Lo storico dibattito sull'accumulazione

Questi appunti hanno un carattere schematico in quanto sono ricavati dal piano delle due riunioni su Lo storico dibattito sull'accumulazione. Naturalmente, un loro approfondimento ed una loro ridefinizione sono possibili in futuro.

Il dibattito che intendiamo seguire, riportandone il corso e seguendone lo sviluppo storico, si svolge nell'arco di poco più di 35 anni, tra il 1895 e il 1930, tanto per fissare due date: si tratta, come possiamo osservare, del periodo di più grande vitalità conosciuto dal movimento proletario e di intensa attività sia dal punto di vista teorico che da quello pratico. Un apice fino ad oggi mai più toccato dal partito operaio.

E' importante, parlando di "teorie delle crisi", tenere ben presente che tale termine è stato storicamente usato in un duplice significato: da un lato, quello di crisi ciclica, congiunturale, ovvero il rallentare ed il bloccarsi dell'accumulazione che periodicamente conosce l'economia capitalistica; dall'altro lato, "crisi" è stato spesso adoperato nel senso di "catastrofe finale", senza ritorno, del modo di produzione capitalistico. Spesso, accentuare una o l'altra valenza del termine è indice di schieramento, di presa di posizione nella discussione sull'accumulazione. Tugan Baranovskij e la Luxemburg, ad esempio, usano questo termine accentuandolo nel primo senso e nel secondo, rispettivamente.

La questione del sottoconsumo

Lo studio delle crisi, delle loro cause, della loro ciclicità: questo primo aspetto della discussione si manifestò attorno al 1890 in maniera più esplicita proprio per i mutamenti oggettivi che l'andamento dell'accumulazione aveva assunto, rispetto ai decenni fra il 1820 e il 1850; naturalmente, la discussione su questi temi non poteva che svilupparsi immediatamente anche sul terreno della previsione, della valutazione sul decorso futuro del capitalismo: di fatto, questi aspetti della discussione procedettero, da quel punto in avanti, profondamente legati l'uno all'altro.

Quando parliamo di mutamenti oggettivi nell'andamento dell'accumulazione ci riferiamo alla rottura della periodicità decennale delle recessioni economiche: dal 1860 circa fino al 1890, il capitalismo vive un'epoca di relativa tranquillità e di quasi continua espansione. In campo teorico, fu proprio questo andamento dell'accumulazione a fornire la base per le affermazioni di Bernstein: si andava, secondo lui, verso una stabilizzazione del capitalismo; il credito e la formazione dei cartelli svolgevano un ruolo di "addolcimento" della riproduzione allargata ed il capitalismo si preparava ad un'epoca di stabile crescita, senza cadute e senza traumi. Non è qui il caso di richiamare, se non con un veloce cenno, la base sociale oggettiva che permetteva il diffondersi di questa tendenza nella socialdemocrazia tedesca (ed il nome Bernstein lo usiamo, come i nomi dei singoli che richiameremo in seguito, per convenzione e per chiarezza: come sempre, dietro le posizioni individuali, si possono riconoscere le forze fisiche che agiscono oggettivamente nel campo sociale). Dal punto di vista che qui ci interessa, è importante richiamare queste posizioni perché è in contrapposizione di queste tesi (o a loro sostegno) che si avvia in maniera più netta la discussione. Infatti, se la valutazione delineata da Bernstein fosse stata corretta, giusta sarebbe stata la prospettiva revisionista di un pacifico passaggio al socialismo attraverso la crescita elettorale del partito socialdemocratico e l'affermarsi sociale dei sindacati e delle cooperative.

La reazione a questo tipo di tesi non poté che affrontare la questione di questo cambiamento nella periodicità delle crisi e sul loro manifestarsi. Ricordiamo, ad esempio, la nota di Engels nel cap. XXX del III Libro del Capitale che suona profetica nella sua chiarezza di analisi:

"Come ho già avuto occasione di rilevare altrove, a partire dall'ultima grande crisi di carattere generale le cose hanno preso un'altra piega. La forma acuta del processo periodico con il suo abituale ciclo decennale sembra essersi trasformata in un alternarsi, a carattere più cronico e di più lunga durata, di periodi di ripresa relativamente breve e poco accentuati, e di periodi di depressione relativamente lunghi e senza soluzione, fasi che si presentano nei diversi paesi industriali in tempi diversi. Può darsi però che si tratti soltanto di un prolungamento della durata del ciclo. Nei primordi del commercio mondiale, 1815-1847, si possono individuare delle crisi separate da intervalli di cinque anni circa; dal 1847 al 1867, il ciclo ha una durata decisamente decennale; ci troviamo forse noi nella fase preparatoria di una nuova crisi mondiale di inaudita violenza? Molti sintomi sembrano portare a questa conclusione. Dopo l'ultima crisi generale del 1867 si sono verificati dei profondi cambiamenti. Con il colossale sviluppo dei mezzi di comunicazione - transatlantici a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, il canale di Suez - il mercato mondiale è divenuto una realtà operante. Accanto all'Inghilterra, che precedentemente deteneva il monopolio dell'industria, troviamo una serie di paesi industriali che le fanno concorrenza; al capitale che si trova in eccedenza in Europa vengono offerti in tutte le parti del mondo campi di investimento infinitamente più vasti e più vari, di modo che esso si ridistribuisce in misura molto maggiore, mentre la superspeculazione locale viene superata con maggiore facilità. Tutti questi fatti hanno eliminato o fortemente indebolito gli antichi focolai delle crisi e le occasioni che le favorivano. Al tempo stesso sul mercato interno la concorrenza retrocede di fronte ai cartelli ed ai trusts, mentre sui mercati esteri essa trova una barriera nei dazi protezionistici, di cui si circondano tutti i grandi paesi industriali, eccettuata l'Inghilterra. Ma questi dazi rappresentano in realtà soltanto degli armamenti per la definitiva campagna industriale universale che dovrà decidere della supremazia sul mercato mondiale. Di modo che ogni elemento che contrasta il ripetersi delle antiche crisi reca quindi in é il germe di una crisi futura molto più terribile" (Nota di F. Engels in Il Capitale, Libro III, Sez. V, cap. 30).

La caduta del monopolio inglese sul commercio mondiale, padre di quel trentennio "pacifico" mostrerà molto presto la lucidità delle previsioni di Engels.

E' proprio cercando di sviluppare teoricamente queste questioni, contro Bernstein (Cunow) o a suo favore (C. Schmidt), che si giunse alla formulazione di una teoria del sottoconsumo nell'ambito della socialdemocrazia tedesca.

Il testo di Cunow Il crollo del capitalismo è già nel titolo chiaro rispetto alla prospettiva delineata: la traiettoria del modo di produzione capitalistico era una parabola, destinata ad una rapida caduta dopo l'ascesa del precedente trentennio, proprio per l'impossibilità del capitalismo di tenere il passo di una produzione crescente con un proporzionale consumo: consumatore era il proletariato, ma la dinamica salariale rendeva la classe operaia acquirente non solvibile di questa crescente massa di merci; per mancata realizzazione, si sarebbe esaurito il corso storico del capitalismo, lungo l'arco della sempre più frenetica concorrenza, dello scontro tra le potenze industriali e la crisi sociale.

Analogamente, un quadro simile veniva delineato da Schmidt: genesi della crisi è la contraddizione fra compressione dei salari e produzione crescente: ciò causava aumento della concorrenza, diminuzione dei prezzi e caduta del saggio di profitto. Ma le conclusioni alle quali giungeva erano opposte, rispetto a quelle di Cunow: il proletariato doveva lottare con i sindacati per capovolgere questa situazione e imporsi politicamente conquistando la maggioranza parlamentare. Anzi, il socialismo avrebbe mostrato la sua superiorità proprio rispondendo con l'aumento dei consumi alle crisi e alle tensioni internazionali che il sottoconsumo capitalistico generava. E' sicuramente suggestivo questo approdo su sponde diverse, partendo da valutazioni affini.

E' da ricordare, infine, nell'ambito della teoria del sottoconsumo, sia Hobson (che, anticipando Keynes, ne trae la necessità dell'intervento statale nell'economia), sia Kautsky, che in quegli anni si muove nell'ambito dell'interpretazione sottoconsumistica (mentre sarà su una posizione opposta, con Hilferding, 25 anni dopo).

Scriveva infatti nel 1901:

"Le crisi operano nella direzione del socialismo mediante l'accelerazione della concentrazione dei capitali e l'aumento dell'insicurezza delle condizioni di vita dei proletari, quindi con l'inasprimento degli impulsi che spingono i poveri verso il socialismo. (...) La continua necessità di ampliare il mercato contiene invece ancora un altro momento; è chiaro, da un certo momento storico in poi, il modo di produzione capitalistico diventa impossibile, nella misura in cui risulta che il mercato non può più estendersi al medesimo ritmo della produzione, vale a dire, non appena si arriva ad una sovrapproduzione cronica. Per necessità storica Bernstein intende una situazione forzata. Ne abbiano qui una che, quando si fa presente, genera inevitabilmente il socialismo".

[K. KAUTSKY, Protokoll des Hannoverschen Parteitags (Verbale del congresso di Hannover), citato da L. WOLTMANN, Die wirtschaftlichen und politischen Grundlagen des Klassenkampfes (I fondamenti politici ed economici della lotta di classe), in "Socialistische Monatshefte", febbraio 1901, p. 128].

Le affermazioni di Kautsky vengono riprese in un suo articolo dell'anno successivo che verrà citato dalla Luxemburg nell'Anticritica. La posizione di Kautsky evita il meccanicismo che trapela dalle pagine di Cunow e di Schmidt, ma ne ripropone la sostanza: è innegabile che lo sviluppo dell'accumulazione, allargando il numero degli operai, consente un aumento del consumo, ma tale aumento non tiene il passo della rapida accumulazione ed è in ciò la genesi delle crisi cicliche. Conseguenza ulteriore, secondo Kautsky, è la ricerca di mercati di sbocco tra paesi e strati sociali non ancora capitalistici: sarebbe questa la vera causa dell'affermarsi dell'imperialismo. Come si vede, non avrà torto Rosa Luxemburg nel rivendicare alla propria Accumulazione del capitale un collegamento con quelle che erano le posizioni ufficiali della socialdemocrazia all'inizio del secolo.

E' da notare che numerosi passi sono rintracciabili in Marx a sostegno di questa affermazione, così come molti altri si possono portare a sostegno della tesi opposta che stiamo per richiamare. Ne faremo qualche esempio nelle conclusioni del presente lavoro e cercheremo di trarre da questo delle valutazioni.

La teoria della sproporzionalità

E' interessante osservare che in molte delle teorizzazioni del sottoconsumo come causa della crisi (Cunow, ad esempio) si trovi spesso una riproposizione più o meno pedestre delle teorie di Sismondi, già criticate da Marx alcuni decenni prima. E' questo un invariante significativo: una parte della discussione che esaminiamo, cercando di estrapolare ed assolutizzare un elemento particolare dell'accumulazione dal suo contesto, non farà altro che riprodurre e aggiornare il dibattito fra Sismondi da un lato e Ricardo e Say dall'altro, sulla possibilità reale del procedere dell'accumulazione: eppure, il metodo dialettico di Marx aveva già risolto esplicitamente la questione e saldato i conti sia con Sismondi, che si volge con nostalgia ai modi di produzione precapitalistici, sia con l'ottimismo capitalistico dei suoi oppositori Say e Ricardo.

Eppure, sono argomenti simili a quelli dei due schieramenti suddetti che troviamo nel dibattito in Russia tra narodniki e marxisti negli stessi anni in cui nel partito tedesco si sviluppavano le posizioni che abbiamo appena esaminato. Ricordiamo che i populisti usavano argomenti affini a quelli di Sismondi per sostenere l'impossibilità dello sviluppo del capitalismo in Russia: dato che il capitalismo, secondo loro, non può sviluppare il mercato interno oltre a un certo limite per il sottoconsumo, e dato che il giovane capitalismo russo non poteva sperare una conquista di mercati esteri, campo di feroce concorrenza, se ne deduceva l'impossibilità di un'accumulazione capitalista in Russia.

La risposta del "marxismo legale" si produsse attraverso Bulgakov e Tugan Baranovskij: soprattutto quest'ultimo, tradotto rapidamente in tedesco, sviluppò un'influenza profonda sulle tesi di quanti, da Hilferding a Bauer, sosterranno in seguito la critica alla teoria del sottoconsumo, traendone parallele conclusioni politiche.

Tugan volle dimostrare la possibilità di allargamento della produzione anche in presenza di una diminuzione dei salari e quindi del consumo solvibile dei proletari: lo fece sviluppando numericamente gli schemi dell'accumulazione di Marx e mostrando che la produzione cresceva, senza essere ostacolata dal diminuito consumo degli operai. Anzi, la crescita della quota di accumulazione in capitale costante rispetto a quella in capitale variabile diveniva, ai suoi occhi, una delle leggi fondamentali del capitalismo.

Per Tugan, le crisi cicliche erano causate non dal sottoconsumo ma dalle sproporzioni fra le sfere di produzione all'interno della I e II Sezione del capitale: l'oscillazione periodica di tutto il sistema era dovuta all'anarchia capitalistica che faceva produrre certe sfere più del necessario ed altre meno; erano le crisi che si incaricavano di ristabilire la giusta proporzione tra le sfere e consentivano la ripresa dell'accumulazione.

Secondo questa visione, dunque, il capitalismo si espande sempre, alla scala storica, e non corre verso nessun crollo di matrice esclusivamente economica. Una accumulazione il cui scopo è non il consumo degli individui, ma una crescita continua del capitale costante, farà parlare di "sterile giostra a vuoto" la Luxemburg, ma è sicuramente suggestiva alla luce della corsa del quantitativismo produttivo del nostro secolo, anche se questa folle corsa alla produzione fu realizzata, come spesso la Sinistra ha sottolineato, grazie alla dilatazione spropositata dei consumi inutili.

Per Tugan, quindi, è il capitale costante allargato e accumulato che realizza il plusvalore: in ciò, richiama sicuramente la "legge degli sbocchi" di Say e "l'equilibrio fra venditore e compratore" di Stuart Mill. Infatti, Tugan dedusse dalle sue tesi una critica alle due teorie del crollo rintracciabili, a suo parere, in Marx: una teoria del crollo per sottoconsumo ed una sul crollo da caduta del saggio di profitto. Di queste due presunte teorie di Marx diremo in conclusione di questo lavoro.

Resta da sottolineare l'importanza di questa teoria anche per l'influenza esercitata non solo su tutto il marxismo russo (si veda la battaglia di Lenin fra ultimi anni del XIX secolo e primi anni del XX), ma anche sull'austro marxismo e sul partito tedesco: oltre ai menzionati Hilferding e Bauer, sono da ricordare i "critici" di Rosa Luxemburg come Eckstein e Pannakoek, ma anche lo stesso Bucharin che a Vienna risiedette a lungo dopo l'esilio dalla Russia.

Infine, un altro filone che da Tugan si sviluppa è quello del calcolo economico che cerca di eliminare le sproporzioni del sistema ed equilibrare l'accumulazione: in fondo, in lui troviamo un precursore dell'"accumulazione socialista" e della pianificazione di Stalin e dei suoi epigoni.

Rosa Luxemburg e "l'impossibilità della realizzazione"

L'attività di Rosa Luxemburg nell'insegnamento dell'economia marxista alla scuola quadri del partito tedesco diventò per lei un gigantesco sforzo di approfondimento della questione dell'accumulazione con un fondamentale obiettivo politico: dare un fondamento scientifico alla lotta contro il revisionismo di Bernstein e contro tutte le correnti di "stabilizzazione del capitalismo".

Tugan e il revisionismo avevano infatti teorizzato, ciascuno a modo suo, non solo la possibilità di attenuazione dell'impatto delle crisi cicliche, ma anche la visione del modo di produzione capitalistico che poteva sviluppare all'infinito la sua crescita e la sua vita.

Per Rosa Luxemburg, rinunciare alla confutazione teorica di questi punti di vista significava relegare il movimento marxista ad uno sterile utopismo: occorreva, invece, mostrare che il capitalismo portava già scritte, nel proprio funzionamento, le ineluttabili leggi del proprio superamento.

La risposta scientifica, per la Luxemburg, consistette nel mostrare l'impossibilità dell'accumulazione se si rimaneva nel mondo capitalistico e nelle due classi che lo interpretano negli schemi di Marx: infatti, proprio quegli schemi erano stati la base di partenza delle teorizzazioni di Tugan Baranovskij e dei marxisti "legali" russi.

"Ammettiamo invece coi "competenti" l'illimitatezza economica della accumulazione capitalistica, e toglieremo da sotto i piedi del socialismo la base granitica della sua necessità storica obiettiva per rifugiarci nelle nebbie dei sistemi e delle scuole pre-marxiste, che pretendevano di dedurre il socialismo dalla pura ingiustizia e malvagità del mondo attuale e dalla pura decisione rivoluzionaria delle classi lavoratrici" (Nota di F. Engels in Il Capitale, Libro III, Sez. V, cap. 30).

Dunque, il suo punto di partenza è negli schemi di riproduzione allargata di Marx: secondo Rosa, il prodotto del ciclo M' = C + V + PV non trova realizzazione nelle due classi che dispongono di V e di PV come mezzi di pagamento: poiché M' maggiore di M, la parte di M' - M non è realizzabile perché proletari e borghesi sono solvibili solo per la somma totale di M. Chi comprerà il prodotto aggiuntivo? Né i borghesi, né i proletari, abbiamo detto, e nemmeno le mezze classi il cui consumo è deducibile solo dal plusvalore. Solo all'esterno della società borghese, il capitale può trovare gli acquirenti di tale prodotto aggiuntivo e realizzare il plusvalore. Ma in questo modo, progressivamente, mentre nuove fette del mondo vengono gettate nella caldaia del capitalismo, e sempre di più si restringe quell'area "esterna" che da sola garantisce alla riproduzione allargata: in questo modo è mostrata l'ineludibile traiettoria catastrofica del capitalismo. La sua fine è già scritta nell'impossibilità di realizzare il plusvalore all'interno della società borghese.

"Così, grazie all'azione reciproca su strati sociali e paesi non-capitalistici, il capitalismo si estende sempre più, accumulando a loro spese ma, nello stesso tempo, erodendoli e scacciandoli per occuparne il posto. Sennonché, quanti più paesi capitalistici partecipano a questa caccia a territori di accumulazione, quanto più ristrette sono le zone di produzione non-capitalistica ancora aperte alla espansione mondiale del capitale, quanto più si inasprisce la lotta di concorrenza per quei campi di accumulazione, tanto più le scorribande del capitale sulla scena del mondo si trasformano in una catena di catastrofi economiche e politiche: crisi mondiali, guerre, rivoluzioni. Ma attraverso questo processo il capitale prepara in duplice modo il proprio crollo. Da una parte, allargandosi a spese di tutte le forme di produzione non-capitalistiche, si avvia verso il momento in cui l'intera umanità consisterà unicamente di capitalisti e salariati e perciò un'ulteriore espansione e quindi accumulazione risulterà impossibile; dall'altra, nella misura in cui questa tendenza s'impone, acuisce a tal punto i contrasti di classe e l'anarchia economica e politica internazionale che, prima ancora che l'ultima conseguenza dello sviluppo economico - il dominio assoluto e indiviso della produzione capitalistica nel mondo - sia raggiunta, dovrà provocare la rivolta del proletariato internazionale contro la persistenza della dominazione capitalistica" (Ivi, pag. 489).

Questo breve riassunto può essere forse troppo semplificativo: gli argomenti della Luxemburg possono essere letti ad esempio nell'Anticritica da pag. 483 a pag. 488 dell'ediz. Einaudi della Accumulazione del capitale. Tuttavia, la sostanza delle sue conclusioni ci sembra abbastanza fedele.

Gli argomenti della Luxemburg sollevarono un vespaio di critiche alle quali accenneremo in seguito. Ma il suo sforzo coglieva sicuramente alcuni degli obiettivi che si prefissava: ad esempio, si veda la sua critica alla teoria di Tugan, ovvero ad un'incessante accumulazione col solo scopo di allargare ancora di più la produzione; Rosa la definisce un'assurda "giostra a vuoto". Vero è che questa "giostra" incarna, in qualche modo, l'essenza stessa del capitalismo, come farà notare Bucharin, ma è pur vero che in questa "giostra" non si può tralasciare l'aspetto della realizzazione del plusvalore; l'impossibilità di realizzazione era, anzi, proprio l'aspetto fenomenico che assumeva la crisi classica di sovrapproduzione.

Il "crollismo" della Luxemburg venne accusato di fatalismo, di quieta attesa di una inevitabile catastrofe. In realtà, ella mostra facilmente come questa critica possa essere allargata a tutti i fautori del determinismo rivoluzionario. La stessa Rosa rivolge un'accusa simile ad uno dei suoi critici che si appellava ad una teoria del crollo da caduta del saggio di profitto:

"Ovvero rimane la consolazione alquanto dubbia di un "competente" della "Dresdner Volkszeitung", che, demolito il mio libro, dichiara: il capitalismo naufragherà, prima o poi, contro "la caduta del saggio del profitto". Comunque il brav'uomo s'immagini la cosa - che cioè, ad un certo punto, la classe capitalistica, disperata per la bassezza del saggio del profitto, faccia suicidio in massa, o dichiari che il gioco non vale più la candela e consegni chiavi delle casseforti al proletariato -, questa consolazione è distrutta da una semplice frase di Marx, dall'accenno che "per i grandi capitali la caduta del saggio del profitto è controbilanciata dalla sua massa. Di qui al tramonto del capitalismo per effetto della caduta del saggio del profitto ci corre, dunque, come di qui al raffreddamento del sole" (Ivi, nota di R. L. a pag. 506).

In realtà, da questo punto di vista, il discorso della Luxemburg è ineccepibile. Si legga ad esempio quanto esprime nell'Anticritica a pag. 585 della citata ediz.: il delineare una traiettoria storicamente determinata è un compito fondamentale della nostra teoria, è una ineludibile necessità di rigore scientifico. Come sempre, però, questa è una descrizione della tendenza, un prevedere un punto di approdo della "evoluzione storica": il giungere materialmente ad esso è tanto meno necessario, quanto più il proletariato rivoluzionario è in grado di intervenire, sottraendosi al "cieco gioco delle forze", ovvero alla pressione materiale passivamente subita.

Le reazioni alla Accumulazione del capitale

Le repliche alla Luxemburg sulla stampa ufficiale socialdemocratica furono di critica e di rigetto: se Anton Pannakoek contesta il preteso fatalismo del "crollo" nella concezione di Rosa Luxemburg, altri ne contestano la "novità" rispetto alla linea ufficiale del movimento socialista. Per Pannakoek, nella Accumulaxione del capitalesarebbe completamente trascurata la dialettica che dall'oggettivo svolgersi dei fattori economici porta all'azione soggettiva del proletariato, sola vera possibilità di abbattimento del capitalismo. Decisamente più triviali e trascurabili le altre critiche apparse sulla stampa del partito tedesco, a cominciare da quelle di Eckstein. Ad essi la Luxemburg risponderà con l'"Anticritica" che, seppur scritta nel 1916-17, uscirà a stampa solo due anni dopo la sua morte: fu questa, probabilmente, l'opera più compiuta e brillante di Rosa, in cui le sue tesi sono ribadite e sostenute con maggiore vigore e lucidità.

Un posto a parte nel coro delle critiche occupa l'articolo di Otto Bauer sul Die Neue Zeit di Kautsky. In esso, Bauer si sforza di individuare gli errori della Luxemburg e di mostrare la validità degli schemi di Marx, col fine di negare qualunque traiettoria catastrofica al procedere oggettivo del modo di produzione capitalistico.

Secondo Bauer la produzione capitalistica, al di là della volontà della classe borghese, risponde oggettivamente in qualche modo al crescere delle bocche da sfamare. L'aumento della popolazione diviene così un fattore non trascurabile nella riproduzione allargata.

Secondo Bauer, l'errore della Luxemburg consiste nell'avere considerato il processo di accumulazione come svolgentesi a salti discreti, di anno in anno: solo così è possibile non trovare domanda solvibile di un'accresciuta produzione di merci.

"La capacità di consumo degli operai cresce proprio alla stessa velocità con cui aumenta il loro numero. Altrettanto velocemente cresce la capacità di consumo dei capitalisti, poiché col numero degli operai cresce anche la massa del plusvalore. La capacità di consumo dell'intera società cresce quindi alla stessa velocità del valore prodotto. L'accumulazione non cambia minimamente questo fatto; essa significa soltanto che vengono richiesti meno beni di consumo e più strumenti di produzione di quanti ne vengano richiesti nella riproduzione semplice. L'allargamento del campo produttivo, che conosce un presupposto dell'accumulazione, è dato qui dalla crescita della popolazione" (O. Bauer, Die accumulation des Kapitals, su Die Neue Zeit).

Alla luce di quanto rapidamente riassunto sopra, Bauer crede di individuare una "regola aurea" per un armonico svolgersi della riproduzione allargata: questa "condizione di equilibrio" consisterebbe nella crescita del capitale variabile, di ciclo in ciclo, nella stessa proporzione della popolazione complessiva. Sotto questa ipotesi (crescita di entrambi del 5% per ogni ciclo), Bauer riprende gli schemi di Marx, dimostrando che essi reggono per tre cicli successivi.

Nei periodi di crisi, con sotto-accumulazione e con popolazione che cresce più di quanto cresca v, si registra un aumento del saggio di plusvalore che consentirà, subito dopo, un'accelerata crescita della massa dei salari ed il riequilibrarsi del rapporto tra v e la popolazione. Un meccanismo analogo ed opposto agirà invece nei periodi di sovra-accumulazione

"La prosperità è sovraccumulazione. Questa sopprime se stessa nella crisi. La depressione che poi ne segue è un'epoca di sottoaccumulazione. Questa viene ad essere abolita per il fatto che la depressione genera da se stessa le condizioni del ritorno della prosperità. Il periodico ripresentarsi della prosperità, della crisi e della depressione è l'espressione empirica del fatto che il meccanismo del modo di produzione capitalistico abolisce automaticamente sovraccumulazione e sottoaccumulazione e che l'accumulazione del capitale s'adatta sempre di nuovo alla crescita della popolazione" (Ivi).

Il modo di produzione capitalistici diviene così un sistema autoregolato, fra spinte di sotto- e sovra-accumulazione e Bauer sembra così approdare con la teoria alla dimostrazione di quanto Bernstein aveva sostenuto venticinque anni prima. Lo schema di Bauer si configura esattamente come la sinusoide dello schema "riformista" che la Sinistra delinea in Il rovesciamento della prassi.

E' da notare come, nel 1929, Grossmann sviluppasse gli stessi schemi di Bauer, giungendo a conclusioni opposte: il sistema reggeva, è vero, per tre cicli, ma dopo trentaquattro cicli si sarebbe invece verificata la catastrofe dell'azzeramento del plusvalore.

Ma non deve essere questa la sostanza della doverosa critica alla visione di Bauer. La sostanza deve stare nella critica teorica al metodo da lui usato, e fu già individuata brillantemente dalla Luxemburg. L' Anticritica replica con decisione a Bauer: oltre a negare che i propri cicli siano annuali, come Bauer sosteneva, Rosa Luxemburg coglie il nocciolo del procedimento da lui adoperato: considerando la dinamica della popolazione come variabile indipendente, le cui variazioni prescindono dalla dinamica del salario, si torna a Malthus ed alle sue teorie. La conclusione suddetta non è trascurabile e ci riporta precisamente al filone che la Sinistra ha sviluppato, ad esempio, inVulcano della produzione: è Malthus, ideologo della difesa delle classi parassite che vivono di rendita, il padre di tutte le teorie del "walfare state" e del benessere keynesiano. Questo interessante spunto di approfondimento lo rimandiamo, comunque, alle conclusioni che delineeremo.

Rudolf Hilferding e Il capitale finanziario

Trattiamo ora Hilferding, benché la sua opera più importante sia uscita tre anni prima dell'Accumulazione della Luxemburg: infatti Il capitale finanziario occupa un posto a sé stante nell'ambito della discussione teorica di quegli anni, soprattutto per l'influenza che esercitò su Lenin e Bucharin.

Secondo Hilferding, gli schemi di Marx dimostrano che, quando si sia prodotto nelle giuste proporzioni, non vi sono crisi da sottoconsumo. Dal punto di vista della circolazione, quindi, non esiste un limite teorico alla accumulazione, a patto che siano rispettati certi rapporti tra le sfere di produzione.

Pare quindi di poter avvicinare Il capitale finanziario alla "sproporzionalità" di Tugan e di Bulgakov, e per certi versi se ne riconosce un'analoga matrice: impietosamente, ad esempio, Rosdolskij assimila la sua posizione a quella di Ricardo e Say. Hilferding, però, non è un mero teorico dell'equilibrio, almeno in quest'epoca (assai diverso sarà, come Kautsky d'altronde, nel 1926-27, ormai praticamente approdato al riformismo socialdemocratico).

In realtà, nel Capitale finanziario Hilferding vede operare la caduta tendenziale del saggio di profitto e individua in questa la causa del ristagno degli investimenti e del peggiorare delle condizioni di valorizzazione; il sottoconsumo viene così a svolgere il ruolo di una delle condizioni della crisi, ma non di causa efficiente.

Assai importanti sono gli ultimi capitoli del testo: in essi, oggetto d'esame sono i più recenti sviluppi del modo di produzione capitalistico che tendevano ad attenuare la virulenza delle crisi economiche; pur confermano il ruolo svolto dai cartelli e dal credito nell'addolcimento degli sbalzi nell'accumulazione, Hilferding ribadisce, contro Bernstein, l'impossibilità di un "controllo" che possa eliminare l'anarchia della produzione ed il crescere delle politiche imperialiste.

Dunque, pur ammettendo la teorica possibilità dell'equilibrio qualora sia rispettate le giuste proporzioni, nel funzionamento reale del capitalismo Hilferding sottolinea anarchia della produzione e scontro imperialistico fra le potenze: ma è tale peggioramento delle contraddizioni che spinge i proletari all'azione e che determina lo scontro di classe e la dittatura proletaria. Se di "crollo" del capitalismo si può parlare, in qualche modo saranno le spinte "politiche" alla rivoluzione a determinarlo, sotto l'influenza di fattori economici che agiscono continuamente ma con un gioco dialettico di spinte e controspinte.

"Chi identifica tout court la crisi con la sovrapproduzione di merci, trascura proprio il fatto più importante, e cioè il carattere capitalistico della produzione. I prodotti non sono unicamente merci, ma anche prodotti di capitale, e la sovrapproduzione che accompagna la crisi non è semplice sovrapproduzione di merci, ma sovrapproduzione di capitale. Ciò peraltro significa soltanto che la quantità del capitale che viene impegnato nella produzione è tale da far entrare in contraddizione le condizioni dl sfruttamento con le condizioni di realizzazione del capitale stesso, di modo che lo smercio dei prodotti non produce più il profitto indispensabile per un'ulteriore espansione e per un'ulteriore accumulazione. La vendita delle merci si blocca perché cessa l'espansione produttiva. Chi identifica tout court la crisi capitalistica con la sovrapproduzione di merci, è destinato perciò ad incepparsi sin dall'inizio della sua analisi. Che non si possa trattare di semplice sovrapproduzione di merci è già evidente dal fatto che poco tempo dopo la crisi il mercato si mostra nuovamente in grado di assorbire una quantità ben maggiore di merci. Ogni successivo periodo di prosperità tocca una punta più alta del precedente e la differenza di livello è così grande da non poter essere spiegata né con un considerevole aumento della popolazione né con l'aumento del reddito a disposizione del consumo. In effetti entrano in gioco anche fattori che con la semplice capacità di assorbimento del consumo nulla hanno a che fare. La presenza dei cartelli non attenua, anzi aggrava le perturbazioni che intervengono nella determinazione dei prezzi e che, in definitiva, sono da ricondursi allo squilibrio e quindi alla contraddizione tra condizioni di valorizzazione e condizioni di realizzazione del capitale" (R. Hilferding, Il capitale finanziario citato da L. Colletti in Il marxismo e il crollo del capitalismo, Laterza, 1975, pag.280).

"L'anarchia della produzione non può essere eliminata dalla semplice riduzione del numero degli elementi produttori autonomi, giacché il fatto che ogni unità produttiva aumenti simultaneamente il suo potere rafforza, al contrario, l'intensità dell'anarchia: la quale non può certo essere eliminata in dati settori. Produzione regolata e produzione anarchica non sono opposte in senso quantitativo come se, inserendo gradualmente nella produzione un numero sempre maggiore di elementi di "regolazione", potesse sorgere gradualmente dall'anarchia l'organizzazione consapevole: un tale rovesciamento può verificarsi solo in modo subitaneo, sottoponendo l'intera produzione ad un consapevole controllo. A chi tocchi, poi, questo controllo, e a chi invece il compito della produzione, è questione di rapporti di forza" (Ivi, pag. 282).

"In ogni modo i cartelli non eliminano affatto gli effetti della crisi: tutt'al più, essi riescono a modificarli, in quanto possono rovesciare il peso della crisi sulle industrie indipendenti. La differenza tra il saggio di profitto delle industrie monopolistiche e quello delle industrie indipendenti, che, in media, è tanto più grande quanto più saldo è il cartello e quanto più sicuro il suo monopolio, si riduce durante la prosperità ed aumenta durante la depressione. All'inizio della crisi e della depressione il cartello può anche conservare inalterato il proprio profitto più a lungo delle industrie indipendenti, inasprendo quindi per queste ultime gli effetti della crisi. Questo fatto ha un'importanza tutta particolare, poiché è proprio durante la crisi e nel periodo immediatamente successivo che la situazione degli industriali è più precaria, e più minacciata la loro indipendenza. La politica del cartello impedisce che le industrie indipendenti possano venir aiutate dalla riduzione dei prezzi della materia prima e questa circostanza aggrava la situazione di quelle industrie e ne accelera il movimento verso la concentrazione" (Ivi, pag. 284).

Il complesso di analisi del Capitale finanziario lo troveremo sviluppato ed integrato da Bucharin nella sua critica al "luxemburghismo"; è da ricordare inoltre il peso e l'importanza che ebbero su Lenin e sul suo Imperialismo.

Bucharin

Il testo di N: Bucharin L'imperialismo e l'accumulazione del capitale venne pubblicato tra il 1924 e 1l 1925: benché sei anni fossero trascorsi dalla morte di Rosa Luxemburg, l'obiettivo polemico principale dell'opera è proprio il testo di quest'ultima sull'accumulazione.

Bucharin scriveva sotto una spinta precisa, ovvero la lotta alle tendenze "luxemburghiane" nel partito tedesco e nell'Internazionale. E se nello scontro con le tendenze di sinistra Ruth Fischer poteva limitarsi a paragonare il pensiero della Luxemburg al virus della sifilide, ben altro obiettivo si poneva un teorico come Bucharin: liquidare, una volta per tutte, l'interpretazione di Rosa della dinamica del capitalismo.

Bucharin rimprovera al testo luxemburghiano alcuni vizi di base: il guardare all'accumulazione come a un fenomeno essenzialmente statico, senza coglierne il movimento continuo e contraddittorio. In sostanza, Luxemburg avrebbe compreso di Marx solo la riproduzione semplice e non quella allargata, estendendo poi a tutta la sua opera questa incomprensione.

L'imperialismo di Bucharin accetta il punto fondamentale di Tugan Baranovskij, ovvero che la principale causa della crisi è la sproporzionalità fra sfere della produzione; tuttavia, brillantemente, da Tugan si distacca, rifiutando un modello nel quale la produzione nella I sezione del Capitale possa crescere a piacimento, senza rapporto con la II sezione:

"Abbiamo già accennato sopra al fatto che l'inevitabile conseguenza dell'introduzione della macchina nella produzione "di un determinato prodotto" sarà l'aumento della massa di questo "determinato prodotto", ma di questo Tugan-Baranovskij non vuole prendere atto. A questo punto dobbiamo menzionare anche un altro momento. Il nostro critico di Marx ammette che la domanda di combustibile, lubrificanti ecc. aumenta. Ma noi chiediamo al signor Tugan-Baranovskij: A cosa va ricondotto questo aumento della quantità di combustibile, lubrificanti ecc.? Tutto questo ben di Dio non è certo caduto dal cielo! Se non è caduto dal cielo, esso presuppone con tutta evidenza un ampliamento della produzione in questo ramo (di conseguenza, poi, anche in altri), dunque lavoratori addizionali, ossia una domanda addizionale di mezzi di consumo, compreso un "determinato prodotto", nella misura in cui dietro questo "determinato prodotto" si nascondeva qualcosa che rientrava tra i mezzi di consumo della classe operaia. Cosa otteniamo allora? Qualcosa di completamente diverso da ciò che ha ottenuto Tugan-Baranovskij. Un'analisi accurata ci ha rivelato che 1) l'aumento di mezzi di produzione genera un aumento della massa dei mezzi di consumo, 2) questo aumento genera simultaneamente una nuova domanda di questi mezzi di consumo e, di conseguenza, 3) a un determinato livello della produzione di mezzi di produzione corrisponde un determinato livello della produzione di mezzi di consumo; in altri termini, il mercato dei mezzi di produzione è connesso con il mercato dei mezzi di consumo, e alla fine otteniamo esattamente il contrario di ciò che il signor Tugan-Baranovskij ha avuto la sfacciataggine di presentare come la più sorprendente scoperta della "nuova" economia politica. Dal punto di vista della prima impostazione del problema dell'analisi del mercato cui abbiamo accennato, ciò che accade durante le successive rotazioni del capitale in differenti rami d'industria non ha alcuna importanza. Nel migliore dei casi vengono analizzate - e per di più molto unilateralmente - solo le rotazioni del capitale che seguono immediatamente la situazione data, col che ci si priva quindi della possibilità di comprendere il "senso oggettivo" del processo di produzione" (N. Bucharin. L'imperialismo e l'accumulazione del capitale, Laterza, 1972, pagg. 79-81).

Egli si sforza quindi di sviluppare matematicamente gli schemi di riproduzione, giungendo ad una formula che esprimerebbe i giusti rapporti proporzionali fra plusvalore accumulato e capitale variabile delle due sezioni: rispettando tale equazione, l'accumulazione potrebbe procedere a piacere e perpetuamente. Inoltre approfondisce l'analisi delle differenze nell'intendere la "sproporzionalità" fra marxisti e "apostoli dell'armonia", rigettando ogni legame con le conclusioni di Tugan così come il potenziale legame con "padri nobili" quali Ricardo e Say. Subito dopo, Bucharin esamina la possibilità o meno dell'accumulazione, calandola in tre società precise: il capitalismo classico, il capitalismo di stato e la società socialista, giungendo alla conclusione, a nostro parere assai sospetta, che in un capitalismo di stato integrale non vi sarebbero né crisi né sovrapproduzione, e che quindi questo si differenzierebbe dal socialismo solo per una più lenta crescita della produzione, imputabile al consumo improduttivo dei capitalisti.

"Se enucleiamo i punti fondamentali che ci interessano, otteniamo la seguente disposizione teorica:

I. Gli apostoli dell'armonia (Say e compagni) e gli apologeti. Una sovrapproduzione generale non è mai data.

II. I sismondisti, i populisti, Rosa Luxemburg. Una sovrapproduzione generale deve essere data sempre.

III. I marxisti ortodossi. Una sovrapproduzione generale talvolta è inevitabile (crisi periodiche).

O, in un altro contesto:

I. Tugan-Baranovskij, Hilferding e altri. Le crisi risultano dalla disproporzionalità tra i singoli rami della produzione. In questo il consumo non svolge alcun ruolo.

II. Marx, Lenin e i marxisti ortodossi. Le crisi risultano dalla disproporzionalità della produzione sociale. Il momento del consumo costituisce però un elemento di questa disproporzionalità. Ora si tratta di analizzare più in profondità queste idee fondamentali. Abbiamo già addotto un argomento di Rosa Luxemburg contro gli schemi marxiani, l'argomento che concerne il nesso tra produzione e consumo. Rosa Luxemburg afferma che lo schema marxiano "ammette le crisi (!), ma esclusivamente per mancanza di proporzionalità della produzione, ossia (il corsivo è nostro - N.B.) perché manca il controllo sociale sul processo di produzione". Immediatamente dopo essa prosegue: "Esclude invece (il corsivo è nostro - N.B.) il profondo, fondamentale contrasto tra capacità produttiva e capacità di consumo della società capitalistica..." (vedi sopra). Non è difficile comprendere che la compagna Rosa Luxemburg contrappone il controllo sulla produzione al rapporto tra produzione e consumo, e quindi anche la disproporzionalità della produzione alla disproporzionalità tra produzione e consumo. Ma proprio questa concezione diviene per lei una fonte di innumerevoli errori e di estrema confusione. Immaginiamoci per un istante tre formazioni socioeconomiche: l'ordinamento sociale del capitalismo collettivo (capitalismo di Stato), in cui la classe capitalistica è unificata in un trust unitario, per cui abbiamo a che fare con una economia organizzata, ma che in pari tempo è antagonistica dal punto di vista delle classi; poi la società capitalistica "classica" analizzata da Marx, infine la società socialista. Esaminiamo ora: 1) il modo in cui procede la riproduzione allargata, ossia i momenti che rendono possibile un'"accumulazione". (Poniamo tra virgolette la parola accumulazione, in quanto il concetto di accumulazione presuppone per sua natura esclusivamente dei rapporti capitalistici.) Come, dove e quando possono verificarsi delle crisi.

1. Il capitalismo di Stato. E' possibile qui un'accumulazione? Naturalmente. Aumenta il capitale costante, in quanto aumenta il consumo dei capitalisti. Sorgono di continuo nuovi rami della produzione che corrispondono a nuovi bisogni. Aumenta il consumo degli operai, anche se gli sono posti determinati limiti. Nonostante questo "sottoconsumo" delle masse non si produce alcuna crisi, in quanto sono date sin dal principio la domanda reciproca di tutti i rami della produzione, oltre che la domanda dei consumatori, sia dei capitalisti che degli operai. (Invece di un'"anarchia della produzione" - un piano che dal punto di vista del capitale è razionale.) Se si sono "sbagliati i conti" riguardo ai mezzi di produzione, il sovrappiù finisce tra le scorte, e nel periodo di produzione seguente si effettua la rettifica corrispondente. Se invece si sono "sbagliati i conti" per i mezzi di consumo dei lavoratori, questo sovrappiù viene "dato in pasto" agli operai mediante una distribuzione gratuita, oppure la corrispondente porzione di prodotto viene distrutta. Anche nel caso di un errore di calcolo nella produzione di articoli di lusso, la "soluzione" è chiara. Di conseguenza qui non può sorgere alcun tipo di crisi di sovrapproduzione. In generale il corso della produzione si svolge senza attriti. Lo stimolo alla produzione e al piano di produzione è dato dal consumo dei capitalisti. Di conseguenza qui non si ha uno sviluppo particolarmente rapido della produzione (numero ristretto di capitalisti).

2. Il capitalismo "classico". Abbiamo già visto nei precedenti capitoli com'è possibile l'accumulazione. In antitesi con il caso precedente, qui si ha una "anarchia della produzione", una connessione monetaria attraverso il mercato, la forma del salario ecc. Se assumiamo una "media ideale", la soluzione del compito è analoga a quella del primo caso. (Aumento del capitale costante, aumento - in valori - del consumo dei capitalisti e dei lavoratori.) A differenza del primo caso, qui però la "media ideale" è soltanto una certa tendenza che si manifesta nello svolgimento contraddittorio e cieco dei processi economici. D'altra parte la forma della compera o della vendita e la separazione della vendita dalla compera (in antitesi con lo scambio di prodotto con prodotto), è essa stessa una condizione della perturbazione della riproduzione sociale. Da ciò consegue:

Primo. Empiricamente non può esserci proporzionalità tra i rami di produzione. Essa si afferma solo come tendenza, cioè attraverso continue perturbazioni della proporzionalità.

Secondo. Queste perturbazioni generano inevitabilmente delle difficoltà nel corso della riproduzione sociale, poiché la connessione tra i rami di produzione è assicurata mediante il denaro e il mercato.

Terzo. E' possibile una disproporzionalità tra produzione totale e consumo sociale, in seguito alla disproporzionalità tra la produzione di mezzi di consumo e la domanda effettiva di mezzi di consumo. (Qui la domanda non è data a priori come domanda corrispondente a un piano; l'intero rapporto risulta soltanto post factum.)

Quarto. In seguito alla connessione tra denaro e mercato, questa disproporzionalità genera inevitabilmente una perturbazione nel corso della riproduzione sociale. (Qui il sovrappiù non può essere "dato in pasto" ai lavoratori come nel primo caso.)

Quinto. Qui il capitalismo favorisce costantemente la tendenza da un lato a sviluppare rapidamente la produzione (esistenza della concorrenza che manca nel primo caso), dall'altro a comprimere il salario (pressione dell'esercito di riserva). In altri termini: il capitalismo ha la tendenza a spingere la produzione oltre i limiti del consumo. Ma ciò non significa affatto che debba esserci costantemente un eccesso, come ritengono i populisti e la compagna Rosa Luxemburg. Una disproporzionalità di questo tiposopravviene infatti soltanto quando ha avuto luogo una sovrapproduzione di mezzi di produzione che verso l'esterno si è manifestata come sovrapproduzione di mezzi di consumo. Finché non è avvenuto questo, tutto può procedere in modo relativamente piano, in quanto l'ondata di "sovrappiù" dell'espansione deve attraversare gli anelli intermedi della produzione nei quali non può ancora prodursi un conflitto con il consumo personale. D'altro canto ciò non significa affatto che un'accumulazione è impossibile. Giacché il problema non è che si è semplicemente prodotto di più, ma che si è prodotto di più non nella proporzione adeguata. In contrasto con quanto afferma Rosa Luxemburg, la realizzazione del plusvalore non è affatto impossibile. Ma essa diviene impossibile in determinate condizioni, e allora abbiamo a che fare con una crisi. "Dunque riproduzione su scala troppo larga, il che equivale a sovrapproduzione pura e semplice". Così stanno le cose nella società del capitalismo "classico". Rivolgiamoci ora alla società socialista.

3. La società socialista. Se prendiamo il "tipo puro" di una società socialista, non ci saranno crisi, ma la quota dei mezzi di produzione aumenterà ancor più rapidamente che sotto il dominio capitalistico, in quanto qui la macchina viene adottata anche in situazioni nelle quali sotto il capitalismo è irrilevante.

Ma proprio per questo in pari tempo i bisogni delle larghe masse dell'intera società vengono soddisfatti molto meglio che nei casi delle formazioni socio-economiche menzionati in precedenza" (Ivi, pagg. 100-105).

Anche rispetto all'interpretazione dell'imperialismo, secondo Bucharin il testo della Luxemburg rivelava un malinteso basilare: il capitalismo dell'epoca imperialista non lotta per la spartizione semplicemente delle aree non capitalistiche, come mostrava l' Accumulazione del capitale; si trattava invece di una lotta per la spartizione del mondo intero e quindi anche, e soprattutto, di paesi già immessi pienamente nel girone della produzione borghese.

Bucharin sottolinea, al pari del suo bersaglio polemico, la inevitabilità del superamento del capitalismo, sotto la pressione delle sue contraddizioni, sempre più laceranti. Ma secondo lui non si tratta di un crollo per mancata realizzazione del plusvalore; si tratta, invece, di un periodico presentarsi di contraddizioni che vengono superate per ripresentarsi, subito dopo, ingigantite ed ancora più esplosive. La rivoluzione è un "crollo", ma non avviene a causa di un "deperimento" del capitalismo, bensì come conseguenza della sua inarrestabile crescita, foriera di tempeste via via più virulente.

"Anche questa successione di conclusioni è logicamente insostenibile. Lo è, perché Rosa Luxemburg non comprende il carattere dialettico della totalità sociale e delle leggi che ne governano il movimento.

La società capitalistica è una "unità di opposti". Il processo di movimento della società capitalistica è un processo di continua riproduzione delle contraddizioni capitalistiche. Il processo di riproduzione allargata di queste contraddizioni. Ma se è così, allora è chiaro che queste contraddizioni finiranno necessariamente col far saltare in aria l'intero sistema capitalistico. Siamo giunti a quello che è il limite del capitalismo. Quale sia il grado di accentuazione delle contraddizioni necessario per far saltare questo sistema, è un problema a sé. Abbiamo tentato di fornire una analisi di questo problema in un altro lavoro. La risposta va ricercata nelle condizioni della riproduzione della forza-lavoro. Se l'esplosione delle contraddizioni capitalistiche ha provocato una distruzione dell'economia e una riduzione delle forze produttive, e se in conseguenza di ciò, a partire da un determinato momento, il funzionamento della forza lavoro è divenuto impossibile, l'apparato sociale di produzione esce dai cardini, ma tra le classi si inseriscono le barricate.

Anche questa spiegazione generale, necessariamente schematica, "puramente teorica" e quindi condizionata dal crollo del capitalismo, presuppone un limite che in un certo senso è oggettivo. Il limite consiste in un determinato grado di tensione delle contraddizioni capitalistiche.

(...) Infatti: la possibilità di una realizzazione significa forse uno sviluppo "senza inciampi" delle forze produttive? Niente affatto. Nel quarto capitolo abbiamo visto quale confusione Rosa Luxemburg ha fatto su questo punto. Crescita "senza inciampi" per lei significa crescita senza contraddizioni. Ma anche nel "capitalismo puro" l'intero sviluppo ha luogo in modo contraddittorio. Se non esiste una sovrapproduzione continua, ci sono però le crisi periodiche. Se non esiste una soluzione definitiva delle contraddizioni, c'è però il loro temporaneo rinvio e quindi una "soluzione" limitata. Se non c'è un'impossibilità permanente di esistenza del capitalismo, c'è però una riproduzione allargata delle contraddizioni capitalistiche. E così via.

In altri termini: Le "perturbazioni" non sono affatto escluse ma, al contrario, sono "immanenti" al capitalismo. Vengono periodicamente "eliminate", ma soltanto per farsi nuovamente valere, periodicamente, con accresciuta intensità. La loro dimensione maggiorata e la loro crescente intensità portano inevitabilmente al crollo del dominio capitalistico" (Ivi, pagg. 155-157).

Come si vede, lo sforzo di Bucharin è notevole, e potenti sono molte delle sue pagine, per quanto talvolta fin troppo acide nella polemica con la sua grande avversaria teorica. Sembra confluire in lui la parte più rilevante di tutto il filone della teoria della sproporzionalità, dalle lotte di Lenin e dei "marxisti legali" contro il populismo fino alle pagine di Hilferding e degli altri austro-marxisti. Sicuramente i quattro anni di attività di Bucharin a Vienna non trascorsero senza un'eco, nella sua formazione, di quel potente dibattito all'interno della socialdemocrazia internazionale, ed altrettanto dicasi per la sua collaborazione a Die Neue Zeit.

Come abbiamo accennato, è nella descrizione dei "tre modelli di società" che le reminiscenze di Tugan e di Bauer suggeriscono a Bucharin le pagine più discutibili: tratteggiando analogie e differenze fra capitalismo classico e capitalismo di stato sembra quasi che l'eco del dibattito nella socialdemocrazia di dieci o quindici anni prima già prenda a vestirsi di abiti nuovi, indumenti moderni che si chiameranno in seguito "accumulazione socialista", mito della pianificazione in Russia, lotta del "socialismo" per battere il "capitalismo" sul terreno della quantità di produzione.

Se facciamo questo accostamento, non è per ingenerosità verso Bucharin, al quale vanno riconosciute la coerenza e la sincerità rivoluzionaria che lo accompagnarono fino al plotone d'esecuzione staliniano. Si tratta invece di comprendere al potenziale pericolosità di certe assolutizzazioni a-dialettiche e di certe unilateralità. Il testo buchariniano ne è un'ulteriore conferma, allineando nelle stesse pagine queste dubbie riflessioni, così come le più convincenti conclusioni sull'imperialismo e sulla rivoluzione.

H. Grossmann

La pubblicazione nel 1929 di La legge dell'accumulazione e il crollo del capitalismo chiude in qualche modo un'epoca e si situa come ultimo significativo capitolo della discussione sulla dinamica dell'accumulazione e sul suo potenziale sbocco in una crisi catastrofica del modo di produzione capitalistico.

All'epoca in cui fu scritto, l'isterilimento del dibattito teorico era visibile. Nel movimento operaio tedesco, principale sede della storica discussione, la teoria prevalente è ormai quella della stabilizzazione del capitalismo; Kautsky e Hilferding, in quegli anni tra il 1925 e il 1927, affermano che la socializzazione del sistema capitalistico è ormai completata nel settore della produzione: trust, cartelli, credito hanno operato una eliminazione dell'antagonismo di classe, che sopravviverebbe solo più nella distribuzione. Rimaneva, secondo loro, un ultimo passo da compiere: trasformare, attraverso il controllo dello Stato democraticamente conquistato, l'economia diretta dai capitalisti in economia consapevole. diretta dallo Stato stesso.

In questa atmosfera, ormai conquistata alla logica bernsteiniana della stabilizzazione del capitalismo (si noti che Hilferding dice queste cose solo due anni prima del fatidico 1929), poche voci di dissenso rimangono: quella luxemburghiana di Sternberg e quella, appunto, di Heinrich Grossmann.

Nel suo testo, Grossmann parte da un punto di vista opposto rispetto alla ripetizione delle tesi di Rosa operato da Sternberg: non negando gli schemi di Marx, bensì proprio nel loro sviluppo, va cercata la legge dell'inevitabile crollo. A titolo d'esempio, e a confutazione di tutte le ipotesi di stabilizzazione del capitalismo, Grossmann riprende gli schemi di Bauer, sotto le sue stesse ipotesi: se per tre anni l'accumulazione procede, lo svilupparsi delle cifre mostra che a partire dal ventesimo ciclo i consumi dei capitalisti devono diminuire e che al trentaquattresimo ciclo non c'è più quota di plusvalore destinabile al consumo dei capitalisti.

Qualcuno ha ironizzato sugli schemi di Grossmann, attribuendogli una teoria del crollo da sottoconsumo borghese, anziché proletario. Ma non è contenuto in quegli schemi il nocciolo della elaborazione teorica di Grossmann. Più in generale, la sua tesi consiste in un tentativo di poggiare una teoria dell'inevitabilità del crollo sulla caduta del saggio di profitto. Seguiamo, per grandi linee, lo sviluppo degli argomenti nel testo del 1929.

Al centro della sua analisi sta la dinamica del salario: contro la semplificazione delle questioni operate da Bernstein, da Kautsky e dallo stesso Bucharin, Grossmann reimposta la questione tornando all'analisi di Marx dei fattori che influenzano il movimento del salario: crescente produttività del lavoro che determina una sua diminuzione, crescenti qualificazione ed intensità del lavoro che agiscono in direzione opposta. E' spiegabile quindi che, per tutta un'epoca storica, si sia assistito alla crescita dei salari. Ma ciò non può essere visto assolutamente come un movimento irreversibile: infatti, sostiene Grossmann, occorre considerare anche un ulteriore fattore che influenza la dinamica dei salari in misura decisiva: l'accumulazione del capitale.

Da un certo momento del ciclo vitale capitalistico in avanti, l'accumulazione, attraverso la sostituzione di macchine a uomini e aumentando la concorrenza fra operai, non può che operare una diminuzione dei salari storicamente inarrestabile, che si configura come vera e propria crescente pauperizzazione.

"Anche se ai suoi livelli più bassi l'accumulazione del capitale include una massa sempre crescente di manodopera nel processo di produzione e quindi contribuisce all'aumento del livello salariale, a partire da un certo livello dell'accumulazione deve aver luogo il processo inverso di liberazione di manodopera e quindi prodursi necessariamente una diminuzione dei salari. Lungi dal contraddirsi, la tendenza all'aumento del salario reale e la tendenza alla pauperizzazione rispecchiano livelli diversi dell'accumulazione del capitale. Qui abbiamo anche la spiegazione del fatto menzionato precedentemente, e cioè del perché la teoria marxiana della pauperizzazione viene trattata non in connessione con l'analisi dei restanti fattori che influiscono sulla configurazione del salario, ma è invece soltanto nel capitolo sulle tendenze storichedell'accumulazione del capitale" (H. Grossmann, La legge dell'accumulazione e il crollo del capitalismo, citato in L. Colletti, op. cit., pag. 359).

Per Grossmann, la tendenza alla pauperizzazione sarebbe la vera traiettoria del capitalismo verso il crollo: per rallentare la caduta del saggio di profitto, la borghesia può agire solo comprimendo i salari. Il testo riporta un grafico dell'andamento dei salari che è una parabola asimmetrica: lenta crescita per tutta una fase storica, rapido declinare nella fase successiva. Ma i salari non possono essere compressi oltre certi limiti: dunque, la catastrofe da caduta del saggio di profitto è comunque una tendenza irreversibile.

"Se si tiene presente questo fatto, lo schema di riproduzione di Bauer rispecchia un moto ascendente del salario reale con il progredire della produzione capitalistica, nonostante la premessa fatta che non sussista un esercito di riserva e che non abbia luogo uno spostamento nel rapporto tra domanda e offerta di lavoro. Tale aumento del salario reale non può quindi essere il risultato dello spostamento dei rapporti di forza sul mercato del lavoro, ed è piuttosto - premesso che la merce forza-lavoro venga venduta al suo pieno vaIore - l'espressione del fatto che in seguito all'intensificazione del lavoro, per la riproduzione della forza-lavoro è necessaria una massa crescente di mezzi di sussistenza e quindi un salario reale crescente! In questo senso il decorso dello sviluppo salariale nello schema corrisponde all'effettivo sviluppo del livello salariale in tutti gli Stati capitalistici a partire dalla metà del XIX secolo. La teoria marxiana del salario non soltanto non è in contraddizione con l'esperienza empirica ma, al contrario, proprio essa è in grado di spiegare questa esperienza in accordo con la logica del sistema complessivo, cioè sulla base della sola legge marxiana del valore, senza ricorrere all'ausilio di un qualunque fattore concorrenziale.

In pari tempo uno sguardo alla tabella II ci convince che questa tendenza ascendente del salario reale non può perpetuarsi illimitatamente nel tempo, ma che è soltanto di durata limitata, che in altri termini corrisponde soltanto a una determinata fase di sviluppo, alla fase iniziale dell'accumulazione capitalistica (nel nostro schema essa si verifica soltanto nei primi 34 anni). A un livello più progredito di sviluppo dell'accumuIazione, a partire da un punto esattamente determinato (nel nostro schema a partire dal 35° anno) deve necessariamente prodursi una svolta nel movimento del salario. A partire da questo punto la valorizzazione, e di conseguenza anche il meccanismo capitalistico può venire preservata soltanto se viene compresso il salario. A partire da questo punto, nonostante il loro iniziale moto ascendente, i salari devono periodicamente cadere in modo durevole.

Ne consegue quindi che nella misura in cui il capitale accumula, la situazione dell'operaio, quale che sia la sua retribuzione, indipendentemente dal fatto che essa sia elevata o bassa, deve peggiorare.

Questa è la legge assoluta, universale della accumulazione capitalistica.

Graficamente la curva seguente ci illustra le tendenze di sviluppo del moto salariale nel procedere dell'accumulazione capitalistica.

A partire da un determinato punto, il moto ascendente del salario reale cessa, e dopo un periodo di stagnazione ha inizio un rapido moto discendente. Ma poiché in seguito alla crescente intensità del lavoro, nel procedere del modo di produzione capitalistico per la riproduzione della forza-lavoro è necessaria una quantità sempre crescente di mezzi di sussistenza, già la stagnazione del moto ascendente del salario (e ancor più l'inizio di un moto discendente) significa una diminuzione del salario al di sotto del valore della forza-lavoro, e quindi l'impossibilità di riprodurre appieno la forza-lavoro. Ma ciò equivale al peggioramento della situazione della classe operaia, all'aumento non soltanto della sua miseria sociale, ma anche della sua miseria fisica. Il depauperamento della classe operaia non è quindi in alcun caso un fenomeno che appartiene esclusivamente al passato del movimento operaio, secondo l'interpretazione che Kautsky e Rosa Luxemburg danno della teoria marxiana del salario. Il depauperamento non si manifesta soltanto nel periodo del capitalismo in cui non esisteva ancora una organizzazione operaia (sindacati). Esso può e deve piuttosto essere il risultato della fase matura dell'accumulazione del capitale.

Il depauperamento è il punto conclusivo necessario dello sviluppo a cui tende inevitabilmente l'accumulazione capitalistica; sulla base del modo di produzione capitalistico nessuna organizzazione di resistenza sindacale, per quanto potente essa sia, è in grado di bloccare questa tendenza. Qui ci troviamo confrontati con il limite oggettivo dell'azione sindacale. A partire da un determinato punto dell'accumulazione, il plusvalore disponibile non è più sufficiente a continuare l'accumulazione con il livello salariale dato. O il livello salariale precedente deve venir compresso al di sotto del livello che ha avuto fino a quel momento, o invece deve bloccarsi l'accumulazione, cioè deve crollare il meccanismo capitalistico. Lo sviluppo stesso delle cose tende quindi a produrre e ad accentuare le contraddizioni interne tra capitale e lavoro, fino al punto in cui la soluzione può essere trovata soltanto attraverso la lotta tra questi due momenti" (Ivi, pagg. 360-362).

Per Grossmann, non si tratta di un meccanico prodursi della catastrofe de capitalismo: all'interno del meccanismo oggettivo, agisce la soggettività della lotta di classe ed in particolare dello scontro sul terreno del salario: il punto di rottura è modificabile, lungo la traiettoria, sulla base della dinamica fra pressione borghese e lotta di classe operaia

"In contrasto con questa concezione, dalla nostra esposizione risulta che il crollo del capitalismo, pur essendo oggettivamente necessario in base alle premesse date e benché se ne possa calcolare con precisione il momento, non avverrà necessariamente "da sé", automaticamente, nel momento previsto, per cui non è sufficiente attenderlo passivamente. Entro certi limiti il suo sopravvenire può invece venire influenzato dall'azione cosciente delle due classi prese in esame. Se infatti vengono modificati ipresupposti stessi in base ai quali ci si poteva attendere il sopraggiungere del crollo, vengono ovviamente modificati anche il decorso dell'accumulazione del capitale e la sua fine. Se in seguito all'accumulazione del capitale, a un determinato livello di essa sopravviene la carenza di valorizzazione che già conosciamo, la pressione del capitale nei confronti della classe operaia tenderà ad assumere un carattere più accentuato. Se a questo punto il capitale riuscisse a comprimere i salari e quindi ad accrescere il saggio di plusvalore (abbiamo già accennato precedentemente al fatto che una tale pressione sui salari è possibile soltanto entro determinati limiti ristretti), con ciò l'esistenza del sistema capitalistico potrebbe venir prolungata a spese della classe operaia, potrebbe venir rallentata l'accelerazione della tendenza al crollo e quindi la fine del sistema potrebbe venir rinviata in un futuro più lontano. Nel più elevato grado di sfruttamento del lavoro risiede dunque una delle valvole di sicurezza transitorie del sistema capitalistico e della sua valorizzazione. Viceversa la pressione contraria della classe operaia può compensare o addirittura sovraccompensare la pressione della classe imprenditoriale, nel caso in cui la classe operaia riuscisse a imporre con la lotta degli aumenti salariali. Ciò dovrebbe provocare una diminuzione del saggio di profitto e di conseguenza il crollo accelerato del sistema Con un saggio di profitto del 100%, come sta alla base dello schema di riproduzione di Bauer, il crollo avviene nel 35° anno. Se il saggio di profitto aumentasse oltre il 100%, il crollo dovrebbe forse prodursi solo nel 40° anno, e in caso di caduta del saggio di profitto al di sotto del 100%, dovrebbe forse prodursi già nel 20° anno. Si rivela quindi con chiarezza che l'idea di un crollo che sopravviene necessariamente per ragioni oggettive non è affatto in contraddizione con la lotta di classe, ma che piuttosto il crollo, nonostante sia oggettivamente inevitabile, viene profondamente influenzato dalle forze viventi delle classi in lotta e lascia un certo margine all'intervento attivo delle classi stesse" (Ivi, pagg. 364-365).

Come si è cercato di mostrare, l'analisi di Grossmann è sostanzialmente basata sulla caduta del saggio di profitto. Da più parti, i suoi critici hanno sottolineato i limiti dialettici del testo del 1929: Grossmann, nella sostanza, avrebbe formulato la sua elaborazione senza tener conto dell'andamento contraddittorio sottolineato da Marx nei capitoli sulle "cause antagonistiche" e su "sviluppo delle contraddizioni intrinseche" (cap. XIV e XV del III Libro del Capitale).

Un'ulteriore osservazione è formulabile sull'abnorme importanza che la lotta salariale assume nella lotta di classe: sono i suoi esiti, secondo Grossmann, a influenzare in misura primaria lo spostarsi del punto di catastrofe lungo il decorso del modo di produzione capitalistico.

Conclusione

Si è cercato fin qui di delineare lo sviluppo di una discussione che ha attraversato il movimento socialista per oltre un trentennio: tre decenni di fuoco, densi di avvenimenti, di avanzate, di rinculi, di tradimenti. Inevitabili sono i limiti che la necessità di racchiudere in poche pagine tale incandescente materiale impone a chi scrive.

Si è tentato di seguire il filo, malgrado l'artificiosità delle schematizzazioni. Si sarebbe potuto, ad esempio, tracciare una netta divisione tra due filoni: quello del sottoconsumo, che da Sismondi passa attraverso Cunow, Kautsky del 1901, i populisti russi, giungendo a Rosa Luxemburg, e l'altro filone della sproporzionalità, che partendo da Ricardo a Say include Tugan e Bulgakov, Hilferding, Bauer, Bucharin, Kautsky del 1926. Ma questa divisione, in parte realizzata per fini didattici, ha certamente un ampio margine di arbitrarietà, semplificando e schematizzando argomenti e riflessioni sicuramente più articolate e complesse.

Ovvero si sarebbe potuto operare una distinzione fra quanti giungono all'ipotesi di una teorica possibilità di indefinita accumulazione del capitale e "crollisti" che, con sfumature diverse, vedono l'ineluttabile e deterministico svolgersi dell'accumulazione verso la catastrofe.

Ma altrettanto significativo potrebbe essere cogliere spunti e stimoli che attraversano la discussione teorica trasversalmente. Ad esempio, interessante sarebbe seguire il filone del calcolo delle quantità negli schemi di riproduzione tentato da Hilferding, da Bauer, da Bucharin, da Grossmann, consapevoli di una possibile ambivalenza di sviluppo. Ci pare infatti che, mentre alcune riflessioni sono fondamentali per l'approfondimento del calcolo economico nella futura società comunista, gli stessi argomenti, in un diverso contesto, siano passibili di uno sviluppo teso ad una ricorrente quanto vana utopia borghese: la stabilizzazione del capitalismo attraverso la programmazione e la pianificazione. In tale senso si muovono non solo, in maniera esplicita, L'Imperialismo di Hobson e le affermazioni di Hilferding nel programma socialdemocratico del '27, ma anche altre riflessioni che da Tugan e Bauer muovono fino alle meno convincenti pagine di Bucharin. Il dilemma è sempre quello: in che misura può lo Stato intervenire nei meccanismi economici, influenzandoli allo scopo di rendere armonico e dolce il corso del capitalismo? Non è arbitrario intravedere, dietro alcuni aspetti della discussione che abbiamo tentato di seguire, ergersi il liberale sorriso di Keynes ed i baffoni di Stalin.

Quanto al marxismo ortodosso, la sua risposta è già stata formulata, dal Capitale in avanti: è solo sulla base della legge del valore che si può mostrare la vanità del tentativo di stabilizzare, se non nel breve periodo, il modo di produzione capitalistico. A questo proposito, rimandiamo a Vulcano della produzione.

Vogliamo concludere l'analisi della discussione sulla accumulazione e le crisi tornando alla fonte, ovvero a Marx. E' innegabile che nelle sue pagine si trovino argomenti in cui sottoconsumo e sproporzionalità vengono accentuati in misura diversa. Dunque, avrebbe ragione Tugan Baranovskij: Marx avrebbe non una, bensì due differenti "teorie delle crisi".

E' facile, nella caccia alla citazione, reperire brani del Capitale nei quali i rapporti di proprietà capitalistica, e quindi il consumo delle classi lavoratrici limitato dall'entità del salario, sono messi alla base delle ricorrenti crisi dell'accumulazione; è ugualmente possibile mostrare che gli schemi di accumulazione sono costruiti da Marx per spiegare sotto quali ipotesi di produzione e di scambio si piò spiegare l'esistenza e l'accrescimento storico del capitale totale, dalle sue origini ad oggi.

Vogliamo riportare alcuni passi dal fondamentale capitolo XV del III Libro del Capitale, laddove in maniera diversa, viene ripetuta la sostanza della questione, al di là della differente accentuazione di questo o quell'aspetto fenomenico, di questo o quell'elemento (Tutte le citazioni che seguono sono tratte dal III Libro del Capitale, cap. XV della III Sezione: Sviluppo delle contraddizioni intrinseche alla legge).

"La vera barriera della produzione capitalistica è il capitale stesso - scriveva Marx, e continuava: - il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale, e non al contrario: i mezzi di produzione non sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo di vita per la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la conservazione e l'autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda sulla espropriazione e l'impoverimento della grande massa dei produttori, questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e che perseguono l'accrescimento illimitato della produzione, la produzione come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali del lavoro. Il mezzo - lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali - viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono".

"Gli economisti. che, come Ricardo, considerano come assoluto il modo capitalistico di produzione, si rendono conto a questo punto che tale modo di produzione si crea esso stesso dei limiti, ed attribuiscono questi limiti non alla produzione ma alla natura (nella teoria della rendita). L'horror che essi provano di fronte alla tendenza a decrescere del saggio del profitto, e ispirato soprattutto dal fatto che il modo capitalistico di produzione trova nello sviluppo delle forze produttive un limite il quale non ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza come tale; e questo particolare limite attesta il carattere ristretto, semplicemente storico, passeggero del modo capitalistico di produzione; prova che esso non rappresenta affatto l'unico modo di produzione che possa produrre la ricchezza, ma al contrario, giunto a una certa fase, entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo".

"Le condizioni dello sfruttamento immediato e della sua realizzazione non sono identiche: esse differiscono non solo dal punto di vista del tempo e del luogo ma anche della sostanza. Le une sono limitate esclusivamente dalla forza produttiva della società, le altre dalla proporzione esistente tra i diversi rami di produzione e dalla capacità di consumo della società. Quest'ultima, a sua volta, non è determinata né dalla forza produttiva assoluta né dalla capacità di consumo assoluta; ma dalla capacità di consumo fondata su una distribuzione antagonistica, che riduce il consumo della grande massa della società ad un limite che può variare solo entro confini più o meno ristretti. Essa è inoltre limitata dall'impulso ad accumulare, ad accrescere il capitale ed ottenere delle quantità sempre più forti di plusvalore. Si tratta di una legge per la produzione capitalistica, determinata dalle incessanti rivoluzioni nei metodi di produzione, dal deprezzamento continuo del capitale esistente che ne è la conseguenza, dalla concorrenza generale e dalla necessità infine di perfezionare la produzione ed allargarne le dimensioni, al semplice scopo di conservarla ed evitare la rovina. Il mercato di conseguenza deve essere costantemente ampliato, cosicché i suoi rapporti e le condizioni che li regolano assumono sempre di più l'apparenza di una legge naturale indipendente dai produttori, sfuggono sempre di più al controllo. La contraddizione intrinseca cerca una compensazione mediante l'allargamento del campo esterno della produzione. Ma tanto più la forza produttiva si sviluppa e tanto maggiore è il contrasto in cui viene a trovarsi con la base ristretta su cui poggiano i rapporti di consumo. E non vi è nulla di inspiegabile nel fatto che, su questa base piena di contraddizioni, un eccesso di capitale sia collegato con un eccesso crescente di popolazione.

E quantunque la massa di plusvalore risulterebbe aumentata nel caso che si assorbisse l'eccesso di popolazione con l'eccesso di capitale, si accentuerebbe con ciò il conflitto fra le condizioni in cui questo plusvalore è prodotto e quelle in cui invece è realizzato".

"Sovrapproduzione di capitale, non delle merci individuali, - quantunque la sovrapproduzione di capitale determini sempre sovrapproduzione di merci - significa semplicemente sovraccumulazione di capitale. E per comprendere che cosa sia questa sovraccumulazione (la sua analisi più particolare viene fatta in seguito) basta presupporla assoluta. In quali circostanze la sovrapproduzione di capitale può considerarsi assoluta e cioè tale da non estendersi a questo, a quello, o ad alcuni importanti rami della produzione, ma da essere assoluta nella sua estensione stessa, e comprendere quindi tutti i rami della produzione?

Si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale qualora il capitale addizionale destinato alla produzione capitalistica fosse uguale a zero Ma lo scopo della produzione capitalistica è la autovalorizzazione del capitale ossia l'appropriazione del pluslavoro, la produzione di plusvalore, di profitto. Non appena dunque il capitale fosse accresciuto in una proporzione tale rispetto alla popolazione operaia, che né il tempo di lavoro assoluto fornito da questa popolazione potesse essere prolungato, né il tempo di pluslavoro relativo potesse essere esteso (questa ultima eventualità non sarebbe d'altro lato possibile nel caso in cui la domanda di lavoro fosse così forte da determinare una tendenza al rialzo dei salari), quando dunque il capitale accresciuto producesse una massa di plusvalore soltanto equivalente od anche inferiore a quella prodotta prima del suo accrescimento, allora si avrebbe una sovrapproduzione assoluta di capitale; ossia il capitale accresciuto C + dC non produrrebbe un profitto maggiore o produrrebbe un profitto minore di quello dato dal capitale C prima del suo aumento di dC. In ambedue i casi si verificherebbe una diminuzione forte ed improvvisa del saggio generale del profitto, causata questa volta dalla modificazione della composizione del capitale, che non proviene dallo sviluppo della forza produttiva, ma da un aumento del valore monetario del capitale variabile (in conseguenza dell'aumento dei salari) e dalla diminuzione corrispondente nel rapporto fra pluslavoro e lavoro necessario".

"Quello che inquieta Ricardo è che il saggio del profitto, forza motrice della produzione capitalistica, condizione e stimolo al tempo stesso dell'accumulazione, sia compromesso dallo sviluppo stesso della produzione. Ed il rapporto quantitativo è tutto qui. Ma vi è in realtà alla base del problema qualche cosa di più profondo che egli appena sospetta. Viene qui dimostrato in termini puramente economici, cioè dal punto di vista borghese, entro i limiti della comprensione capitalistica, dal punto di vista della produzione capitalistica stessa, che quest'ultima è limitata e relativa: che essa non costituisce un modo di produzione assoluto ma semplicemente storico, corrispondente ad una certa, limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione".

Molti altri brani del Capitale mettono in evidenza questo o quel fattore oppure altre circostanze del verificarsi della crisi. Ma la risposta a Tugan ce la può suggerire solo un appropriato uso del "muscolo della dialettica": in Marx non vi sono due diverse "teorie della crisi" perché non c'è, nelle sue pagine, nessuna "teoria della crisi". Questa, che può apparire un'affermazione paradossale, esprime invece un fatto sostanziale: nel Capitale come altrove, in Marx, la crisi non è mai vista come attrice di un'analisi a sé stante, bensì come parte della descrizione di più complesse e complete dinamiche. Nelle sue opere non è possibile rintracciare un a-dialettico distaccare un particolare momento o un peculiare fattore dall'insieme della descrizione complessiva del modo di produzione capitalistico.

Necessaria, storicamente determinata fu un'operazione del genere attraverso la penna ed il cervello dei giganti di cui abbiamo esaminato le posizioni: dettata dalla storia, dallo sviluppo del movimento rivoluzionario, dalle sue lotte e dai suoi indispensabili approfondimenti teorici. Sarebbe però sulla strada sbagliata chi pensasse che oggi sia necessario uno schieramento, un pronunciamento su chi avesse ragione e chi torto. Speriamo che l'analisi svolta possa suggerire un ulteriore approfondimento della questione con la chiarezza che in ognuna di queste posizioni troveremo elementi di erronea accentuazione di questo o quel fattore, di una o dell'altra circostanza. La dialettica materialista ci può aiutare a non ripetere gli errori del passato, traendo da esso gli elementi ancora vitali e gli spunti per la sempre più fine elaborazione della questione.

LA QUESTIONE DELLA REALIZZAZIONE

Le caratteristiche del romanticismo economico. Note sul problema della teoria dei mercati. Ancora sulla teoria della realizzazione. Lo sviluppo del capitalismo in Russia.

I testi che abbiamo esaminati comprendono gli scritti economici di Lenin dell'ultimo decennio del XIX secolo e sono attraversati dalla polemica contro i populisti. Principalmente, muovono contro l'idea dell'impossibilità di uno sviluppo capitalistico della Russia in assenza di un mercato interno e della impossibilità di conquista di quelli esteri. Il problema della riproduzione capitalistica si poneva per i populisti in questi termini: poiché nella riproduzione delle merci si crea un incremento di valore, un plusprodotto che costituisce la fonte di accumulazione del capitale, come si può vendere questo surplus se gli operai possono riacquistare soltanto la parte del prodotto corrispondente al loro salario, mentre i capitalisti non possono consumare l'intero plusprodotto perché debbono capitalizzarne una parte ? In questa difficoltà i populisti riscontravano un ostacolo insormontabile per il capitalismo. Pensavano che la realizzazione del plusvalore fosse, in definitiva, impossibile, chi avrebbe, in effetti, potuto consumarlo ? Giungevano pertanto, su queste basi teoriche, a negare il ruolo storico della classe operaia e il suo compito dirigente nella rivoluzione.

Nel rispondere a questa tesi, Lenin riprende in esame gli schemi di Marx dalla riproduzione contenuti nel 2° volume del capitale e ne conclude che affinché la realizzazione sia possibile è sufficiente non dimenticare che il valore del prodotto si scompone non in due parti, capitale variabile + plusvalore, come credono i populisti, bensì in tre: capitale costante, capitale variabile, plusvalore (c - v - pv), e che il plusvalore risparmiato da origine a una domanda di mezzi di produzione. La formazione del mercato interno e il suo allargamento si realizza quindi grazie ai mezzi di produzione. Il prodotto capitalistico non si risolve tutto in consumo personale, una parte serve anche per il rinnovo del capitale costante, esiste una domanda di mezzi di produzione, materie prime, ecc., suscettibile di colmare lo scarto creato dal risparmio tra l'offerta e la domanda globale. Per Lenin, la produzione crea il mercato e determina essa stessa il consumo.

Da queste giuste premesse, dal fatto cioè che la produzione si crea un mercato, non bisogna però tirare delle conclusioni affrettate, semplicistiche e soprattutto unilaterali. Assolutizzando questo ragionamento si può infatti giungere a considerare la possibilità di uno sviluppo infinito del capitalismo, un processo in cui un continuo e graduale adagiarsi del consumo alle esigenze della produzione condurrebbe ad una sorta di autoregolamentazione della riproduzione sociale. Tugan-Baranoskj, ad esempio, giunse a leggere, negli schemi di Marx sulla riproduzione, la prova dello sviluppo armonico e infinito del capitalismo. Ai suoi occhi era sufficiente che la proporzione fra la 1° sezione, che produce i mezzi di produzione e la 2° sezione che produce invece i mezzi di consumo fosse mantenuta, affinché il capitalismo potesse svilupparsi all'infinito. Non differentemente stavano le cose per il socialdemocratico Hilferding secondo il quale non si dovrebbe a ragione neppure parlare di sottoconsumo in campo economico: "l'espressione non ha significato alcuno, o tutt'al più sta ad indicare che la società consuma meno di quanto abbia prodotto. Ora non si vede come ciò possa accadere quando si sia prodotto nelle giuste proporzioni. Poiché il prodotto totale è uguale a capitale costante + capitale variabile + plusvalore ( c + v + pv), poiché tanto v quanto pv vengono consumati e gli elementi del capitale costante logorati devono reciprocamente reintegrarsi, la produzione può espandersi all'infinito senza portare a sovrapproduzione di merci " (Hilferding Il capitale finanziario).

Anche se il consumo si sviluppa sulle orme della produzione, non è lecito ritenere dissolto ogni contrasto fra i due termini sciogliendo in un rapporto unilaterale ciò che invece si presenta in modo dialettico ed estremamente conflittuale. La produzione e il consumo procedono, per Lenin, certamente per analogia ma non in maniera simmetrica, banale e formale, una analogia relativa e non assoluta.

1) Lenin e la questione del mercato.

La conclusione della teoria della realizzazione di Lenin si può riassumere cosi : la 1° sezione si deve sviluppare più rapidamente della 2°, quindi la formazione del mercato interno, il suo allargamento, si realizza essenzialmente grazie ai mezzi di produzione. Questo non significa però che lo sviluppo del mercato interno sia indipendente dall'aumento del consumo individuale, niente infatti è più sbagliato del ritenere " che la produzione dei mezzi di produzione si possa sviluppare in assoluta indipendenza della produzione dei beni di consumo, al di fuori di ogni legame con quest'ultima (..) La teoria di Marx ha inoltre dimostrato come si attua in pratica la contraddizione propria del capitalismo per cui l'enorme aumento della produzione non viene affatto accompagnato da un aumento corrispondente del consumo popolare (..) Per di più, nella realtà il processo di realizzazione si compie non in maniera piana e proporzionale, ma soltanto attraverso "difficoltà", " oscillazioni ", "crisi", ecc." (Lenin - "Ancora sulla teoria della realizzazione" O.C. vol. 4 pagg.88)

L'affermazione secondo cui la produzione si crea il proprio mercato va quindi riferita ad una dinamica, a un processo che si svolge non in maniera piatta e lineare, ma secondo un movimento, in modo estremamente contraddittorio. Questo è il primo aspetto che Lenin si affretta a sottolineare.

Il modo con cui i vari rami di industria si servono da mercato gli uni con gli altri non avviene in forma rigida ma, come sostiene Lenin, "gli uni si sviluppano più rapidamente degli altri e l'industria più sviluppata si cerca un mercato estero (..) Il problema del mercato estero non ha assolutamente niente a che vedere col problema della realizzazione. Questo fatto indica solo una sproporzione fra i vari rami della produzione, e come una diversa distribuzione del capitale nazionale la stessa quantità di prodotto avrebbe potuto essere realizzata all'interno del paese ma - sottolinea Lenin - perché il capitale abbandoni un ramo d'industria e passi ad un altro occorre che il primo subisca una crisi. E che cosa può trattenere i capitalisti minacciati da una crisi dal cercare un mercato estero?" (Lenin - "Lo sviluppo del capitalismo in Russia" O.C. vol. pagg. … ).

In altre parole: se il mercato interno è insufficiente, non c'è impossibilità per il capitalismo di svilupparsi, come credevano i sottoconsumisti, non c'è blocco definitivo del sistema, ma crisi di sovrapproduzione e quindi comunque sviluppo e crescita del capitalismo.

L'operazione di Lenin consiste nel descrivere una realtà dinamica. Dove il romanticismo economico vede solamente una situazione statica, unilateralità e formalismi economici, Lenin mostra il movimento dialettico. Senza questo procedere scientifico non si perviene e risultati rivoluzionari.

"Non c'è nulla di più insensato del dedurre dalle contraddizioni del capitalismo la sua impossibilità, il suo carattere non progressivo, ecc., ecc., ciò significa cercare la salvezza da una realtà indubitabile, anche se sgradevole (..) Il capitalismo in generale non può esistere e svilupparsi senza contraddizioni. Le contraddizioni del capitalismo attestano il suo carattere storicamente transitorio e spiegano le condizioni e le cause della sua dissoluzione e delle sue trasformazioni in una forma superiore. Esse però non escludono affatto né le sue possibilità né il suo carattere progressivo nei confronti dei precedenti sistemi dell'economia sociale." (Ibidem).

Il contrasto produzione-consumo esiste ma, afferma Lenin, non conduce ad un blocco del sistema, come ogni altra contraddizione della società borghese trova sempre una momentanea via d'uscita. Il ricorso ai mercati esteri è appunto una soluzione transitoria, una risposta del sistema che tenta di spostare la contraddizione ad altri livelli.

2) Gli estremi che si toccano.

Per spiegarsi bene questa dinamica, occorre tenere presente che i singoli aspetti della realtà capitalista, non solo sono tutti legati fra di loro, il che sarebbe ancora poco, ma lo sono in modo contraddittorio. Ciò che li lega è il fatto che ognuno di loro possiede una caratteristica economica che manca all'altro, ragione per cui non possono esistere separatamente. L'unità che in questo modo si instaura è unità dei contrari che si attraggono e si escludono a vicenda.

Tutto ciò è noto, occorre tuttavia riuscire ad inquadrarlo, come fa Lenin, in una dinamica. Si vedrà allora come questa unità dei contrari conduca alla crisi e al superamento del capitalismo. Questa unità contraddittoria presuppone che un oggetto realizzi la propria natura specifica soltanto mediante un rapporto reciproco con l'altro. Una merce, ad esempio, ha il suo valore di scambio non in se stessa, ma esclusivamente nel rapporto di valore con un altra merce. Infatti un kg di mele = un kg di mele è un espressione senza senso: nessuna merce può essere l'equivalente di se stessa. Il valore di una merce è tale solo nel suo rapporto con il valore d'uso di un altra merce. Ma, già a questo livello, ci imbattiamo in una contraddizione, all'apparenza irrisolvibile, già a questo livello il romanticismo economico griderebbe al non senso, all'impossibilità di scambio per il capitalismo, ecc. Come può, in effetti, proseguire la circolazione delle merci di fronte a tale contraddizione ? Semplicemente "conservandola", riuscendo ad incanalarla in una forma che ne permetta, nonostante tutto, il movimento. Questa forma, come sappiamo da Marx, è il denaro. Ma non è forse la stessa cosa per quanto riguarda la questione della realizzazione ?

La produzione capitalistica si crea il suo proprio mercato e, in questo senso, risolve la difficoltà della realizzazione. Al pari però della contraddizione fra valore di scambio e valore d'uso, non la risolve eliminandola in assoluto, ma, anche in questo caso, solo creando la forma entro cui essa possa "muoversi", creando cioè il mercato mondiale, trasferendola in una sfera più ampia, aprendo dinanzi a essa un più vasto campo di azione.

Il "trasferimento" ad un livello più ampio, il "trovare" una forma per permettere alle contraddizioni di "conservarsi" è, come osserva Marx nel Capitale, "il metodo con cui si risolvono le contraddizioni reali", la soluzione dialettica della questione della realizzazione può dunque risiedere unicamente nel propagarsi del modo di produzione capitalistico, nell'espansione costante del suo mercato di sbocco..

Il tentativo di superare le difficoltà opposte dai limiti del mercato determina dunque la tendenza del capitale a sviluppare nuovi bisogni, ad allargare il mercato su scala mondiale. Tuttavia l'espansione del mercato non ha effetto al fine di contenere la tendenza verso la sovrapproduzione, ma piuttosto sposta i confini di tale tendenza, confini che riappaiono non appena la produzione di nuovo sopravanza i limiti del mercato. Così, inquadrata la questione, risulta chiaro che il capitalismo non può continuare a riprodursi all'infinito. Ma che, se sopprime costantemente le proprie contraddizioni, non meno costantemente, e su scala sempre più vasta, le ricrea.

L'immediata conseguenza di questa dinamica è che la crescita del mercato rimane sempre indietro rispetto alla crescita della produzione, dando vita ad una tendenza immanente alla sovrapproduzione, la quale non si manifesta esclusivamente, come osserva Lenin, nella sproporzione fra produzione e consumo individuale. "Se si vuole parlare delle "difficoltà" della realizzazione, delle crisi che ne derivano, ecc., bisogna riconoscere che queste "difficoltà" sono non solo possibili ma inevitabili per tutte le parti del prodotto capitalistico, e non soltanto per il plusvalore. Le difficoltà di questo genere (..) sorgono incessantemente non solo nella realizzazione del plusvalore, ma anche in quella del capitale variabile e costante, non solo nella realizzazione del prodotto sotto forma di beni di consumo, ma anche in quella del prodotto sotto forma di mezzi di produzione" (Ibidem).

3) Marx e la questione della "realizzazione".

L'espressione "romanticismo economico" prima di Lenin è stata adoperata da Marx per indicare il "socialismo piccolo borghese".

L'esponente principale fu certamente Sismondi, teorico del "sottoconsumismo", contro cui Marx indirizzò la sua critica. Le sue idee si riassumono in questo modo: poiché una parte dei redditi dei ricchi deve venire risparmiata per poter essere reinvestita, si crea una situazione in cui la domanda dei beni di consumo è inferiore all'offerta globale. Il surplus cosi prodotto deve essere quindi esportato verso mercati esteri.

A questa tesi faceva da bilancia, in modo per cosi dire compensatorio, la tesi opposta, esposta da Ricardo, secondo cui l'offerta, cioè la produzione, crea automaticamente la domanda necessaria, cioè il mercato di sbocco. Non esiste di conseguenza un problema di realizzo e la possibilità che si creino crisi di sovrapproduzione.

Abbiamo quindi, da un lato, un teorico puro dell'impossibilità di realizzo per il capitale, nella veste di Sismondi, e dall'altro lato un teorico puro della produzione che si crea automaticamente il mercato senza inciampi nella realizzazione.

La critica di Marx investe entrambe le tesi. Critica Sismondi poiché commette l'errore, reiterato dai populisti russi, di considerare il prodotto annuo tutto destinato al consumo personale, senza lasciar una parte per il rinnovo del capitale costante. Una volta corretto questo errore sparisce anche l'impossibilità teorica della realizzazione. Non per questo però Marx si schiera a favore della tesi di Ricardo, e del suo automatismo nel rapporto produzione-consumo. Riscontra anzi in questa tesi l'errore fondamentale di Ricardo, che identifica la produzione capitalistica con la produzione semplice di merci, riducendola così al puro scambio di prodotti. Sulla base di questo errore può affermare che la produzione si crea il proprio mercato in un processo prolungato all'infinito. Trasformando la produzione borghese in semplice produzione per il valore d'uso, Ricardo non riesce a vedere che il lavoro non si presenta immediatamente in forma sociale. Nella società borghese, abbiamo a che fare con il lavoro di individui privati, ognuno dei quali lavora per proprio conto, e che la trasformazione di questi lavori particolari in lavoro generale o sociale, comporta la mediazione del mercato. E' solo attraverso lo scambio che il lavoro viene posto come lavoro sociale. E' questa mediazione che sfugge completamente a Ricardo.

" Egli considera la forma specifica della ricchezza borghese come qualcosa di puramente formale, non afferrabile nel suo contenuto. Quindi nega anche le contraddizioni della produzione borghese che scoppiano nelle crisi. Di qui tutta la sua falsa concezione del denaro. E' per questo, inoltre, che nel processo di produzione del capitale egli trascura completamente il processo di circolazione in quanto implica la metamorfosi delle merci, la necessità della trasformazione del capitale in denaro " (Marx - Teorie sul plusvalore).

E' interessante per noi vedere dove si colloca esattamente la critica di Marx e quali sono i punti in questione. Pur criticando in eguale modo Sismondi e Ricardo, non si pone a metà strada fra i due, in un preteso centro equilibratore. Egli oltrepassa entrambi, la sua soluzione supera sia lo scetticismo piccolo borghese di marca sismondiana sia l'ottimismo di marca borghese dei Ricardo - Saj. L'indicazione di Marx in proposito è molto precisa. Consiste in una sintesi dialettica fra le due concezioni. Così, se da un lato respinge categoricamente i dubbi di Sismondi sulla impossibilità della realizzazione, ne condivide, nello stesso tempo, l'accento che pone su questa contraddizione. Dall'altro lato, pur accettando l'idea di Ricardo che la produzione capitalistica si crea il proprio mercato, ne ridimensiona allo stesso tempo la pretesa assolutistica.

Per Marx il problema della realizzazione si pone nei seguenti termini: la produzione creando il mercato risolve le difficoltà della realizzazione, ma solo momentaneamente, non le elimina in assoluto, come vorrebbe Ricardo, le sposta semplicemente ad un altro livello. Per Marx la società borghese non riesce mai ad eliminare le sue contraddizioni, riesce però ad incanalarle in forme tali che ne permettono il movimento. Vi riesce nella misura in cui perviene a trasferire il problema in una sfera più ampia, provando ad aprire un più vasto spazio di manovra. In questo senso la produzione risolve il problema della realizzazione allargando continuamente la sfera del consumo, creando la forma entro cui la contraddizione produzione-consumo può muoversi, creando cioè il mercato mondiale, trasferendola appunto in una sfera più ampia.

La sintesi dialettica fra le idee di Sismondi e quelle di Ricardo che qui tentiamo di mettere in evidenza è un passaggio molto importante per capire la questione della realizzazione e in generale la dinamica stessa delle contraddizioni del modo di produzione capitalistico. Rileviamo innanzitutto che Marx affronta la questione in modo dialettico, considerando il rapporto produzione-consumo in un processo in cui non c'è un punto di partenza (la produzione per Ricardo e il consumo per Sismondi) e un punto di arrivo (il consumo per Ricardo e la produzione per Sismondi) ma una interazione dialettica appunto la cui dinamica non può essere fatta cominciare da uno o dall'altro. Produzione e consumo non sono la stesa cosa, ma non sono neppure separati, la produzione implica il consumo e viceversa essi sono inseparabili nella realtà, sono interdipendenti nessuno dei due può realizzarsi senza l'altro. Ciò che interessa a Marx è fondamentalmente la loro dinamica complessiva.

"Ricardo considera la produzione borghese, o più esattamente la produzione capitalistica, come la forma assoluta della produzione, le cui forme determinate non possono dunque trovarsi mai in contraddizione con i rapporti di produzione o porre ostacoli allo scopo della produzione pura e semplice (..) Sismondi ha l'intima sensazione che la produzione capitalistica si contraddica ; che le sue forme, i suoi rapporti di produzione da un lato spingono allo sfrenato sviluppo delle forze produttive e della ricchezza ; ma che dall'altro questi rapporti siano condizionati ; che le contraddizioni fra valore d'uso e valore di scambio, merce e denaro, acquisto e vendita, produzione e consumo, capitale e lavoro salariato, ecc. assumano dimensioni tanto più grandi quanto più si sviluppa la forza produttiva . Egli sente specialmente la contraddizione principale : da un lato lo sfrenato sviluppo della forza produttiva e l'accrescimento della ricchezza, che consta nello stesso tempo di merci e deve essere trasformato in denaro ; dall'altro, come fondamento ; la limitatezza della massa dei produttori ai mezzi di sussistenza necessari : per lui le crisi non sono, come per Riccardo ; semplici accidenti, ma esplosioni essenziali delle contraddizioni immanenti su grande scala e in determinati periodi(..) Egli critica in maniera convincente le contraddizioni della produzione borghese, ma non le capisce, e quindi non capisce neppure il processo della loro dissoluzione. Ma in fondo, egli intuisce che alle forze produttive sviluppatesi nel seno della società borghese, alle condizioni materiali e sociali della creazione della ricchezza, devono corrispondere nuove forme d'appropriazione di queste ricchezze" (Ibidem 3° vol. pagg. 59-60).

"Se Ricardo porta decisamente l'economia politica alle sue ultime conseguenze, e cosi facendo la conclude, Sismondi completa questa conclusione rappresentando i dubbi che l'economia politica nutre nei confronti di se stessa" (Marx - "Per la critica dell'economia politica" Editori Riuniti, pag. 43).

Marx pone continuamente in risalto l'importanza di Sismondi nell'indicare i limiti della produzione borghese, importanza che va al di là delle stesse convinzioni dello stesso. Anche se non sa spiegarli, già per il solo fatto di indicarli, pone la necessità di un ulteriore analisi, compito che toccherà a Marx di portare a termine. Lo stesso giudizio su Sismondi lo ritroviamo in Lenin: "In ogni questione si differenzia dai classici perché individua le contraddizioni del capitale. Questo da una parte. Dall'altra parte, in nessuna questione egli può (e del resto non vuole ) approfondire l'analisi dei classici, e pertanto si limita a criticare sentimentalmente il capitalismo dal punto di vista del piccolo borghese. La sostituzione dell'analisi scientifica con lamentazioni e piagnistei sentimentali rende del tutto superficiale le sue concezioni" (Lenin - "Le caratteristiche del romanticismo economico" - O.C. vol. pag. 100).

Secondo Marx e Lenin, Sismondi, pur individuando nella relazione fra produzione e consumo un limite immanente della produzione capitalista, si lascia trascinare dalla tendenza a condannarlo senza riuscire ad intravedere dietro lo stesso una dinamica e, nonostante tutto, un possibile movimento in avanti. Anziché ricercare nella contraddizione fra produzione e consumo lo sviluppo della stessa, vale a dire la dinamica del trapasso, il passaggio da un ordine di relazioni ad un nuovo ordine di altre relazioni, si limita a condannarla, a vedere in questa contraddizione un non senso, l'impossibilità di realizzo, di movimento, di sviluppo.

4) Differentia specifica.

Il contrasto produzione-consumo è certamente una contraddizione fondamentale della società borghese, anche se non è sufficiente a spiegare la crisi, la quale è il risultato specifico del modo di produzione capitalistico e come tale risiede anche in condizioni specifiche. Lenin delinea molto bene questo tratto caratteristico del regime capitalistico, e lo tratta chiaramente. Il sottoconsumismo non può spiegare la crisi poiché queste sono "provocate da un altra, più profonda, fondamentale contraddizione del sistema economico contemporaneo, precisamente la contraddizione fra il carattere sociale della produzione e il carattere privato della appropriazione" (Ibidem, pag. 63).

Proprio perché vede la radice del fenomeno nelle condizioni della produzione, Lenin non spiega le crisi con il sottoconsumismo ma con l'anarchia della produzione.

" Se spieghiamo le crisi con l'impossibilità di realizzare i prodotti, con la contraddizione fra produzione e consumo, giungiamo a negare la realtà, diciamo che la via seguita dal capitalismo è sbagliata, affermiamo che è una via falsa e ci poniamo alla ricerca di "altre vie" (...) al contrario, se spieghiamo le crisi con la contraddizione fra il carattere sociale della produzione e il carattere individuale dell'appropriazione, ammettiamo implicitamente che la via capitalistica di sviluppo è un fatto reale e rappresenta un progresso, e respingiamo come assurdo romanticismo la ricerca di "altre vie". Riconosciamo con ciò che quanto più questa contraddizione si sviluppa tanto più facile è uscirne, e che la via d'uscita sta precisamente nello sviluppo di quel determinato ordinamento" (Ibidem, pag. 68).

La critica di Lenin al romanticismo non è tanto di vedere nella contraddizione fra produzione e consumo un limite inerente al capitalismo, quanto di non saper scorgere dietro questo limite una forma sociale specifica, un più generale contrasto sociale che, se da un lato produce instabilità, crisi, ecc, contemporaneamente, dall'altro lato, esprime anche una tendenza allo sviluppo, una irrefrenabile tendenza al progresso.

Lenin rimprovera al romanticismo di vedere solo un lato, quello dei limiti negativi del capitalismo, e di non scorgere l'altro, quello positivo dell'irrefrenabile sviluppo. La realtà è duplice, esprime nello stesso tempo una cosa e il suo contrario. Se quindi possiamo per cosi dire dar ragione al romanticismo, quando afferma che nel capitalismo non esiste una giusta proporzione fra l'offerta e la domanda di merci, dobbiamo, nello stesso tempo, criticarlo perché non la fa derivare da una condizione specifica, che non sa e non può indagare, ma da cause inerenti la natura umana, l'egoismo, ecc. In fondo non è in grado di esaminare scientificamente la questione perché non sa ricondurla all'interno di un determinato sviluppo storico. Che questo sia la prospettiva critica di Lenin non ci sono dubbi, in "Caratteristiche..." riporta un passo di Marx che ricava da miseria della filosofia indicativo a tal proposito.

"Queste giusta proporzione tra l'offerta e la domanda (..) è stata possibile solo nei tempi in cui lo scambio si muoveva entro limiti estremamente ristretti ; con la nascita della grande industria, questa giusta proporzione deve cessare, e la produzione è stata fatalmente costretta a passare, in successione continua, attraverso vicissitudini di prosperità, di depressione, di crisi, di stadi stazionari, di nuova prosperità, e via di seguito, (..) cos'era che manteneva la produzione nelle giuste proporzioni, o quasi ? La domanda che si imponeva all'offerta precedendola : La produzione seguiva passo a passo il consumo. La grande industria, costretta dagli stessi strumenti di cui dispone a produrre su scala sempre più vasta, non può attendere la domanda. La produzione precede il consumo, l'offerta fa violenza alla domanda. Nella società attuale, con l'industria basata sugli scambi individuali, l'anarchia della produzione che è fonte di tanta miseria, è contemporaneamente la causa di ogni progresso " (Ibidem).

In che cosa consiste la tesi fondamentale di Marx, la sua idea centrale, che crea una contraddizione inconciliabile fra lui e i suoi predecessori ? A questa domanda Lenin cosi risponde: "Senza dubbio nel fatto che egli imposta il problema dell'instabilità del capitalismo sul piano storico e considera questa instabilità come un fattore di progresso. In altri termini, egli ritiene, anzitutto, che lo sviluppo capitalistico, il quale si compie mediante squilibri, crisi, ecc, è uno sviluppo necessario, affermando che il carattere storico dei mezzi di produzione ( le macchine) provoca l'illimitata tendenza a estendere la produzione e la costante precedenza dell'offerta sulla domanda"(Ibidem).

Rivista n°54, dicembre 2023

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Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale.

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