessitava sul mercato internazionale dei capitali. Il progetto del Fondo fallì e in autunno furono stanziati altri 8mld$; il governo non riuscì a pensare a niente di meglio che a impedire ai lavoratori di ritirare i propri fondi (i grandi capitali erano nel frattempo scappati a gambe levate) e il risultato fu, anche in questo caso, la dichiarazione di insolvenza e la proclamazione dello stato di emergenza non come causa diretta e immediata della crisi economica, ma piuttosto come conseguenza del fallimento della sua gestione.