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  • Venerdì, 30 Marzo 2018

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  • Resoconto teleriunione  27 marzo 2018

La corda è tesa

La teleconferenza di martedì sera, presenti 11 compagni, è iniziata commentando l'articolo "The Era of Urban Warfare is Already Here" pubblicato su Foreign Policy Research Institute, il sito di un istituto di ricerca americano che tratta di questioni geopolitiche e di strategie militari.

Nel testo si afferma che Aleppo, Mosul, San'à, Mogadiscio e Gaza, tutte città devastate dalla guerra, non sono che alcuni esempi della tendenza al conflitto globale metropolitano. Secondo il think tank americano, l'urbanizzazione della popolazione mondiale e la crescita dell'instabilità politica nei paesi in via di sviluppo sono le cause scatenanti delle guerre in corso: "Nel 1990, la popolazione mondiale era per il 43% (2,3 miliardi) urbana. Entro il 2015, era cresciuta fino al 54% (4 miliardi). Entro il 2050, quasi i due terzi della popolazione globale vivranno nelle città." Questo processo, insieme a tutto ciò che esso comporta (flussi migratori, collasso delle infrastrutture, malattie e carestie diffuse), rende sempre più difficile la governance, sia globale che locale. Anche l'Economist, nel report speciale sulla guerra uscito qualche settimana fa, ha dedicato un articolo al tema ("Preparing for more urban warfare - House to house.").

Nella nostra rivista n. 21, nell'articolo "Dall'equilibrio del terrore al terrore dell'equilibrio", abbiamo descritto ampiamente tale tendenza, notando che le guerre d'oggi massacrano non solo i civili di Stati collassati, ma "uccidono e terrorizzano anche nelle metropoli dei paesi industriali che le pianificano." Naturalmente la metropoli tentacolare e ghettizzata è la realtà che subisce più di tutte la violenza armata della classe dominante, come nel caso di Rio de Janeiro dove le favelas sono prese d'assalto dall'esercito con il pretesto di stanare le bande legate al narcotraffico, e dove, per la prima volta dalla caduta della dittatura (1985), un presidente brasiliano ha ordinato alle forze armate di prendere il controllo della città. Le operazioni militari in corso a Rio possono essere viste anche come azioni preventive, messe in atto per sperimentare pratiche di guerra a bassa intensità a fini contro-insurrezionali (da ricordare il film Tropa de Elite - Gli squadroni della morte di José Padilha, in cui sono rappresentate le incursioni nelle favelas del battaglione per le operazioni speciali della polizia militare, il BOPE). Detto questo, la dislocazione dell'esercito nei quartieri popolari non può impedire la crescita della miseria e, non affrontando l'origine dei problemi, non pacificherà un bel niente. L'esercito brasiliano non è il primo a fronteggiare le immense difficoltà del combattimento porta a porta: nel giugno 2014, le forze di sicurezza irachene sono collassate di fronte all'avanzata dello Stato Islamico a Mosul, la seconda città dell'Iraq.

Nel finale dell'articolo del Foreign Policy Research Institute si osserva che le forze armate occidentali dovranno misurarsi sempre di più con rivolte urbane, violenze metropolitane endemiche (India e Pakistan), attentati terroristici (Barcellona, Parigi, Bruxelles, Istanbul), e attacchi su larga scala di formazioni irregolari (al-Shabab e Boko Haram). Insomma, il nemico per gli Stati è molteplice ed è rappresentato da un insieme di gruppi armati, insorti, terroristi, bande criminali e signori della guerra. Noi aggiungiamo che nelle favelas, così come nelle banlieue francesi o nelle periferie globali dove abitano milioni di senza riserve, si amplificherà la guerra di classe in corso, quella del capitalismo contro la forza sociale nuova che spinge per liberarsi.

Ogni guerra comincia tecnicamente dal livello raggiunto dall'ultima. Oggi, come nel secondo conflitto mondiale, esistono ancora sommergibili, cacciabombardieri, carri armati, ecc., di certo più sofisticati rispetto al passato ma sempre uguali nella loro funzione fondamentale. Così come un caccia rimane un caccia, allo stesso modo è necessaria la fanteria per occupare fisicamente il territorio. Guerre stellari e fantaccini terrestri: modernissimi missili "fire-and-forget", capaci di autoguidarsi, e il fante che combatte casa per casa.

Controrivoluzione e rivoluzione si adattano a ciò che esiste e cioè al livello tecnico raggiunto dall'industria. Nelle guerre del prossimo futuro Internet svolgerà un ruolo chiave, a partire dall'intelligence fino all'utilizzo dei Big data, per prevedere le mosse dell'avversario. La contrapposizione fra grandi eserciti regolari composti da milioni e milioni di soldati, al massimo appoggiati da qualche partigianeria dietro ai fronti, è caduta. Di conseguenza è caduta la proposizione leniniana sulla trasformazione della guerra mondiale in guerra civile rivoluzionaria. Non che sia venuto meno il principio generale, che è sempre valido, ma è esaltato come non mai l'aspetto internazionale, a-locale, dei fenomeni legati alla rivoluzione. Anche perché, una rivolta con contenuti programmatici anti-forma avrebbe seri problemi nell'affrontare uno Stato nel pieno delle sue capacità. In una situazione di tipo insurrezionale le dinamiche vanno valutate e anticipate dal partito rivoluzionario, ma prima di poter parlare di situazione rivoluzionaria lo Stato e il suo apparato repressivo devono necessariamente crollare dall'interno.

Un compagno ha segnalato le manifestazioni che hanno avuto luogo negli Usa lo scorso 24 marzo. In quel giorno, sotto l'hashtag #MarchForOurLife, un milione e mezzo di persone in oltre 800 città degli States sono scese in piazza. Secondo alcuni commentatori si tratta di una delle più grandi mobilitazioni giovanili dopo quelle contro la guerra del Vietnam. L'iniziativa è nata in risposta alla sparatoria avvenuta lo scorso 14 febbraio nel campus di Parkland, in Florida, dove sono morti 17 fra studenti ed insegnanti. Le mobilitazioni sono contro la vendita illimitata di armi da fuoco ed ovviamente sono state cavalcate dal Partito Democratico in funzione anti-Trump, accusato di essere favorevole alle lobby delle armi. Tuttavia, da tempo andiamo dicendo che le manifestazioni, in genere, valgono molto più per la dimostrazione potenziale di forza e la polarizzazione sociale che per quello che dicono di se stesse ("Una vita senza senso").

La teleconferenza è proseguita con alcune notizie su quanto sta avvenendo a Puerto Rico. L'isola, territorio non incorporato degli Stati Uniti, è stata colpita nel 2017 dagli uragani Irma e Maria, e da quel momento non si è più risollevata: rete elettrica, ospedali, scuole e infrastrutture sono in tilt e grandi gruppi capitalistici hanno approfittato della situazione per attivare una sorta di shock economy (Naomi Klein) a base di privatizzazioni, abbassamento del costo della forza lavoro e gentrification. La linea logistica che ha gestito il trasloco "forzato" di circa 190 mila persone negli Usa è quella dalla FEMA, l'Ente federale per la gestione delle emergenze accusato di deportare la popolazione povera, come successo a New Orleans dopo l'uragano Katrina.

Si è poi accennato allo "scandalo" Facebook e alla perdita di credibilità da parte dei social network. La vicenda ridimensiona fortemente le velleità presidenziali di Mark Zuckerberg di cui da qualche tempo più fonti vociferavano. I capitalisti si sentono talmente sicuri di sé che riempiono il mondo con le loro merci, ma ad un certo punto il mondo arriva alla saturazione, il sistema non risponde più e va fuori controllo. Anche i governanti non sanno più a che santo votarsi e arrivano ad ammettere che quella in corso non è una crisi congiunturale. Il direttore del FMI, Christine Lagarde, in visita a Berlino ha chiesto di istituire uno fondo anti-crisi "per i giorni di pioggia", che protegga i paesi della moneta unica in caso di shock economici. Già lo scorso 5 marzo, nell'articolo "Sussidio ai disoccupati, la svolta dell'Europa" (Repubblica), si accennava ad una specie di assicurazione europea contro la disoccupazione, in modo da agire sulla propensione marginale al consumo sia per riattivare l'economia che, soprattutto, per evitare lo scoppio di rivolte.

In chiusura di riunione, si è discusso brevemente della situazione politica del Belpaese.

Siamo in pieno trasformismo all'italiana: Beppe Grillo, che poco prima del 4 marzo aveva scritto un post sulla "biodegradabilità" del M5S scagliandosi proprio contro la Lega, adesso strizza l'occhio al suo leader: "Salvini è uno che quando dice una cosa la mantiene, che è una cosa rara". Alla base di un possibile accordo politico tra Lega e M5S sembra rientri il reddito di cittadinanza, che però diventerebbe più simile ad un reddito di inclusione: le cifre da utilizzare sarebbero di molto inferiori rispetto ai 15 miliardi di euro sbandierati dai pentastellati in campagna elettorale. Il sociologo Domenico De Masi, autore del saggio Lavoro 2025: Il futuro dell'occupazione (e della disoccupazione), in un'intervista a Repubblica, avverte i "grillini" che il patto con la Lega è contro-natura e rischioso, e che la base di riferimento ("disoccupati, poveri, operai, periferie") potrebbe non accettare di veder accantonata tutta una serie di punti programmatici fondamentali, in primis il reddito di cittadinanza: "Se i sei milioni di poveri si infuriassero davvero, i soldi si troverebbero domattina. Il Welfare lo inventò Bismarck, che non era sicuramente di sinistra: nell'aria c'era vento rivoluzionario, stavano per arrivare il 1917 e la rivoluzione sovietica, e per ridurre una possibile reazione violenta degli operai si fece il welfare."

Infine, dice De Masi, "non si può tirare troppo la corda. Nel 2007 in Italia 10 famiglie avevano la ricchezza di 3,5 milioni di italiani. Dopo la crisi, le stesse 10 famiglie hanno la ricchezza di 6 milioni di italiani. La corda è tesa".

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