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I fattori di razza e nazione nella teoria marxista

Riassunto per una serie di relazioni

Introduzione – pp. 11/17

[Tesi 1 – pag. 11] La nostra corrente è sempre stata contro ogni posizione ‘negativista' o ‘indifferentista' di fronte alle forze presenti nei reali processi storici.

Grande importanza dunque viene data alla ‘questione agraria e ‘questione nazionale e coloniale', cui dettero grandi contributi Marx-Engels e la IIIa Internazionale all'atto della sua costituzione.

[Tesi 2 – pag. 12] Nella storia della specie umana incontriamo via via gruppi, famiglie, tribù, razze, popoli, nazioni con i rispettivi Stati politici: questa sequenza, espressa qui schematicamente, è conseguenza dello sviluppo delle forze produttive, a conferma della nostra concezione del determinismo economico.

Ciò che caratterizza l'uomo dagli altri animali è il fatto fondamentale che esso non produce solo ciò che consuma immediatamente, quanto che esso produce mezzi di produzione: l'uomo non si distingue dal leone perché caccia altri animali e non si distingue nemmeno da una scimmia perché usa strumenti (pezzi di ramo ecc.); esso si distingue perché produce – e conserva (ecco un primitivo piano di produzione) – mezzi di produzione (di caccia nell'esempio su esposto).

E questa capacità che si sviluppa nel tempo mostra la inseparabile connessione dell'evolvere della tecnica produttiva

[Tesi 3 – pag. 13] Il fattore storico della nazionalità diventa fondamentale all'apparire della forma sociale capitalistica.

Esistendo dal 1848 la consapevolezza del programma della rivoluzione, Marx ha dato massima importanza alle lotte a carattere nazionale, stabilendone i limiti e le condizioni di tempo e di luogo e derivando da questi l'impostazione tattica del partito comunista.

[Tesi 4 – pag. 14] E' mancanza di capacità dialettica il negare l'alleanza nella rivoluzione antifeudale fra borghesia e proletariato; viceversa è sana dialettica stabilire una alleanza di questo tipo con l'assoluta indipendenza programmatica ed organizzativa del proletariato e del suo partito.

Mentre per noi il mercato nazionale e lo Stato capitalista nazionale centralizzato sono un ponte di passaggio inevitabile alla economia internazionale che avrà soppresso Stato e mercato, per i santoni che Marx beffa in Mazzini, Garibaldi, Kossut, Sobietsky, ecc., la sistemazione democratica in Stati nazionali è un punto di arrivo che porrà fine ad ogni lotta sociale.

Nel momento storico della realizzazione dello Stato nazionale il fronte ruota, e la classe operaia si getterà nella guerra civile contro lo Stato della propria ‘patria' … ecco il problema senza cessa mutevole e dai variabilissimi indirizzi che va decifrato.

[Tesi 5 – pag. 15] La condanna dunque dei falsi ‘comunisti stalinisti' (anni '50) è data dal fatto che essi eternizzano i valori democratici nazionali, pur nei paesi capitalistici maturi, ben oltre il tempo della Comune di Parigi: data stabilita da Marx (tutti gli eserciti ormai sono federati contro il proletariato insorto) per la chiusura di ogni moto rivoluzionario borghese all'interno dell'Europa.

[Tesi 6 – pag. 17] Chiuso il problema della rivoluzione nazionale nell'Occidente– e dunque delle alleanze fra borghesia e proletariato – "sarebbe errore gravissimo il non vedere e il negare che nel mondo presente hanno ancora effetto e influenza grandissima i fattori etnici e nazionali […] ad esempio in India, Cina, Egitto, Persia, ecc. […] alla scala mondiale il problema scottante nel 1920 [ed anche negli anni seguenti, fino a metà degli anni '70, ove il rapporto di forze lo consenta: affinché la effettiva ‘solidarietà' non rimanga solo una vuota parola e dunque una beffa] anche nell'area dell'ex impero russo, di dare appoggio politico e armato a moti indipendentisti di popoli di oriente, non è in alcun modo chiuso. […] Il dire ad esempio che il rapporto fra capitale industriale e classe degli operai salariati si pone nello stesso modo nel Belgio e nel Siam […] non significa essere estremisti, ma in effetti significa non aver capito nulla del marxismo.

 

Parte prima – Riproduzione della specie ed economia produttiva inseparabili aspetti della base materiale del processo storico – pp. 19/54

Lavoro e sesso

[Tesi 1 – pag. 19] L'attività sessuale non ha nulla a che vedere con la sfera individuale: essa rientra pienamente nell'‘economia' e

[Tesi 2 – pag. 21] per ‘economia' si intende tutto il vasto complesso di attività di specie, …, influente sui rapporti con l'ambiente naturale fisico.

Individuo e specie

[Tesi 3 – pag. 22] Per la nostra corrente, l'attività e la conservazione dell'individuo non è che "una manifestazione derivata o secondaria della conservazione e dello sviluppo della specie".

Non è possibile parlare di economia di specie senza introdurre la grandezza sesso, poiché la generazione si fa per due sessi eterogenei. Un coniglio è due conigli.

La produzione dunque non è soltanto produzione dei mezzi di sussistenza, ma anche riproduzione della specie (vedi Engels in Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato). Nell' antica Rona, ad esempio, il ‘proletario' non è tanto colui che è addetto alla produzione con il lavoro delle proprie braccia, quanto colui che produce la ‘prole', ovvero forza lavoro futura.

[Tesi 4 – pag. 24] Le prime comunità si organizzano per la produzione e riproduzione, e la famiglia nelle diverse forme è pure essa un rapporto di produzione che cambia in relazione alle mutate condizioni dell'ambiente.

In queste comunità originarie vige il matriarcato (dominio della madre nella famiglia) e le relazioni sessuali sono caratterizzate dal fatto che non esiste ancora monogamia o poligamia, e maschi e femmine si uniscono variamente.

Qui si osserva come l'unica concessione che può essere fatta alla sfera individuale è l'istinto sessuale, caratteristica di qualsiasi animale. "L'istinto è la conoscenza ereditaria di un piano di vita della specie", ed è automatico, ‘non cosciente' e ‘non razionale': è un rudimentale minimum di norma, di piano di vita, atto a fronteggiare le immediate difficoltà ambientali.

Ma a questo punto si ferma la forza dell'individuo; per andare oltre egli deve fondersi nella comunità, nella vita di specie che sviluppa l'individuo a nuove dinamiche. Ciò che è primordiale e bestiale sta nell'individuo. Ciò che è sviluppato, complesso e ordinato, costituendo un piano di vita non automatico ma organizzato e organizzabile, deriva dalla vita collettiva e nasce dapprima fuori dei cervelli dei singoli, per poi divenirne per difficili vie, dotazione.

Eredità biologica e tradizione sociale

[Tesi 5 – pag. 27] Miti, feste, cerimonie, riti religiosi, appartengo ad un primo meccanismo per uniformare il comportamento individuale alle esigenze collettive. Essi non sono un prodotto delle idee, ma l'effetto della materiale evoluzione tecnica produttiva e riproduttiva.

[Tesi 6 – pag. 28] Lo sviluppo della tecnica lavorativa e dei mezzi di produzione, a cui segue lo sviluppo delle norme o ‘ordinamenti' della vita collettiva, viene trasmesso di generazione in generazione per doppia via: organica e sociale. Per via organica: la capacità acquisita dal generatore di adattarsi da parte del generato all'ambiente circostante; per via sociale: la trasmissione ed i necessari cambiamenti delle ‘norme' all'aumentare delle relazioni di specie (al suo interno e col suo intorno).

Fino alla scoperta della scrittura, la trasmissione della conoscenza è orale e la sua conservazione, mnemonica. Qui assume grande valore (a fini mnemonici) il canto, la musica, la poesia.

Fattori naturali e sviluppo storico

[Tesi 7 – pag. 29] L'evoluzione delle varie comunità marcia con ritmi diversi in rapporto alle diverse condizioni di ambiente fisico: ambiente marino e insulare, grandi pianure, ambiente montuoso, ecc..

A titolo d'esempio va ricordato la diversità fra America ed Eurasia per quel che riguarda la presenza di animali addomesticabili: mentre in quest'area vi erano diverse specie che sono state addomesticate, in America esisteva solo il lama: ne segue che i popoli di quel continente si ‘fermano' nello sviluppo sociale rispetto a quelli del continente antico.

Con vari cicli si passa dal nomadismo alla stanzialità, che presuppone la difesa del territorio da altre comunità. Gli scontri con altre comunità presuppongono inizialmente la morte dello sconfitto: solo in seguito allo sviluppo di tecniche lavorative, quindi all'aumento della produttività, che permette di sfamare un numero maggiore di componenti, lo sconfitto non viene più ucciso ma asservito: e parte da qui il processo della divisione delle comunità in classi antagoniste che distruggono le antiche comunità ugualitarie.

Preistoria e linguaggio

[Tesi 8 – pag. 30] Per comprendere appieno il ‘fattore nazionale' bisogna capire il ‘fattore razziale', e alla base di questi vi è il ‘linguaggio': La lingua del gruppo umano è uno dei suoi mezzi di produzione.

Marx nella sesta tesi su Feuerbach scrive: "L'essenza umana non è qualcosa di astratto insita nel singolo individuo. Nella sua realtà essa è l'insieme delle condizioni sociali". E qui, chiosa Bordiga, deve intendersi: intendiamo per condizioni sociali il sangue, la sede fisica, la utensileria, l'organizzazione del gruppo dato.

Inteso questo, non è difficile far proprio quanto scrive Engels a Borgius nel 1894: "La razza stessa è un fattore economico".

I primi gruppi sono ‘gruppi-famiglia' i cui membri sono consanguinei. Sono gruppi-lavoro dove non esiste individualismo e la loro ‘economia' è una reazione organica all'ambiente fisico.

In quanto materialisti, accettiamo che nello sviluppo storico vi sia la fine di queste comunità originarie, mescolanza delle razze, divisione della società in classi, la formazione dello Stato, la guerra civile. Ma alla fine di questo ciclo vi sarà – con una economia massimamente potenziata – la fine di ogni discriminazione di razza e di classe, l'economia nuovamente comunista e la fine dei feticci persona, famiglia, patria.

Ma nel suo ‘momento' iniziale, ogni comunità si caratterizza da ogni altra con una distinta economia e potenzialità tecnico-produttiva, quindi un distinto carattere etnico.

Dalla osservazione che raggruppamenti umani compaiono ‘contemporaneamente' in diverse aree geografiche del globo, si deve rifiutare il concetto di ‘albero genealogico'. Rete, non albero: la generazione umana è una rete inestricabile i cui tratti si rilegano di continuo fra di loro.

Compreso dunque il sempre più inestricabile sviluppo delle relazioni fra comunità umane, si riesce a capire correttamente la funzione del linguaggio che inizialmente è comune allo stretto gruppo sanguineo.

Parlando di linguaggio dobbiamo distinguere l'uso di suoni (comune a moltissime specie animali) dalla modulazione dei suoni (caratteristica degli animali di una stessa specie), fino alla comparsa di un complesso di vocaboli (caratteristica dell'uomo). Il linguaggio per vocaboli nasce quando è nato il lavoro a mezzo di utensili, la produzione di oggetti di consumo a mezzo di opera associata di uomini.

Lavoro sociale e parola

[Tesi 9 – pag. 34] Ogni comune attività umana esige una forma di comunicazione fra i vari soggetti. Partendo dal primordiale urlo per mettere in guardia da un pericolo, si forma ad un certo punto la parola che è legata ad un affinamento delle attività produttive, e quindi alla necessità della precisazione della comunicazione. Critica di ogni concezione idealistica secondo la quale un innovatore immagina nel suo cervello senza mai averlo visto il nuovo metodo ‘tecnologico', lo spiega parlando agli altri, e ne dirige coi suoi ordini la realizzazione, Non la serie pensiero, parola, azione, ma l'opposta.

Il mito biblico della Torre di Babele, mostra chiaramente come senza comunità di linguaggio non vi può essere comunicazione e quindi non vi può essere cooperazione per la realizzazione di un qualsiasi progetto. Il linguaggio dunque è uno degli strumenti di produzione.

Chiari Marx ed Engels in proposito: (dalla Ideologia Tedesca di Marx) "gli uomini si cominciano a distinguere dagli animali dal momento che cominciano a produrre i loro mezzi di sussistenza"; (dalla Dialettica della natura di Engels) "dapprima il lavoro, in seguito e in combinazione con esso il linguaggio, ecco i due fattori più essenziali sotto l'influenza dei quali il cervello della scimmia si è trasformato gradualmente in cervello sociale".

Base economica e sovrastrutture

[Tesi 10 – pag. 35] Il concetto di ‘base economica' include molto più che lo stretto rapporto di produzione e distribuzione di ogni singola merce. In esso va incluso ogni meccanismo che permette il passaggio fra le generazioni di tutta la ‘sapienza tecnologica' di specie. Da questo punto di vista, come reti generali di comunicazione, vanno inclusi fra i mezzi di produzione, oltre gli istituti familiari, anche la scrittura, il canto, la musica, le arti grafiche, la stampa; come pure letteratura, poesia, scienza, ecc..

Quale il rapporto fra ‘base produttiva' e sovrastruttura ideologica?

Qui vi è una breve schematizzazione, prendendo spunto dall'esempio storico della Francia: a) forze produttive, ossia agricoltura e contadini servi, artigianato delle botteghe cittadine, nascenti manifatture e fabbriche; b) rapporti di produzione ( o forme della proprietà), ovvero quelle relazioni in cui gli uomini entrano nella produzione sociale della loro vita: contadini della gleba e potestà feudale, legami corporativi nell'artigianato.

In tutto ciò, il concetto dinamico essenziale è il contrasto che via via si manifesta fra forze produttive e rapporti di produzione (ovvero fra contenuto e contenitore).

A questa base produttiva si sovrappone una sovrastruttura giuridica e politica: lo Stato con le sue leggi, la sua magistratura ed i suoi corpi armati. A questa sovrastruttura si sovrappone una sovrastruttura della sovrastruttura (una derivazione della derivazione) e forma il campo mutevole delle opinioni, ideologie, filosofie, ecc.; la sovrastruttura di questo tipo (derivata della derivata) è sempre condizionata dalle forze produttive, però muta più lentamente rispetto al variate della prima. Altro modo per distinguere le due forme di sovrastruttura, possiamo dire che vi è una sovrastruttura di forza (diritto, Stato) e una sovrastruttura di coscienza (ideologia, religione, filosofia, ecc.). Marx ed Engels hanno sempre sottolineato che la forza materiale, la violenza dello Stato, è una forza materiale .

Tutte queste specificazioni sono interne ad ogni modo di produzioneProduktionsweisen – (asiatico, antico, feudale, borghese): termine preferibile a forme di produzione, in quanto usato per il più ristretto forme di proprietà.

Il modo di produzione si definisce da tutto il complesso dei rapporti di produzione e delle forme politiche e giuridiche. I rapporti di produzione cambiano – subiscono una accelerazione – a partire dal momento della conquista del potere da parte della classe rivoluzionaria … a meno che questa non venga in seguito sconfitta (vedi Russia 1917, dove va superata l'impasse della formula: base economica borghese, sovrastruttura proletaria e socialista).

Stalin e la linguistica

[Tesi 11 – pag. 41] Critica della concezione staliniana della lingua e della linguistica secondo cui il passaggio da un modo di produzione al successivo vedrebbe cambiamento della base economica e della sovrastruttura, ma non cambiamento della lingua nazionale, in quanto questa apparterebbe a tutto il popolo. Nel caso della Russia, secondo Stalin, alla vecchia base capitalista sarebbe succeduta la nuova socialista, ma la lingua russa sarebbe rimasta prima e dopo sempre la stessa. Non si può, afferma Stalin, porre la lingua allo stesso livello di uno strumento di produzione, in quanto questo produrrebbe dei beni materiali mentre la lingua no.

Ma, contestano le tesi, anche gli strumenti di produzione non producono beni materiali! I beni li produce l'uomo che li impugna! I qui si può leggere l'apparentemente banale esempio del bambino e la zappa. Un bimbo per la prima volta afferra la zappa dalla lamina, ed il padre gli urla: si prende per il manico. Quell'urlo, che diverrà poi una regolare ‘istruzione', è, quanto la zappa, impiegato alla produzione.

Qui è necessaria una distinzione. In precedenza si è detto che, con lo sviluppo della lingua, la poesia può essere considerata strumento di produzione, mentre in altri momenti può essere considerata sovrastruttura ideologica. La contraddizione è solo apparente: a) come il linguaggio in generale, così la poesia in generale sono strumenti di produzione; b) quella poesia, quella scuola poetica particolare sono elementi della sovrastruttura; c) così la lingua in generale è strumento di produzione, mentre le singole lingue locali sono sovrastrutture.

In conclusione, come sarà sempre necessario arare la terra prima della semina indipendentemente dal succedersi dei modi di produzione, è evidente che lo strumento con cui viene eseguito questo lavoro sarà dato dall'evoluzione tecnica del modo di produzione (all'aratro a mano tirato da buoi, verrà sostituito quello meccanico a motore del moderno capitalismo). Allo stesso modo, è vero che si è sempre dovuto usare il linguaggio per organizzare al meglio il lavoro dell'aratura, ma un conto è quella particolare lingua che si sviluppa attorno agli elementi materiali ‘aratro a mano', ‘bue', ecc., altra cosa quell'altra che si sviluppa attorno ad ‘aratro a motore', ‘benzina', ‘nastri trasportatori', ecc..

Tesi idealista della lingua nazionale

[Tesi 12– pag. 44] Per Stalin, la lingua è uno strumento che ‘cristallizza i pensieri' e permette lo ‘scambio di idee e di pensieri' fra gli uomini.

Per la nostra concezione materialistica della storia, si passa dal lavoro sociale al linguaggio, dal linguaggio alla scienza, al pensiero collettivo. La funzione di pensiero nel singolo è derivata e passiva. La definizione di Stalin è dunque schietto idealismo: il preteso scambio di pensieri, è la proiezione nella fantasia del borghese scambio di merci. Così K. Marx: "La lingua è la realtà immediata del pensiero (…) Le idee non esistono separatamente dalla lingua".

Riconosciuta la giusta funzione al linguaggio e riconosciuto che esso è uno ‘strumento tecnologico' ci si deve chiedere se esso è forse l'unico. La risposta è precisa: no di certo. Nel corso dell'evoluzione sociale ne appare una serie sempre più ricca, gran parte della quale in grado di soppiantare pure la lingua parlata.

In breve: parola parlata, parola scritta, stampa e tutti gli infiniti algoritmi, le simboliche matematiche che già sono divenute internazionali, ecc.. Strumenti elettrotecnici, elettronici, radar, vanno sempre più a soppiantare quella che per Stalin dovevano essere le lingue nazionali e russa in particolare.

Riferimenti e deformazioni

[Tesi 13 – pag. 47] La rivendicazione di una lingua nazionale è caratteristica rivoluzionaria di ogni rivoluzione capitalistica antifeudale; strumento indispensabile allo sviluppo di un mercato nazionale per la libera circolazione di proletari e merci al suo interno, condizione basilare per lo sviluppo della valorizzazione del capitale. La lingua nazionale dunque ‘ingloba' (o mette in secondo piano, in quanto, nella lotta fra dialetti, uno solo alla fine risulterà vincitore) tutti i dialetti locali che non corrispondono più alle generali necessità della nuova situazione storica.

E la cultura? Una cosa è la cultura e altra cosa è la lingua.

Per Marx e Lenin, la cultura è sempre cultura di classe, anche se per la borghesia questa è sempre cultura nazionale di un dato popolo e quindi la sopravvalutazione ed ‘eternizzazione' della lingua nazionale le serve da impedimento al formarsi di una cultura, meglio di una teoria di classe, proletaria e rivoluzionaria.

Che la lingua nazionale sia strumento indispensabile per la formazione e sviluppo di un mercato nazionale, non significa che essa sia ‘lingua di tutto il popolo': essa rimane sempre lingua di classe.

La lingua parlata nel dato periodo storico è dunque la lingua del modo di produzione vigente e della classe che ne detiene il potere. Prima dell'Ottobre 1917, in Russia gli aristocratici parlavano francese, i socialisti tedesco ed i contadini una dozzina di lingue e dialetti. Se il movimento rivoluzionario del primo dopoguerra fosse giunto alla vittoria in tutto il mondo, avrebbe avuto sicuramente una lingua propria: si parlocchiava allora una specie di ‘francese internazionale'.

Non possiamo anticipare una qualche forma della futura lingua internazionale, ma una cosa è certa: con la scomparsa del capitalismo, scompare il mercantilismo e la divisione della società in classi. Con questi spariranno le nazioni e le rispettive lingue nazionali.

Dipendenza personale ed economia

[Tesi 14 – pag. 51] Il materialismo storico non spiega solamente le differenti epoche mercantili, ma anche le precedenti che chiamiamo del ‘comunismo primitivo', alla fine delle quali analizziamo la formazione della famiglia (quindi, la funzione della sessualità), nonché la formazione del linguaggio nella dinamica della formazione delle classi.

Alle comunità originarie, dove vige promiscuità dei sessi, segue: a) il matriarcato, dove la mater domina e comincia la limitazione di tale promiscuità; b) il patriarcato, prima poligamo, poi monogamo, dove il pater assume il ruolo di capo amministrativo e militare, disciplina la attività dei figli e, in seguito, dei prigionieri di guerra. Siamo alle soglie della formazione delle classi e quindi dello Stato di classe.

Lo sviluppo del patriarcato porta alla statuto del pater familias e della patria potestas: ciò che un tempo rientrava nella sfera di proprietà della famiglia e che non era alienabile (res mancipii) diventano ad un certo punto patrimonium cose commerciabili a volontà (res nec mancipii).

Voler porre dunque la formazione del matriarcato nonché il passaggio di questo al patriarcato, al di fuori della sfera di indagine del materialismo storico, con la bolsa pretesa che questo sarebbe regolato dal gioco di pretesi ‘valori affettivi', significa ricadere nel più grasso idealismo.

Engels, in Origine della famiglia.. : "Accanto alla differenza fra liberi e schiavi appare quella fra ricchi e poveri; con la nuova divisione del lavoro appare una nuova scissione della società in classi. Le differenze dei possessi fra singoli capifamiglia spezzano l'antica unità familiare comunistica (…) e con essa la comune coltivazione del suolo a pro' e per conto di questa comunità. La terra coltivabile è assegnata per lo sfruttamento a famiglie singole, dapprima per un periodo di tempo, più tardi per sempre. Il passaggio alla piena proprietà privata si compie gradualmente e parallelamente a quello del matrimonio di coppia alla monogamia. La famiglia singolacomincia a divenire l'unità economica della società".

Parte seconda – Interpretazione marxista della lotta politica e diverso peso del fattore nazionale nei modi storici di produzione – pp. 55/76

Da razza a nazione

[Tesi 1 – pag. 55] Si ha passaggio da gruppo etnico o ‘popolo' a ‘nazione' con la comparsa dello Stato politico, dunque con la comparsa della divisione della comunità in classi e con la circoscrizione territoriale in organizzazione armata.

La razza è un fatto biologico, e la classificazione di un animale è data dalla sua origine genitrice e non geografica. Viceversa, la nazionalità risente del fattore etnico e geografico e risente del luogo di nascita.

Nel caso di spostamenti di grandi masse (es. i grandi spostamenti di uomini fra i continenti), possiamo parlare di spostamenti di ‘popoli', di nazionalità – unione di diverse tribù, a volte con lingua e abitudini diverse –, ma non di nazioni.

Si comincerà a parlare di nazioni – non solo di nazionalità – quando un popolo fisserà la propria dimora su una precisa area geografica. Avremo allora la fine delnomadismo con l'avvento dell'agricoltura e l'intervento ciclico nella lavorazione della terra. L'area della comunità, a questo punto, avrà precisi confini da difendere con la forza armata contro eventuali intrusioni.

Apparizione dello Stato

[Tesi 2 – pag. 56] Con lo sviluppo della tecnica produttiva e con sempre maggiori contatti fra comunità, comincia a svilupparsi sempre più la divisione del lavoro (che non è più solo tecnica) sociale in quanto uomini particolari curano funzioni particolari. La formazione delle famiglie vede la terra coltivabile divisa, ad un certo punto stabilmente, fra queste.

La divisione del lavoro dunque e i sempre più frequenti contatti fra comunità diverse porta alla formazione delle classi sociali e all'apparizione dello Stato.

Stati senza nazione

[Tesi 3 – pag. 59] Negli antichi imperi pre-ellenistici dell'Asia orientale possiamo trovare vaste concentrazioni di ricchezze terriere con relativa divisione delle popolazioni in classi, ma non si può ancora parlare di forma nazionale, pur essendo presente la forma Stato con i suoi corpi armati di repressione.

Il popolo ebreo è il primo ad avere una storia scritta e questa è da subito storia di divisione di classe. Il loro mitico attaccamento alla terra di origine è una forma pre-nazionale: le guerre di cui parla la Bibbia sono lotte di tribù ma non lotte che non hanno nulla a che vedere per una unificazione nazionale.

Anche i Greci che vanno in guerra contro Troia, non sono una nazione, ma una federazione di piccoli Stati: anche nelle storiche guerre con i persiani, l'unità è solo contingente.

Nazione ellenica e cultura

[Tesi 4 – pag. 61] Cominciano a prendere corpo i fattori nazionali, nell'antica Grecia, con l'organizzazione della società ad Atene, Sparta e soprattutto con la successiva formazione dello Stato macedone che porta ad unificazione di tutta la Grecia.

Questi sono esempio di nazioni nel senso moderno, con territorio definito, uno Stato con la sua organizzazione armata ben preciso, un preciso corpo di leggi. Unica differenza con lo Stato moderno: oggi la legge è formalmente uguale per tutti; ieri essa escludeva la classe degli schiavi, trattati al pari di animali da lavoro. Engels ricorda come in Atene, nel suo massimo splendore, vi fossero 90.000 liberi di fronte a 365.000 schiavi e 45.000 protetti, ossia ex schiavi e stranieri privi di cittadinanza.

Lo sviluppo della letteratura (poesia, storia, scienza) sono strumenti indispensabili a cementare l'unità e la solidarietà nazionale (reali valori ideologici e materiali determinati dallo sviluppo delle forze produttive) in un periodo storico in cui lo sviluppo della navigazione commerciale permette un aumento della ricchezza in misura maggiore rispetto a quanto si può ricavare dalla sola agricoltura su una terra in gran parte rocciosa.

Il queste condizioni, i prodotti del lavoro cominciarono a divenire merci.

Nazione romana e forza

[Tesi 5 – pag. 64] La più alta espressione della nazionalità si raggiunse con Roma, sulle cui basi si formò un impero che tese a diventare l'unico Stato organizzato in tutto il modo allora conosciuto, che in ogni caso ad un certo punto non poté reggere alla pressione delle invasioni delle popolazioni che premevano dall'Est.

Roma assorbe i caratteri sociali e culturali della vicina Grecia. La sua base è sempre data dal lavoro degli schiavi, ma porta al livello più alto l'organizzazione sociale e la sua sovrastruttura amministrativa e legislativa (diritto romano).

Lo Stato romano a centralizzato al massimo grado. Prima di lui, anche Alessandro aveva "unificato" tutto un territorio che andava dal Mediterraneo all'India, ma sotto di lui (prima di Roma, dunque), si può dire che il centralismo statale era ancora bambino.

Tramonto della nazionalità

[Tesi 6 – pag. 67] Le formazioni delle nazionalità e degli Stati nazionali sono un punto di forza nell'evoluzione delle forze produttive.

Una volta che le varie comunità si stabiliscono nel territorio e che cominciano a rendere molto produttiva la terra, cresce la popolazione, ma con questa cresce pure la necessità di una organizzazione sociale che rompa con i limiti che l'economia agraria e urbana aveva fino ad un certo momento. Da ciò la necessità di allargare le basi della produzione che superi il primitivo comunismo della tribù, della comunità locale.

L'aumentare della ricchezza derivata dai commerci e dal sempre maggiore apporto del lavoro degli schiavi, porta all'incrinazione della compattezza nazionale e alla lotta di classe. I piccoli coltivatori che avevano combattuto nelle legioni, occupato e rese produttive nuove terre, vengono via via espropriati dai ricchi proprietari e trasformati in proletari.

Il loro lavoro viene sostituito dal lavoro degli schiavi, che se inizialmente può portare ad un aumento delle forze produttive, si trasforma gradualmente in una frattura dell'unità nazionale che porterà alla stessa degenerazione dei metodi di coltura al punto tale che la produttività non potrà più soddisfare né l'animale, né lo schiavo. Questo, diventato improduttivo, sarà liberato.

L'avvento dei barbari darà il colpo finale alla decadente centralizzazione imperiale romana. Si profila l'ombra del Medioevo feudale.

Ordinamento dei barbari tedeschi

[Tesi 7 – pag. 69] L'organizzazione iniziale delle popolazioni che vanno sotto la fefinizione di ‘barbari' era quella delle gentes e del matriarcato e la produzione era data dalla coltivazione comunitaria della terra.

Più che per la loro particolare, il loro compito rivoluzionario è la distruzione dell'ormai corrotto e vuoto Stato romano.

Engels: "Tuttavia, per quanto questi quattro seguenti secoli [V, VI, VII, VIII] appaiano improduttivi, pure essi lasciano dietro di se un prodotto importante: le nazionalità moderne, nuova forma e organizzazione dell'umanità dell'Europa occidentale per la storia futura [leggi secoli XVII, XVIII, XIX]. I tedeschi avevano in effetti ravvivato l'Europa e perciò la dissoluzione degli Stati del periodo germanico finì non nella sottomissione normanno-saracena, ma nella trasformazione progressiva in feudalesimo".

Non solo dunque è ritenuto, dalla nostra teoria, positivo l'organizzazione delle antiche comunità nomadi in Stati territoriali, ma anche la trasformazione successiva verso una struttura nazionale di questi Stati, con la comunanza di razza, lingua e costumi.

Abbiamo due cicli storici nella formazione delle nazionalità. Primo: grandi democrazie nazionali divise in classi sociali, "sovrapposte" alla massa degli schiavi. Secondo: democrazie di uomini liberi senza più schiavi, con una divisione della società in classi tipica del capitalismo.

La società feudale come organizzazione anazionale

[Tesi 8 – pag. 71] La genesi del feudalesimo vede l'incontro della comune agraria dei popoli barbari con il sistema di proprietà privata della terra presso i Romani.

Nel mondo classico romano, il lavoro – sia nell'agricoltura, sia nella produzione manufatturiera - é affidato agli schiavi che sono proprietà dei liberi, e posti allo stesso livello degli strumenti di produzione e degli animali da lavoro.

I liberi si dividono in due classi sociali: proprietari di schiavi che possono vivere senza lavorare; non-proprietari di schiavi che vivono col proprio personale lavoro. La terra coltivata è un bene allodiale, ossia vendibile (ovviamente, pure acquistabile), ma perché ciò possa avvenire è necessario che esista denaro circolante. Le terre che anticamente non sono date a coloni e restano nelle mani dello Stato, formano il demanio. La prevalenza dell'allodio sul demanio impone che vi sia un mercato di una certa entità su di una base territoriale ben definita (è a questo punto che possiamo parlare di mercato interno nazionale) difesa da una forza armata ben definita. È a questo punto che lo Stato è Stato nazionale.

"Nel senso del materialismo storico, nazione è dunque una comunità organizzata su un territorio in cui si è formato un mercato interno unitario".

Ora è da considerare che nella guerra economica fra proprietari di schiavi e liberi non proprietari di schiavi, il primo fa da padrone e si sviluppa enormemente il processo della concentrazione della terra in un numero sempre minore di mani, ed è evidente che se si è costretti a vendere la terra o parte di essa, non è più possibile mantenere il possesso degli schivi.

Il lavoro schiavista diventa dunque antieconomico (Plinio: "latifundia Italiam perdidere") e nella sfera sovrastrutturale si fa strada la nuova ideologia che considera immorale il lavoro degli schiavi.

Con il crollo dell'economia terriera romana, crolla il generale mercato che permetteva la circolazione per tutti i punti dell'impero di una grande quantità di prodotti che soddisfacevano la vita dei suoi cittadini. Con tutto ciò crollano pure i bisogni.

I barbari che arrivano con una tradizione di consumi minori, la vera ricchezza è la terra. Ma la divisione del lavoro è ormai troppo avanzata perché i barbari possano riportare l'ordinamento della proprietà alla vecchia gestione comune. Sorge così un tipo misto di allodio e demanio: parte delle terre resteranno in uso comune, parte in proprietà privata e una terza parte verrà spartita con periodiche ridistribuzioni.

La terra, abbandonato l'ormai improduttivo lavoro schiavistico, torna ad essere produttiva ma, distruttala trama amministrativa e della circolazione romana, la produzione ed il consumo perde il carattere nazionale e diventa locale. "Tale economia senza commercio caratterizza il Medioevo, i cui Stati hanno magistrature ed eserciti territoriali, ma non hanno un mercato territoriale unitario: non sono quindi vere nazioni".

Ma ad un certo punto comincia pure qui il processo di concentrazione della proprietà che aveva portato gradatamente alla distruzione dell'impero romano; tale proprietà si concentra nelle mani di principi, capi militari, ordini religiosi, i quali ormai sono mantenuti dal lavoro di una nuova classe: i servi condannati a vivere in una ‘zolla di terra' (gleba).

Mancando lo Stato centralizzatore di vecchia memoria che poteva dare sicurezza, ora la difesa delle condizioni della produzione sono date dal signore locale.

La forma è la accomandazione (non raccomandazione): il signore che è armato si impegna a non mandare via dalla gleba il servo, nonché a difenderlo (lui e le sue possibilità di lavoro), e quest'ultimo si impegna a dare parte del prodotto del suo lavoro al signore.

Ma la sicurezza di non essere mandato via diviene ben presto obbligo di non lasciare la terra. Non vi era più lo schiavo alienabile, ma nemmeno il contadino franco: vi era il servo della gleba.

Le basi della rivoluzione moderna

[Tesi 9 – pag. 75] Le invasioni barbariche, che portarono a definitiva scomparsa l'impero romano, sono parte di un processo rivoluzionario che vede un ulteriore sviluppo delle forze produttive. Per i popoli europei, ormai stabili su questa area geografica, comincia a porsi la base per lo sviluppo di un lontano moto rivoluzionario contro le classi dominanti del mondo feudale, con la sua spezzettata vita economica, sparpagliata in isole minute. Comincia dunque a maturare il tempo per la formazione delle unità nazionali.

"Non è la nostra rivoluzione e non è nemmeno la nostra rivendicazione, quella nazionale, e non è nemmeno essa la conquista di un beneficio irrevocabile ed eterno dell'uomo. Ma il marxismo la guarda con interessamento, con ammirazione e passione, e quando la storia la minacci è, nei tempi e nei luoghi decisivi, pronto a scendere nella lotta per essa".

Se, ormai, il problema della rivendicazione nazionale è chiuso per l'Occidente, può "restare per un lungo periodo rivoluzionariamente aperto quello di popoli di altra razza, di altro ciclo e di altro continente.

Parte terza – Il movimento del proletariato moderno e le lotte per la formazione e la libertà delle nazioni – pp. 77/125

Ostacoli feudali al sorgere delle nazioni moderne

[Tesi 1 – pag. 77] L'organizzazione feudale della società, avendo carattere decentrato (ogni ordine nelle città e perfino ogni gleba della terra ha carattere chiuso), si rivela un grande ostacolo alla formazione della nazione unitaria moderna.

L'economia feudale è prevalentemente terriera. La terra è divisa fra i componenti dell'ordine nobiliare: un insieme chiuso in se stesso che si autoriproduce vivendo sulle spalle del lavoro dei servi (servaggio) i quali sono legati alla terra (alla ‘zolla di terra', o gleba) che, di generazione in generazione, non possono abbandonare. Accanto a questi esiste l'importante ordine chiesastico la cui caratteristica è di essere sterile (celibato dei preti) e, nella sua dottrina ed organizzazione, interstatale e interazziale. Essendo i bisogni poco sviluppati, gli utensili necessari vengono prodotti all'interno di ogni ‘zolla'. Con l'aumento della produttività della terra, aumenta la disponibilità di un sovraprodotto, quindi la possibilità di scambio di questo surplus, quindi aumentano le richieste ed i bisogni. Ma allora comincia a svilupparsi una certa divisione del lavoro e dunque la concentrazione di artigiani che producono quegli utensili che sempre più vengono richiesti.

È a partire da ciò che parte un processo rivoluzionario caratterizzato dallo sviluppo sempre maggiore delle botteghe artigiane e dalle nascenti manifatture che, nate per soddisfare bisogni crescenti che arrivavano dalla terra, si trova ora a dover soddisfare in fondamentale bisogno che queste manifatture cominciano ad esprimere: la crescita esponenziale di se stesse. Ma tale crescita non può realizzarsi senza cozzare contro la decentralizzazione produttiva e gli ostacoli alla circolazione che frappone il mondo feudale.

Il ‘bisogno di una nazione' non nasce dunque nel mondo delle idee e portato in terra da qualche ‘testa illuminata'; al contrario, esso è il prodotto di uno sviluppo storico che costringe gli uomini (le classi sociali) a tradurre in azione pratica e rivoluzionaria tale bisogno, al di là delle formule contingenti che di volta in volta può adottare: ‘patria', ‘libertà', ‘ragione', ecc..

Va ricordato che una nazione è data da una area geografica dove si trovi una libera circolazione delle merci, un diritto comune, una identità di razza e di lingua, un forteStato centrale che difenda tutto ciò.

Storicamente si possono incontrare Stati senza una nazione vera e propria: non può succedere comunque di avere una nazione senza Stato centralizzato. Per la dialettica marxista è solo contraddizione apparente la contemporanea difesa di due tesi: a) rivendicazione dell'unità nazionale con un suo Stato centrale; b) questo Stato non rappresenta gli interessi di ‘tutto il popolo', ma l'interesse centralizzato dell'insieme della borghesia contro il cui potere (lo Stato, appunto) il proletariato si dovrà scagliare e distruggere.

E questo avverrà dopo un lungo periodo, quando gli illusi che si sono cibati delle citate ‘patria', ‘libertà', ‘ragione', ecc.. si accorgeranno che i veri soggetti dominanti la nazione e il libero movimento entro i suoi confini non sono altro che una Moneta, una Borsa, un Fisco unitario, condizioni indispensabili all'origine per l'erompere delle forze produttive.

Localismo feudale e chiesa universale

[Tesi 2 – pag. 79] Per studiare proficuamente le caratteristiche della società feudale, bisognera ricordare che non esiste ‘il feudalesimo', quanto ‘i feudalesimi', che possono essere visti come fase di transizione fra la vecchia forma dello Stato nazionale classico e quella moderna capitalistica.

La loro caratteristica generale è quella di una base economica sub-nazionale che poggia su strutture produttive localistiche, con l'aspetto contradditorio di una lingua dominante internazionale data dal latino della chiesa. La chiesa, con la sua lingua sopranazionale, non è comunque un mezzo per superare il particolarismo delle ‘glebe', in quanto poggia sugli ordini della nobiltà terriera. Caratteristica della nazione del tempo antico – particolarmente Roma – è quella di essere una universalità politica territoriale di potere organizzato, su tutto il mondo non barbaro: in questa nazione, la ricchezza fondamentale è data dalla produzione e dalla proprietà allodiale (privata) della terra e dal numero degli schiavi che la lavorano.

La crisi di un tale modo di produzione, che vede improduttivo il mantenimento degli schiavi e quindi la necessità della loro liberazione, facilità ai barbari il mettere fine alla universalità del vecchio impero.

Una ‘specie di universalità' rimane con la chiesa cristiana, nonostante la frantumazione della base produttiva che viene indicata formalmente con la fine dell'impero romano d'occidente nel V° secolo.

La ripresa delle forze produttive riporterà in primo piano la necessità di rompere la parcellizzazione della produzione e della circolazione e dunque metterà in primo piano la necessità di una nuova centralizzazione, che non potrà in ogni caso essere portata avanti dalla ‘universalità' della Chiesa contro l'impero.

La lingua dominante è il latino: il popolo ‘minuto' parla svariati dialetti, incomprensibili a pochi chilometri di distanza. I temi della ‘conoscenza' vengono sviluppati in tutta Europa con il latino; però, se si può dire che la classe dominante europea sviluppa una propria cultura, non è possibile ancora parlare di una ‘cultura nazionale', la quale comincerà a svilupparsi nei vari paesi attraverso i primi elementi delle ‘letterature nazionali'. Per molto tempo ancora, anche dopo che cominciano a svilupparsi i commerci da una parte all'altra dell'Europa, tali rapporti commerciali saranno trattati con la lingua latina.

In ogni caso si vede sempre più come l'impalcatura ideologica cattolica sia un freno allo sviluppo di una nuova società mercantile che preme entro i limiti delle limitazioni feudali. Le varie comunità della chiesa cattolica, con i loro legami con i signori feudali rappresentano un baluardo di difesa – in ogni caso sempre più debole – per la difesa delle proprietà signorili, contro lo sviluppo delle nuove società mercantili.

Universalismo e centralismo politico

[Tesi 3 – pag. 82] In Italia, benché le prime lotte dei borghesi si manifestino con le piccole repubbliche dei Comuni, che si appoggiano al papato contro l'impero, è con Dante e con il suo De monarchia che abbiamo la teorizzazione rivoluzionaria della centralizzazione politica che, pur non essendo ancora rivendicazione di una ‘unità nazionale', è purtuttavia rivendicazione del superamento dei limiti del localismo produttivo.

Collocandosi dalla parte dei sostenitori dell'impero centrale, i ghibellini (dal nome del castello di Wibeling, sostenitore degli Hoestaufen), contro i guelfi (da Welf, capostipite della casa di Baviera ) sostenitori del papato, la prima forma in cui il capitalismo si contrappone al regime antico terriero è la monarchia centrale: essa èantifeudale e antiguelfa, e in questo senso è rivoluzionaria.

In Italia, la borghesia nasce prima che in ogni altra parte, ma con carattere comunale e locale, e pur essendo manifestazione dell'erompere di forze vive future, essa soccombe a causa del cambiamento degli itinerari geografici degli scambi commerciale a livello europeo.

Nonostante ciò, Dante e la sua Divina Commedia rimangono le pietre miliari della diffusione della lingua ‘volgare' italiana, sovrapponendosi lentamente ai più diversi dialetti locali che si parlavano nella penisola.

Rivendicazione rivoluzionaria delle borghesie nazionali

[Tesi 4 – pag. 83] Tema fondamentale attorno al quale ruotano le rivendicazioni delle varie borghesie europee è quello della unità e indipendenza nazionale.

L'inizio dell'era moderna e la fine del feudalesimo viene datata al 1492 con la scoperta dell'America; scoperta che traccia le prime rotte oceaniche: vera e propria trama del nascente mercato mondiale e del destarsi di un potente sviluppo della produzione di merci manufatte.

Altra data importante, in ogni caso, è l'antecedente 1305 che vede la nascita della Divina Commedia e con essa la rivendicazione della rivoluzione antichiesastica e antifeudale. La sconfitta dei Comuni non vide il rifiorire di un feudalesimo che in Italia non ebbe mai vita piena, e lo sviluppo di piccole signorie e monarchie ereditarie non vide mai il fiorire del servaggio nella terra.

Fermatasi la rivoluzione della borghesia in Italia, essa riprese slancio secoli dopo – particolarmente nel XVI, XVII, XVIII – in Inghilterra, Francia e nell'Europa centrale.

Questo mostra come un nuovo modo di produzione, sconfitto in una certa area geografica, si manifesti, magari dopo molte generazioni, in una nuova area e con potenzialità maggiori: questo, valido per la rivoluzione borghese, lo è pure per la rivoluzione comunista. Come nel periodo fra il XII e il XV secolo potevano sembrare illusorie le rivendicazioni di ‘eguaglianza' e ‘libertà' giuridica dei cittadini, così oggi può sembrare illusoria e vana la rivendicazione, il legarsi al filo del tempo della distruzione dell'economia salariale e monetaria.

Al tempo della nascente economia capitalistica, vediamo l'artigiano ed il mercante che, a differenza del servo, non può vivere costretto dalle catene e dai limiti della produzione e circolazione locale. La ricchezza ora si ammassa non più nelle mani del signorotto locale, ma in quelle del mercante che sa stringere relazioni che vanno ben oltre il feudo originario. Si avverte il bisogno di un cambiamento nella sovrastruttura dello Stato e del diritto, ed il legame fra cittadino e Stato deve farsi più diretto e non passare più fra le asfittiche maglie del signore feudale.

È tempo di porre fine ad episodi del tipo "Il re d'Inghilterra non paga", dove, ricevuta in prestito una forte somma di denaro dalla banca, il re può permettersi di risultare moroso: la borghesia nascente ha bisogno di uno Stato e di un diritto che veda il denaro (ed i suoi manutengoli, ovviamente) divenire re incontrastato della vita sociale. Si ricorda pure il romanzo Il miglior giudice è il re di Lope de Vega, dove viene rivendicato il diritto che nemmeno il re di Prussia può andare contro la legge ("vi sono dei giudici a Berlino!"). Non passerà moltissimo tempo che le teste dei re passeranno non solo al vaglio del diritto borghese, ma prima ancora, al vaglio della ghigliottina borghese.

Con lo sviluppo dunque delle esigenze della produzione e circolazione capitalistica, con lo sviluppo delle sue banche, si sviluppa l'esigenza di quel sistema unitario che ben presto viene chiamato ‘nazione' e ‘diritto nazionale'. Ad essi si sovrapporrà tutta una fioritura di decorazioni letterarie: ulteriore derivazione della derivazionesovrastrutturale dello Stato nazionale borghese.

Iridescenti sovrastrutture della rivoluzione nazionale

[Tesi 5 – pag. 86] Il Italia abbiamo le prime manifestazione del nuovo modo di produzione capitalistico; queste comunque non hanno ancora raggiunto quella maturità che permette di produrre la forma politica dello Stato nazionale futuro. Il richiamo alle forme politiche della Roma classica, si riflettono più che nelle espressioni statuali, nella fioritura della scienza, tecnologia e arte ‘nova' del Rinascimento: vero terremoto storico che si ripercuoterà su tutta l'Europa degli anni successivi, pur se in forme diverse, appunto ‘nazionali'.

In Germania si ebbe il grandioso fenomeno della Riforma. Con le sue 95 tesi scritte in lingua tedesca, il cui grande merito formale fu quello di sancire la fine dell'ufficiale universalità della lingua latina alla quale da oggi si sostituiscono le diverse lingue nazionali, Lutero esprime l'esigenza sostanziale dei borghesi e dei maestri artigiani delle città e dei contadini tedeschi di lottare contro i principi e contro ogni baluardo dei vecchi limiti feudali. Le condizioni non erano ancora mature perché la ‘riforma' di Lutero potesse spingersi fino alla radice dei problemi: in fatti, di fronte alla insurrezione dei contadini di Münzer che si scagliavano pure contro i piccoli signorotti, il primo preferì allearsi ai grandi principi e spegnere il propagarsi del pericoloso incendio rivoluzionario.

Se la rottura dei vincoli della vecchia società si manifestarono in Italia nelle ‘arti' ed in Germania nella ‘religione', in Inghilterra essa si manifesta nello sviluppo poderoso della produzione manifatturiera ed industriale . Nel XVII secolo, la repubblica rivoluzionaria di Cromwell sconfigge il vecchio ordine, e benché questa abbia vita breve e Cromwell stesso venga ucciso, essa apre la strada alla nuova rivoluzione della fine del secolo, nella forma che ancora oggi si conosce della monarchia parlamentare.

In Gran Bretagna indubbiamente il processo è favorito (vedi Engels) dal fatto che i suoi confini sono segnati in modo preciso dal mare, anche se vi è diversità – e in seguito separazione – fra irlandesi, scozzesi, gallesi e inglesi.

In Francia, la struttura territoriale è definita dal Mediterraneo, dai Pirenei, dall'Atlantico, e dal Reno (salvo le storiche oscillazioni lungo questo fiume). Questa nazione prende il nome dai Franchi, popolo tedesco che arrivando dall'Est sottomette i Galli (o Celti): due popoli di origine non latina che sviluppano in ogni caso una lingua uscita da questo ceppo. In quest'area geografica, la rivendicazione di unità nazionale non è territoriale, ma sociale e vede ben presto la borghesia assurgere a classe che pretende di essere rappresentata negli ‘Stati generali' che hanno voto consultivo presso la Corona.

A differenza dell'Inghilterra che si mostra maestra di insegnamenti economici, la Francia si mostra maestra nel mostrare la radicalità della propria borghesia nel compiere la propria rivoluzione politica borghese, nonché l'uso rivoluzionario della propria ghigliottina.

Il grande insegnamento che sul piano sopranazionale se ne trae è dunque quello che lo sviluppo della sovrastruttura politica ed ideologica può avverarsi a seguito dello sviluppo di una base produttiva e di circolazione dei prodotti (merci) dell'industria manifatturiera e della terra. Ciò non deve condurci alla formuletta da farmacisti: non esiste un'unica rivoluzione borghese internazionale, ma una gamma – al 1950 non ancora chiusa – di rivoluzioni nazionali .

Nello studio della genesi del capitalismo e delle aree geografiche che hanno portato al suo sviluppo, potremmo indicare questa serie: Italia, arte; Germania, religione;Inghilterra, scienza economica; Francia, politica.

Citando dal Manifesto del Partito comunista: " [la borghesia] ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. [… Essa] lotta senza posa: dapprima contro l'aristocrazia, poi contro quelle parti di essa stessa i cui interessi contrastano coi progressi della produzione industriale, sempre poi con le borghesie di tutti i paesi stranieri".

Entrata sulla scena storica del proletariato

[Tesi 6 – pag. 90] A seguito dello sviluppo delle manifatture e dell'industria, quindi della produzione e circolazione di merci, si sviluppa il moderno proletariato. Questo, dopo una prima reazione al macchinismo (luddismo) in senso pre-borghese, trova la propria strada in una unione di classe con la borghesia, non ancora però con autonomia di classe.

Nella lotta contro il feudalesimo (o i feudalesimi), se si avverte che il contenuto di classe è unico per tutte le rivoluzioni borghesi (abbattimento delle parcellizzazioni, della nobiltà terriera, sviluppo di un mercato nazionale, ecc), non unica comunque è la forma che tali rivoluzioni assumono nelle aree diverse e nei diversi tempi.

A queste lotte con contenuto di classe borghese partecipa anche il proletariato ed i suoi partiti (es.: gli eguali di Babeuf, ecc.). Se è vero che fin dall'inizio della sua comparsa, il proletariato impara a lottare contro la borghesia, è tesi semplicista quella che afferma che, per i comunisti, l'unica lotta che deve interessare al proletariato è quella contro la borghesia. È vero – dice il Manifesto – che tutto il movimento storico è, nel corso del XIX secolo, concentrato nelle mani della borghesia e che ogni vittoria è ora una vittoria della borghesia. Allo stesso tempo però il proletariato non se ne può disinteressare e se ora, più che combattere i loro nemici combattono i nemici dei loro nemici, facendo questo essi partecipano a quello stesso sviluppo storico che li dovrà vedere unici e incontrastati dominatori – un giorno, per ora ancora lontano – della scena sociale e politica (dittatura del proletariato). La borghesia, trascinando il proletariato alla lotta per i propri esclusivi interessi borghesi, dà ad esso gli elementi della propria ‘educazione', cioè le armi, le esperienze indispensabili per combatterla un giorno, liberandolo a poco a poco della ideologia del proprio carattere nazionale.

Diventerà sempre più evidente che la borghesia ha carattere nazionale, perché la sua rivoluzione è nazionale, mentre il proletariato – spinto dalle stesse necessità contradditorie del capitalismo a tessere una rete mondiale e quindi a superare le barriere nazionali alla circolazione delle proprie merci – assume sempre più carattere internazionale, perché internazionale dev'essere il compimento della propria rivoluzione comunista.

Lotta proletaria e ambito nazionale

[Tesi 7 – pag. 93] La natura della lotta del proletariato è per natura internazionale, ma la sua forma nella fase iniziale è inevitabilmente nazionale. La dittatura del proletariato può inizialmente realizzarsi in qualche singolo territorio nazionale per svilupparsi poi a livello internazionale, perché, come si legge nel Manifesto, gli operai non hanno patria e non può essere tolto loro ciò che non hanno.

Il fatto che i proletari appartengano fisicamente a determinate aree geografiche (Italia, Francia, Cina, ecc.) non significa che esso abbia carattere nazionale. Ed è opportunistico negare la natura internazionale del proletariato con la scusa che le sue lotte sono inizialmente parziali e locali e poi si accentrano in una lotta di classe a livello nazionale (come se questo fosse il suo limite).

Non è lotta di classe quella che si svolge a Roccacannuccia: essa apparirà quando si svilupperà almeno a livello nazionale, ed è a partire da questo punto che ogni movimento economico si trasformerà in movimento politico.

In sintesi, dice il Manifesto: "Non per il contenuto ma per la forma, la lotta del proletariato contro la borghesia è a tutta prima nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente sbarazzarsi prima di tutto della propria borghesia".

In successione abbiamo: a) lotta locale del proletariato a livello locale e aziendale; b) lotta a livello nazionale, distruzione dello Stato borghese e dittatura del proletariato; c) unità internazionale perché il contenuto del programma comunista non può non essere internazionale.

Strategia proletaria nell'Europa del 1848

[Tesi 8 – pag. 96] È precisa consegna strategica e non semplice descrizione di un processo storico quella che indica la partecipazione attiva del proletariato nella rivoluzione nazionale antifeudale. Non a caso si parla di strategia e non di tattica, perché tale indicazione è valida per tutte le aree geostoriche interessate al superamento dei vecchi localistici rapporti di produzione.

Nel lavoro di Marx non troviamo solo chiaramente rivendicata una tale prospettiva: in essi vi scorgiamo indicazioni precise di tempo e di luogo in cui queste possano venire realizzate . Oltre a questo, al dilagare in Europa (Parigi, Vienna, Varsavia, Milano, ecc.) dei moti rivoluzionari borghesi – e considerati dai rispettivi partiti come l'ultimo slancio verso la libertà democratica nazionale – si ribadisce come lo slancio del proletariato in tale rivoluzione non sarà l'ultimo, bensì l'anticipazione del suo futuro scontro con i rapporti di produzione capitalistici.

Già allora, nel 1848, nel mezzo dell'incendio rivoluzionario borghese, le parole del Manifesto sono chiare: "la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppe industrie, troppo commercio!". Il mostro capitalistico – autentico cadavere – continua a camminare e si pone sul livello del classico piccolo borghese – con le sue lauree ed il suo cretinismo parlamentare – chi non sa cogliere il fatto che si era più vicini alla rivoluzione comunista nel 1848 che non nel 1948.

In tale data, l'indicazione del Partito comunista al proletariato è chiara: a) aiutare a completare la formazione degli indipendenti Stati nazionali; b) rovesciare il potere della borghesia una volta vittoriosa; c) se i rapporti di forza lo permettono, sbarazzarsi della stessa borghesia mentre si è ancora in cammino e inserire nel proprio programma gli obbiettivi della rivoluzione democratica. Ciò non mette in discussione l'obbiettivo della lotta internazionale per il comunismo: si afferma solamente, ma chiaramente, che questo obbiettivo non potrà essere raggiunto senza lo sviluppo di quelle forze produttive che abbisognano della rivoluzione democratica.

Nella prima metà del secolo XIX°, il maggiore ostacolo alla rivoluzione democratica consiste nella Santa Alleanza costituita dopo la sconfitta di Napoleone Bonaparte; tale ostacolo deve essere abbattuto, anche se nei decenni successivi esso verrà sostituito da uno ancora peggiore: quello della vincitrice Civiltà del Capitale.

La dimostrazione che in Marx non vi sia vuoto dottrinarismo, ma precisa indicazione strategica dettata dai reali rapporti di forza nelle diverse aree, si precisa già allora come in paesi quali America, Inghilterra, Francia, ovvero in paesi di compiuto capitalismo, i comunisti possano sviluppare rapporti solo con partiti operai, svolgendo una puntuale critica dei loro programmi teoricamente carenti. In altri paesi come Polonia e Germania – per limitarsi all'Europa – si guarderà alla borghesia per un'azione comune con i suoi partiti: azione comune da attuarsi armi alla mano, non nascondendo mai che la rivoluzione borghese a cui si partecipa non è altro che il preludio della rivoluzione proletaria.

Ripiegamento rivoluzionario e movimento operaio

[Tesi 9 – pag. 99] I moti borghesi del 1848 furono sconfitti con gli stessi tentativi del proletariato che furono tentati solo in Francia e in poco tempo schiacciati. Nel periodo successivo fino al 1866, gli sforzi dei comunisti si concentrarono sulla critica delle concezioni liberali, democratiche e umanitarie di una borghesia inconseguente; dall'altra, si concentrarono sullo spronare verso le rivoluzioni indipendentiste e di unificazione nazionale di Polonia, Germania, Italia, Irlanda, ecc.. È tempo dunque di trarre un bilancio, delle lezioni di una controrivoluzione: teoria ed organizzazione dovranno essere sistemati prima della prossima ondata rivoluzionaria.

Per adesso (fine dei moti del 1848) la borghesia è stata sconfitta assieme agli operai che con essa hanno lottato.

Fanno eccezione Inghilterra e Francia. Nel primo paese, ormai da un secolo il feudalesimo è fuori gioco e ci troviamo ora di fronte alla lotta aperta fra le moderne classi: la borghesia, col suo potere dittatoriale, ricorre alla repressione continua delle lotte del proletariato, accompagnando (vero esercizio dell'uso del bastone e della carota) tale repressione con delle concessioni riformistiche che vanno a mitigare l'uso forsennato della forza lavoro da parte dei capitalisti.

In Francia, paese di magistrali lezioni politiche, esplode la rivoluzione del 1789 e del 1793; con Napoleone Bonaparte vi è il tentativo di ‘esportare' tale rivoluzione in tutta Europa: tentativo che sarà stroncato dalla Santa Alleanza nel 1815. Da tale data regnerà Carlo X della casa dei Borbone, ma le condizioni sono tali da non poter impedire una nuova sollevazione popolare che porta sul trono Luigi Filippo d'Orleans e la formazione di una monarchia costituzionale parlamentare. Ma appoggiando questa troppo smaccatamente i grandi gruppi proprietari e finanzieri, scoppia a Parigi l'insurrezione del febbraio 1848.

Qui la classe operaia non solo è al fianco della borghesia, ma cerca di andare oltre (giugno 1848) i limiti stessi imposti dal suo alleato borghese. La classe operaia verrà sconfitta e gli avvenimenti saranno magistralmente descritti da Marx ne Le lotte di classe in Francia. Le lezioni che si possono trarre da queste pagine (scritte nel 1850) si condensano nelle tesi cardinali: a) rivoluzione in permanenza! b) distruzione della borghesia! c) Dittatura della classe operaia!

Con le esperienze delle lotte di classe in Francia abbiamo fin dal 1848 il modello – proprio ‘modello', perché è con questo strumento che la lettura della storia viene portata al livello di scienza – del rapporto fra borghesia e proletariato sia per la rivoluzione democratica borghese, sia per la rivoluzione comunista.

Con il colpo di Stato di Luigi Napoleone del 1852, il proletariato francese mostrerà una gelida indifferenza: la Francia è ormai pienamente entrata nel campo delle moderne nazioni borghesi e Napoleone non si mostrerà chissà quanto più lontano dal proletariato di quanto lo possa essere la repressiva democrazia parolaia.

Lotte di formazione delle nazioni dopo il 1848

[Tesi 10 – pag. 102] I moti rivoluzionari del 1848 in Germania non raggiungono il livello francese e qui il proletariato non lascia alcun segno. L'impostazione strategica del comunismo è qui di favorire l'unità della Germania in un'unica nazione e Stato (contro i 39 Stati sanzionati dalla Santa alleanza nel 1815; in precedenza erano 350!).

Il problema della formazione unitaria delle popolazioni di lingua tedesca è sempre stato complesso. Basti pensare che solo Hitler le unificò prima della seconda guerra mondiale; oggi (1852) – anche se ormai il problema della formazione nazionale quale trampolino di lancio per lo sviluppo del capitalismo, quindi del lavoro associato, non si pone più! – esse sono ancora divise in Germania Ovest, Germania Est ed Austria.

Con le guerre antinapoleoniche, non possiamo parlare di guerre rivoluzionarie in quanto vengono condotte a) contro l'avanguardia della rivoluzione in Europa, b) con l'allenza dei campioni delle oppressioni nazionali, vale a dire Austria e Russia (nonché dell'Inghilterra, giunta sì a piena maturità borghese, ma diventata pure ferocemente colonialista).

La stessa Prussica non è considerata da Marx ed Engels la ‘nazione tedesca': essi non sono per una nazione ‘prussiana', come non possono accettare l'esistenza di una nazione ‘bavarese', ecc.. Allo stesso titolo sono contro una ‘federazione' di staterelli tedeschi.

La rivendicazione è una ed inequivocabile: repubblica centralizzata una ed indivisibile … contro la quale si scaglierà successivamente il proletariato rivoluzionario.

Di fronte alle guerre successive al 1848 (con la Danimarca, l'Austria e soprattutto con la Francia del 1870) i comunisti non si mostrano indifferenti e possono di volta in volta essere favorevoli all'uno o all'altro contendente. Ciò non ha nulla a che spartire con i vari nazionalisti alla Mazzini, Kossuth, Blanc, Ledru-Rollin, ecc.

In tutti i passi e le guerre che vedono coinvolto lo Stato prussiano, la posizione di Marx-Engels è precisa: chiaramente interessi nazionali tedeschi.

Lo Stato-nazione della Germania esprime gli interessi della borghesia tedesca, ma esso è interesse anche dei proletari, perché è a partire da esso che il proletariato si schiererà in un deciso fronte di classe per strappare alla borghesia il potere politico.

La questione polacca

[Tesi 11 – pag. 105] Piena solidarietà alla lotta per l'indipendenza della Polonia dall'oppressione dallo zarismo: banco di prova per lo sviluppo della rivoluzione nell'intera area europea.

Nelle valutazioni strategiche non ci si deve abbandonare ad un qualsiasi tipo di ‘situazionismo'; contro ogni opportunismo, lo sviluppo delle formazioni nazionali va letta dal punto di vista storico dello sviluppo della rivoluzione in generale.

13 febbraio 1863. Marx scrive ad Engels salutando l'insurrezione che in Polonia si sviluppa nelle città e nelle campagne: forse si è aperto un nuovo tempo di rivoluzione in Europa, pur se bisogna non ricadere in facili illusioni e pur non dimenticando "quale parte ha la scioccheria nelle rivoluzioni e come le sappiano sfruttare i filibustieri". La lettera continua – e il discorso sarà precisato da altre successive – denunciando l'opportunismo di tanti rivoluzionari e democratici, veri ‘nazionalisti occasionali': i prussiani, pronti ad appoggiare le lotte in Italia ed ungheria per indebolire l'Austria, ma decisamente russofili si schierano contro la Polonia; i russi (Herzen) che sono contro lo varismo, ma che è da dimostrare che siano pronti ad appoggiare una costituzione polacca contro la Russia; i governi borghesi di Londra e di Parigi (Napoleone III: plon-plon) a parole appoggiano la Polonia, nei fatti pronti ad appoggiare l'ala destra del movimento.

Londra, 28 settembre 1864. Al miting dell'Associazione operaia inglese, Marx lancia un appello alla solidarietà degli operai europei verso la rivoluzione in Polonia, mostrando, al di là di ogni aspetto contingente mostrando quali siano le questioni di principio che costringono il proletariato ad appoggiare le rivoluzioni per l'indipendenza nazionale.

L'Internazionale e la questione di nazionalità

[Tesi 12 – pag. 108] Marx dovrà lavorare non poco all'interno della Ia Internazionale per far comprendere l'importanza delle lotte per la nazionalità da un punto di vista materialistico e storico: combattendo dunque ogni utopismo ed ogni concezione federalista.

Già dall'Indirizzo inaugurale si coglie la chiarezza teorica che vede nella corretta lettura del rapporto con lo sviluppo delle lotte per l'indipendenza nazionale, la possibilità dello sviluppo di un sano movimento di classe. In tale Indirizzo – Marx lo spiegherà chiaramente – Marx si vede costretto ad accettare alcuni passaggi sul ‘dovere', ‘giustizia', ‘diritto', ‘morale', ecc., collocati in ogni caso in modo da non nuocere nell'insieme.

1866: la questione polacca rimane sempre il tema centrale all'interno dell'Internazionale. A titolo d'esempio viene ricordato un intervento di un certo Vénisier. Le tesi di "quest'asino" (Marx), vero paladino della "pace fra i popoli", sono quelle di un campione delle "teorie moscovite di Proudhon-Herzen" che sono sempre pronti – di fronte ad ogni rivoluzione in armi contro le condizioni sociali esistenti – a cavalcare un infruttuoso pacifismo fra i popoli: pacifismo che porta al più mostruoso degli amplessi tra la borghesia d'Occidente e lo varismo.

Gli slavi e la Russia

[Tesi 13 – pag. 101] Con lo sviluppo dell'economia capitalistica e la formazione dei mercati nazionali, si vede in tutta l'Europa occidentale la formazione degli Stati borghesi moderni. Rimane aperta la questione polacca e con la fine dello zarismo, la formazione di nazioni nei territori di lingua slava.

Con la fine della prima guerra mondiale e la dissoluzione dell'Austria (1918) si forma la Piccola intesa degli Stati slavi, all'interno della quale sta la Polonia come nazione più importante e omogenea. Tale formazione rimane in vita fino alla nuova spartizione fra Russia e Germania, nel 1939.

Fin dal 1856, Marx si interessa di un libro del polacco Mieroslawski il quale crede che la formazione dello sviluppo nazionale polacco non segua l'esempio dell'industrializzazione di altre nazioni, facendolo poggiare invece sulla "comune agraria democratica". In questo libro, Marx trova la conferma (al di là dei lavori di Engels sull'Origine…) di come la formazione del servaggio si formi "per via puramente economica, senza l'intervento della conquista e del dualismo di razza". Mieroslawski non considera la possibilità della discesa in campo di una borghesia nazionale e della lotta del proletariato.

In una lettera ad Engels del 24.06.1865, Marx commenta un libro dello storico polacco Duchinsky, il quale affermerebbe che gli slavi non hanno nulla a che vedere con i russi i quali dovrebbero essere ricacciati tutti ad Est del Dniepr (o Dnepr). L'odio verso lo varismo, giustificato dal fatto che il suo esercito è l'armata di riserva della controrivoluzione europea, gli fa dire: "Mi auguro che Duchinsky abbia ragione e che in ogni caso la sua opinione si generalizzi presso gli slavi".

Ovviamente, ciò non giustifica la stupida tesi che la dittatura uscita dall'Ottobre 1917 possa essere il prodotto dell'origine asiatica dei Russi: essa rimane sempre il prodotto del legame internazionale del proletariato e ciò che esprime l'Ottobre si lega strettamente al programma rivoluzionario del comunismo, pur nei suoi limiti successivi borghesi.

In conclusione: per chiudere il ciclo delle rivoluzioni nazionali in Europa, bisogna attendere la formazione di una grande nazione capitalistica slava che comprenda lo Stato russo, almeno fino agli Urali? La risposta di allora era che la sistemazione in moderni Stati nazionali come premessa alla rivoluzione operaia riguarda un'area che finisce ad Est con la Polonia, ed eventualmente con una Ucraina e una Piccola Russia che si arrestano al Dnepr. Questa è l'area europea del ciclo della rivoluzione nazionale: ciclo che si chiuderà con il 1871.

Guerre del '66 e del ‘70

[Tesi 14 – pag. 114] La guerra fra Austria e Prussia del 1866 e soprattutto la successiva fra Francia e Prussia del 1870 mostra che il nuovo nemico della rivoluzione sarà la Francia.

10 aprile 1866. Di fronte alla guerra austro-prussiana, la Russia pone le sue truppe alla frontiera vicino alle loro frontiere: in caso di sconfitta prussiana, essa sarebbe pronta a marciare su Berlino per sostenere gli Hoenzorlen dall'inevitabile movimento rivoluzionario. Pur essendo contro l'Austria (per la riunificazione delle Tre Venezie all'Italia), in questo caso essi sperano in una sua vittoria che favorisca per contraccolpo la rivoluzione in Germania.

19 giugno 1866. A guerra scoppiata, il Consiglio dell'Internazionale affronta il problema della questione delle nazionalità dal punto di vista teoretico più che da quello dell'azione immediata. I rappresentanti della ‘Giovane Francia', che dichiarano che "ogni nazionalità e le stesse nazioni sono pregiudizi sorpassati", vengono bollati da Marx: questo "è dello stirnerismo proudhonizzato!", che nonostante la sua pretesa di passare oltre il postulato storicamente borghese della nazione, ne rimane ben indietro. Sarebbe questa (della ‘Giovane Francia') un "individualizzazione dell'umanità", uno "scomporre in piccoli gruppi o comuni che formino a loro volta un'unione, ma niente Stato": in poche parole, questi signori "sono del resto tutti ‘reazionari' che appesantiscono la questione ‘sociale' con superstizioni del Vecchio Mondo". Guarda caso, il loro appello alla soppressione delle nazionalità viene presentato nella lingua francese: "indicai – dice Marx ironicamente – che Lafargue sembrava intendere per abolizione delle nazionalità il loro assorbimento nella nazione francese, la nazione modello".

Dunque, di fronte a questi avvenimenti, Marx è più ‘possibilista', rispetto alla chiara presa di posizione a favore dell'indipendenza della Polonia: se l'Austria non può risultare vittoriosa, e con ciò causare indirettamente un movimento rivoluzionario a Berlino, va colto l'aspetto positivo della vittoria prussiana di Sadowa che, con la successiva disfatta dell'impero di Napoleone III°, si avvia verso la formazione dello Stato nazionale in Germania.

Attenzione. Gli Indirizzi non parlano di appoggiare il governo di Bismark contro quello di Napoleone: essi si limitano ad auspicare la disfatta del Secondo Impero in Francia.

23 luglio 1870. Nell'Indirizzo del Consiglio generale si applause l'opposizione alla guerra da parte delle sezioni francesi nello stesso tempo che si definisce ‘guerra di difesa' quella condotta dalla Prussica motivando ciò con la seguente considerazione: "Se la battaglia di Sadowa fosse stata perduta anziché vinta, i battaglioni francesi avrebbero inondata la Germania quali alleati della Prussia".

Guerra di difesa, dunque, anche se fosse stato Molte ad attaccare l'esercito francese; in ogni caso, guerra di difesa prima del 1871. Mai più dopo, per tutta l'area europea.

La Comune ed il nuovo ciclo

[Tesi 15 – pag. 117] Se la Prussica non è stata sconfitta dall'Austria (e nessun moto rivoluzionario è scoppiato quindi a Berlino), il crollo dell'impero francese ha avuto come epilogo la Comune di Parigi.

9 settembre 1870. La Francia è stata battuta a Sedan dai prussiani i quali si apprestano ad annettersi l'Alsazia e la Lorena; il secondo impero crolla fragorosamente ed al suo posto viene proclamata la Repubblica. Il secondo Indirizzo dell'Internazionale afferma che la classe operaia tedesca "ha appoggiato energicamente la guerra, per impedire la quale non aveva alcun potere", ma ora deve essere siglata la pace e riconosciuta la repubblica proclamata a Parigi.

30 marzo 1871. Il terzo Indirizzo (lavoro personale di Marx) – vero pilastro della teoria e del programma rivoluzionario – viene letto due giorni dopo la caduta della Comune. L'Indirizzo trae le lezioni dell'esperienza della Comune di Parigi, definendola il primo esempio storico della pratica realizzazione della dittatura del proletariato, giungendo alla conclusione storica che il più alto gesto di eroismo della vecchia società è la guerra nazionale; oggi comunque "è dimostrato che questa non è altro che una mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta di classe e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile".

Dal 1871 dunque per l'Europa esistono solo due alternative: o disfattismo di guerra da parte del proletariato o distruzione generalizzata.

Concludendo: a) il programma del comunismo prevede sempre guerre fra Stati borghesi; b) in determinate fasi storiche, non il pacifismo, ma la guerra può accelerare il generale sviluppo storico; c) dopo il 1871, il proletariato potrà porre definitivamente fine alla guerra, solamente con la generale presa del potere e la distruzione del capitalismo.

Epoca imperialista e residui irredentisti

[Tesi 16 – pag. 119] Il sopravvivere in Europa dopo il 1871, nonché lungo il secolo XX°, di casi di oppressione nazionale non può più riproporre la giustificazione di guerre di liberazione nazionale.

La prima guerra mondiale scoppio fra le nazioni per puri interessi di rapina borghese e la IIa Internazionale aderì al massacro con la scusa della ‘difesa della patria' o difesa dei paesi ‘meno sviluppati'. Poche furono le eccezioni fra i partiti socialisti che non aderirono alla guerra: fra questi il partito socialista italiano, col suo ‘non aderire né sabotare', il partito socialista della Serbia che, nonostante questa fosse sottomessa all'Austria, rifiutò l'indicazione nazionalista dell'adesione alla guerra per la liberazione nazionale.

Su tali questioni, vengono a questo punto riassunte le tesi basilari sviluppate nei ‘fili del tempo' del '50 e '51.

1 – Nei paesi plurinazionali viene combattuta la tesi socialdemocratica dell'autonomia ‘culturale' nel seno di un unico Stato, ma come autonomia totale che in ogni caso non può essere concessa dalla borghesia ma dal proletariato che ha distrutto la macchina dello Stato borghese ed instaurato la propria dittatura.

2 – Pur essendo formula borghese quella della libertà ed uguaglianza di tutte le nazionalità, va riconosciuto positiva la lotta delle nazionalità oppresse semicoloniali contro gli Stati imperialisti.

3 – Il disfattismo rivoluzionario non comporta indifferentismo sui possibili esiti della guerra fra Stati che non vedono la diretta scesa in campo del proletariato. Esempio: a) guerra russo-turca del 1877, Marx ‘tifa' per i turchi; b) guerra greco-turca del 1899, senza parteciparvi come fanno anarchici e repubblicani, i socialisti ‘tifano' per la Grecia; c) nelle guerre balcaniche del 1912, la simpatia va al movimento dei ‘giovani turchi' (Ataturk) e per la liberazione dei territori soggetti all'impero ottomano; ecc..

Questa condanna di ogni indifferentismo non implica la partecipazione dei rivoluzionari agli episodi di guerra (come alla successiva guerra mondiale), dove l'indicazione rivoluzionaria rimane sempre la tattica disfattista e la fraternizzazione fra i proletari degli opposti fronti borghesi.

È qui ripetuta la classica tesi della nostra corrente: "la vittoria delle democrazie occidentali e dell'America nella prima e nella seconda guerra ha allontanato le possibilità della rivoluzione comunista, mentre l'esito opposto le avrebbe accelerate". Stessa cosa succederebbe di fronte ad una eventuale terza guerra mondiale.

Fondamentali condizioni rivoluzionarie per la futura rivoluzione comunista sono una catastrofe per la Gran Bretagna e per gli Stati Uniti: autentici volani dell'inerzia storica del capitalismo.

Una formula per Trieste offerta ai 'contingentisti'

[Tesi 17 – pag. 122] Di fronte alla contesa di Trieste fra Italia e Jugoslavia, vanno (siamo al 1951) ripetute le posizioni dei socialisti ante-Livorno e del giovane PCd'I sorto nel 1921: a) nessun appoggio nazionalista a Roma e Belgrado; b) fraternizzazione di tutti i giuliani delle due sponde e fra questi ed i rimanenti proletari italiani e jugoslavi.

Va ricordato come nel 1921, la maggioranza delle sezioni di quell'area passarono con il partito comunista, organizzato attorno al giornale "Lavoratore" che usciva con gli stessi articoli nelle due lingue.

Piena condanna dunque agli odierni ‘comunisti nazionali' Tito e Togliatti che poggiano la loro politica sulle divisioni etniche esistenti: maggioranza di latini nelle città (operai, industriali, commercianti) e maggioranza di slavi nelle campagne (proprietari terrieri, contadini). Questa risulta essere una differenza sociale che si viene fatta passare come differenza nazionale e che sparirebbe se gli operai combattessero gli industriali ed i contadini prendessero a calci i proprietari terrieri, e che non può sparire in ogni caso con una linea di frontiera.

Alla classica domanda di ogni immediatista – "che cosa proponete voi?" – la risposta può essere semplice: voi che amate tanto la ‘conta dei voti', provate a dare peso 10 ad ogni voto che viene dalla città con almeno 10.000 abitanti e peso 1 ad ogni voto delle campagne; "chissà che con un'aritmetica come quella che suggeriamo noi, la maggioranza non venga fuori per la tesi: all'inferno entrambi!"

Rivoluzione europea

[Tesi 18 – pag. 124] A metà del secolo XX° dunque per Trieste può esserci solo un avvenire internazionale e questo può essere dato solo dalla rivoluzione comunista.

Già al tempo della Repubblica di Venezia, il porto di Trieste era avamposto per una penetrazione rivoluzionaria nel cuore dell'Europa feudale e semibarbara dell'Est.

Anche nel tempo successivo, nel quale il motore dello sviluppo capitalistico passa a Spagna, Portogallo, ecc., fino a Inghilterra, Trieste rimane sempre un punto importante per il risveglio dell'Est.

Con lo sviluppo del capitalismo moderno, Trieste ritorna di prepotenza a presentarsi come la porta attraverso la quale passa la modernità dell'industrializzazione nelle aree balcaniche.

Per tutte le sue vicissitudini storiche, Trieste non potrà mai essere pienamente una città con chiare caratteristiche ‘nazionali'. Trieste apparterrà sempre all'internazionalismo comunista, al di là delle contingenti considerazioni che i triestini possono sviluppare su se stessi. Sulla Torre di San Giusto potrà sventolare ora questa ora quella bandiera nazionale; nessuna ideologia nazionale però potrà mai nascondere del tutto che all'ombra di San Giusto passa sempre la bora del comunismo internazionale.