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  • Domenica, 27 Aprile 2014

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  • Resoconto teleriunione  22 aprile 2014

Ucraina è il mondo

Durante la teleconferenza di martedì sera abbiamo ripreso la discussione su quanto sta accadendo in Ucraina. La vicenda va inquadrata come un aspetto particolare della politiguerra americana, e la rilettura di alcuni passi dell'articolo Dall'equilibrio del terrore al terrore dell'equilibrio (n+1, n° 21) aiuta ad approfondirne alcune caratteristiche.

La diplomazia internazionale, riunitasi a Ginevra nel tentativo di stabilizzare la situazione ucraina, sembra non essere riuscita a porre un freno alle dinamiche venute a galla con gli scontri di piazza Maidan. Qualche giorno fa Putin ha promulgato una legge che facilita il percorso per ottenere la cittadinanza russa per le popolazioni russofone residenti nelle ex repubbliche sovietiche. Milioni di persone potrebbero perciò richiedere il diritto alla protezione da parte di Mosca, e quanto avvenuto in Crimea potrebbe ripetersi nelle aree di influenza russa come Estonia, Moldavia, Georgia, Kazakhstan, ecc. Gli americani, secondo alcune indiscrezioni del New York Times, starebbero elaborando una strategia di contenimento, simile a quella utilizzata nel corso della guerra fredda, per un isolamento politico progressivo della Russia.

La situazione sta mutando rapidamente e assomiglia a quanto successo in Georgia (2008) e soprattutto in Cecenia, dove potentati locali hanno esautorato i russi. I quali hanno reagito radendo al suolo tutto quello che trovavano sul loro cammino e poi, visto che l'occupazione in pianta stabile del territorio non funzionava, hanno affidato l'amministrazione del paese a signori della guerra locali.

Sembra che in Ucraina si prospetti una situazione di questo tipo, con la differenza che il territorio in questione è un importante snodo geo-strategico tra Europa e Russia; e con l'aggravante che sia gli americani che i russi si stanno lasciando trascinare in una pericolosa escalation piuttosto che governare dall'esterno il conflitto. Inoltre, forze interne ucraine potrebbero autonomizzarsi da entrambi gli schieramenti aumentando ancor più il caos nella regione.

Riprendendo quanto scritto negli ultimi capitoli nell'articolo sopracitato, possiamo affermare che da un paio di decenni ormai, la guerra è diventata un orizzonte permanente per milioni di persone: un nuovo grande conflitto mondiale non sta per scoppiare, ma è già in corso e vede coinvolti tutti i grandi paesi (Usa, Cina, Russia, ecc.). Questo pone il problema della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria: se essa è già in atto come può essere bloccata al suo nascere?

Già nell'immediato secondo dopoguerra la nostra corrente descriveva i nuovi aspetti dello scontro bellico moderno, come ad esempio la proiezione della potenza a distanza, il dispiegamento di intelligence sul territorio o la maggiore mobilità. Non cambia però il carattere principale di ogni guerra, e cioè quello di essere azione preventiva contro il potenziale di classe, motivo per cui avviene, in base ai nuovi criteri, il coinvolgimento totale di ogni forza sociale, popolazioni comprese, ed entra in scena il "soldato politico". Il fatto che ogni guerra abbia questo tratto di controrivoluzione preventiva contro una possibile sollevazione del proletariato in questo o in quel paese, dimostra l'importanza di alcuni nostri capisaldi politici quali l'internazionalismo, l'anticapitalismo e la lotta alle partigianerie.

Una nuova forma di guerra è oggi quella subita dai milioni di senza-riserve che premono sui confini dei paesi di vecchia industrializzazione. Gli Stati, predisponendosi ad un conflitto a bassa intensità, si "blindano" e aumentano il livello di repressione, armandosi adeguatamente per respingere o imprigionare i disperati alle frontiere. Un altro esempio significativo è quello della guerra tra Libano e Israele del 2006, dove lo stato israeliano ha inviato il proprio esercito all'attacco non di un'altra forza armata statale ma della popolazione civile. In Libano le operazioni belliche erano difatti gestite da Hezbollah, una sorta di contro-stato senza un vero e proprio esercito.

Il sociologo Mike Davis sostiene che sarà la metropoli tentacolare il prossimo terreno di battaglia, in una guerra senza quartiere tra masse di poveri e apparati repressivi statali. Vengono subito in mente le notizie di questi giorni riguardo l'ennesima operazione militare contro la popolazione delle favelas di Rio de Janeiro.

Abbiamo quindi la guerra tra Stati e potenze non statali (Israele - Hezbollah); quella dello Stato, che mette in campo polizia, eserciti e servizi segreti, contro la popolazione civile (Brasile, Venezuela); e, a completamento del quadro sul conflitto bellico moderno, le guerre per procura (proxy war) e quelle di quarta generazione (fourth-generation warfare). L'aspetto più interessante di tutte le forme è quello duale, per cui da una parte ci sono gli Stati e dall'altra la nuova forma sociale che spinge, cercando i punti deboli per rompere l'involucro capitalista.

Pensiamo ad esempio a tutte le rivolte urbane, in corso o sopite, a partire da quelle nelle banlieue francesi del 2005 (recentemente sul sito di Repubblica è stato pubblicato un articolo riguardo le 843 insurrezioni popolari esplose in 84 paesi dal 2006 al 2013). La base da cui scaturiscono moti sociali apparentemente differenti è unitaria, e gli Stati devono sempre più spesso fare i conti con il fronte interno: Occupy negli USA, il 15M in Spagna, il grosso movimento operaio in Cina (vedi scioperi in corso nel settore calzaturiero). O ancora in Turchia, dove ai tempi della rivolta di Gezi Park si è formato un organismo di lotta composto da 116 sigle politiche e sindacali chiamato Solidarity Taksim (a proposito, sembra che qualcosa del genere si stia riformando per organizzare le manifestazioni del Primo Maggio soprattutto dopo che il governo ha vietato di manifestare in piazza Taksim per quel giorno).

In Italia, di fronte allo scenario di guerra permanente globale, la stupidità dei sinistri non accenna a diminuire e si focalizza sull'opportunità o meno di acquistare gli aerei da guerra F35 o di diminuire le spese militari. Al solito, i nuovi partigiani si concentrano sugli epifenomeni militari invece di mettere in discussione il sistema tout court. Il nemico capitalista è ovunque, e in primo piano c'è quello rappresentato dalla borghesia nostrana con la quale invece tanti pacifisti vanno felicemente a braccetto.

Ma prestando attenzione alla dinamica generale in corso, risulta evidente che gli squilibri globali che si manifestano a livello nazionale sono sempre più forti. Che si tratti della caduta di un presidente in Egitto o di una rivolta che sfocia in guerra civile come si sta prospettando in Ucraina, il contesto a cui far riferimento è sempre quello internazionale. E le cause materiali sono da ricercarsi non solo nelle contingenze, ma nella contraddizione mortale del capitalismo: la caduta tendenziale del saggio di profitto.

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