Crisi del "Piano economico" e finanziarizzazione dell'economia

"Il Capitale globale ha assoluta necessità di una rete planetaria addetta al drenaggio di capitali sparsi, per unificarli, fino a raschiare il fondo del barile, fino al borsellino delle vecchiette. Per un siffatto "lavoro" vi sono grandi organismi appositi; essi ne traggono un profitto che non sarebbe realizzabile se fossero rispettate le regole e le leggi degli Stati. Queste, le vorrebbe il piccolo capitalista schiacciato fra i grandi, le vorrebbe soprattutto il piccolo "investitore" spennato, ma il Capitale non le sopporta. Perciò la regola generale è che ognuno si faccia i fatti propri, all'ombra di leggi che non contano niente, fino a quando qualcuno scivola sullo sdrucciolevole mercato dei capitali. Quando il meccanismo s'inceppa da qualche parte per mancanza di plusvalore in grado di "remunerare" il capitale, scoppia, sì, uno scandalo, ma il sistema nel suo insieme continua imperterrito a macinare capitali, aziende, banche, risparmiatori. All'atto dell'incidente tutti si scoprono assetati di regole e leggi, che valgono lì per lì solo per il capitalista fesso che ha fatto lo scivolone, mentre per tutti quanti gli altri il mondo continua a girare come prima. Il "colpevole" non si troverà, semplicemente perché non c'è, sarebbe come portare in tribunale il capitalismo, cosa ovviamente assurda." (Parmalat, tentata fuga dalla legge del valore; "n+1" n. 13)

 

Premessa

Cominciamo questo lavoro premettendo che non vogliamo trattare la genesi e la storia della finanza, ma la recente fase che va sotto il nome di finanziarizzazione, che ne muta irreversibilmente il ruolo e gli scopi originari. Volendo però, a mo' di introduzione, schematizzare la storia della finanza per grandi periodi, potremmo ridurla a tre fasi distinte: 1) a partire dal XII secolo la finanza serve a rendere possibile il mercato in un mondo che conosce solo monete locali inconvertibili; 2) fino al termine della rivoluzione industriale la finanza diventa un valido supporto al mondo della produzione permettendo consistenti anticipi di capitale da indirizzare alla produzione; 3) dopo la Prima Guerra Mondiale la produzione diventa sempre più un'appendice del mondo finanziario che si rende man mano autonomo. Risale infatti all'inizio della Prima Guerra Mondiale l'importantissima opera di Lenin sull'imperialismo, studio che registra scientificamente le conseguenze politiche, economiche e militari che il processo di concentrazione dei capitali provoca negli assetti statali. L'economia mondiale si trovava di fronte ad un vero giro di boa e il passaggio era descritto da Lenin come l'apertura di una fase di transizione che avrebbe portato inevitabilmente il capitalismo verso la rottura rivoluzionaria.

In quegli anni la funzione originaria della finanza, quella cioè di intermediazione tra il capitale monetario e l'industria, si stava ribaltando a favore del sistema finanziario. La conferma pratica dell'avvio di tale processo si ebbe con il crollo della Borsa di Wall Street del 1929, crisi che non a caso richiese un intervento energico degli Stati nelle rispettive economie nazionali. Ecco una prima spiegazione del perché i fascismi non furono una risposta circoscritta e contingente, bensì di carattere internazionale.

Già a quell'epoca gli Stati Uniti, punta avanzata del capitalismo, si trovavano di fronte ad una grande crisi di sovrapproduzione:

"Sembra indiscusso, modificando un famoso luogo comune, che nel 1929 l'economia era fondamentalmente malsana. […] L'economia si era infiacchita all'inizio dell'estate molto prima del tracollo. […] La produzione industriale, per il momento aveva superato la domanda dei beni di consumo e d'investimento." (J.K. Galbraith, Il Grande crollo, B.B 1991)

Mentre i profitti dei capitalisti calavano per le vendite mancate o sottocosto, lo spostamento dei capitali dalla produzione alla speculazione fece crescere il prezzo delle azioni inflazionandole. Aumentò così il differenziale fra il prezzo in borsa dei titoli di credito e i dividendi che questi assicuravano, fino a che l'ondata speculativa si gonfiò oltre misura e infine scoppiò.

Il crollo della borsa di Wall Street coinvolse le aziende e le società finanziarie, generalizzando la crisi al resto del mondo. La conseguenza di questo primo grande crollo del secolo XX fu l'avvio ufficiale di quella che più tardi Amadeo Bordiga indicò come una delle peculiarità dell'imperialismo: lo svilupparsi vulcanico della produzione e il conseguente impaludamento del mercato.

Marx notò fin dai suoi primi studi di critica dell'economia politica che le crisi finanziarie avevano le proprie radici nelle crisi di sovrapproduzione di merci e di capitali. Con lo svilupparsi del modo di produzione capitalistico si sviluppava infatti l'autonomizzazione degli elementi della circolazione. La merce e il denaro seguono cicli autonomi, di qui l'esigenza di un sistema creditizio che mediasse l'anarchia della circolazione. Dalla circolazione monetaria semplice si passava ad un circolazione propriamente capitalistica, il che richiedeva uno sviluppo degli strumenti finanziari atti alla raccolta e all'anticipo di capitali per l'industria e per il commercio. Nel capitolo sul denaro deiGrundrisse (Lineamenti fondamentali) si parte da questa prima constatazione per arrivare attraverso l'analisi della forma denaro e delle sue successive metamorfosi ad abbozzare il processo di autonomizzazione del valore attraverso il peso sempre maggiore assunto dal sistema finanziario.

La prima determinazione formale del denaro è la misura universale dei valori delle merci, mentre ad un diverso grado di astrazione, più inerente al capitalismo maturo, prende forma una seconda determinazione: il denaro smaterializzato è sussunto all'interno della struttura creditizia per cui si impone la differenza fra accumulazione reale (profitto) e accumulazione monetaria (interesse). Col sopravvento di quest'ultima, il legame con la produzione, pur sempre indispensabile, diventa lontano e invisibile, tanto che si giunge alla fine ad una situazione di indifferenza tra profitto e interesse, ossia alla trasformazione dei profitti in rendita. La finanziarizzazione è quindi un fatto reale, necessario e previsto, nella teoria della rendita di Marx ed è premessa indispensabile per la fine del capitalismo.

La finanziarizzazione dell'economia

Facendo un salto nell'oggi, a processo storico completato, vediamo che il tasso di finanziarizzazione dell'economia può essere definito e misurato mettendo in rapporto il complesso degli strumenti finanziari in circolazione in un determinato periodo (azioni, crediti) con il prodotto lordo di un singolo paese o dell'economia mondiale. Da questo calcolo si può misurare il rapporto economico che intercorre tra la sfera della finanza e quella della produzione. Esiste infatti una connessione tra sviluppo degli scambi commerciali e formazione di attività finanziarie: da una recente ricerca risulta che una crescita del 10% del rapporto tra commercio estero e prodotto lordo è associata con una crescita delle attività finanziarie di 29 punti percentuali.

I dati esistenti mostrano che la formazione di ricchezza finanziaria è accelerata dal 1980, cioè a partire dalla grande ristrutturazione economica avviata da Reagan e dalla Thacher, che attraverso privatizzazioni e liberalizzazioni pilotate dallo Stato ha provocato anche l'accelerazione del processo di globalizzazione. Infatti tra il 1979 e il 1996 il rapporto tra attività finanziarie e Pil è fortemente cresciuto in tutti i paesi avanzati. La finanziarizzazione è dunque un fenomeno tipico del capitalismo maturo, mentre la statalizzazione diretta è un fenomeno di capitalismo ancora giovane.

Il legame tra globalizzazione e formazione di complessi strumenti finanziari è quindi intuitivo. La globalizzazione implica trasferimenti di capitali e di merci tra paesi e soggetti economici diversi e comporta quindi l'enorme emissione di titoli di credito e di debito, che danno vita a reti globali di interscambio. La formazione di un mercato globale, conseguente all'intensificazione dei movimenti di capitale, facilita la raccolta di fondi attraverso emissione di titoli da parte di soggetti pubblici e soprattutto di imprese che possono così, in parte, sostituire il credito bancario. L'esplosione del mercato dei titoli ha avuto come conseguenza anche la sua automatizzazione. Siccome la stragrande maggioranza di essi è trattabile secondo schemi fissi nella routine quotidiana degli scambi, i grandi operatori finanziari raggruppano le operazioni secondo criteri immessi nei programmi dei computer. Ne risulta che la maggior parte della routine non è più seguita dagli uomini ma è lasciata in mano alle macchine, le quali sono anche in grado di avvertire quando i mercati varcano certe soglie di sicurezza e perciò di bloccarsi chiamando gli operatori a prendere in mano la situazione. Si tratta, per certi versi, dello stesso processo di autonomizzazione analizzato da Marx nel passaggio dalla manifattura alla grande industria: nella fabbrica veniva ad imporsi l'automa generale, il sistema di macchine che ingloba l'operaio complessivo trasformandolo in una appendice del mostro meccanico. Oggi si impone l'automa finanziario che ingloba l'industria e la società trasformandole in sue appendici.

Ciò che in questa prima parte del lavoro vogliamo sottolineare è la differenza che intercorre tra due modelli di capitalismo che hanno caratterizzato rispettivamente il XIX e il XX secolo, una differenza in cui la finanza ha giocato un ruolo fondamentale. Solo capendo le basi economiche del modello precedente possiamo comprendere il perché di questa trasformazione e analizzarne la traiettoria futura. Schematizzando si può dire che nel modello statalista, divenuto prevalente a livello mondiale dalla fine degli anni Venti, lo Stato svolgeva determinanti funzioni allocative (si pensi all'IRI), giungendo fino a creare e a gestire direttamente le imprese. Successivamente, nel modello centrato sul mercato globale prevalente dagli anni Ottanta ad oggi, la gran parte delle funzioni allocative spetta ai sistemi finanziari (il che non implica il ridimensionamento del controllo dello Stato sull'economia, come teorizzano i fautori dello "Stato minimo", bensì un controllo di tipo diverso ma non per questo meno articolato). Si tratta di una ristrutturazione dello Stato pilotata dalle esigenze del capitalismo, che mette al centro della società il ruolo dell'impresa e della finanza. Di qui il processo di privatizzazione funzionale a raccogliere capillarmente molti piccoli capitali privati per concentrarli nelle mani di pochi capitalisti o fondi d'investimento. Questa ulteriore fonte di finanziarizzazione è indispensabile, perché il singolo possessore di capitale non potrà mai avere i mezzi per conoscere l'andamento dei mercati globali e indirizzare somme sufficienti a valorizzarsi. Ovviamente questo risultato non è garantito neppure a chi ha tali mezzi, ma rimane il fatto che il piccolo capitalista sarà remunerato con criteri interni e il fondo d'investimento o il grande capitalista potranno invece cercare remunerazione "globale".

La finanziarizzazione si manifestò quindi attraverso le grandi campagne di privatizzazione. Nei paesi a capitalismo maturo lo Stato ha ben altri mezzi per controllare l'economia che non la detenzione diretta di impianti produttivi e servizi a pagamento. Quindi, se da una parte l'indice di statalizzazione di un'economia non si ricava dall'ampiezza del settore pubblico ma dall'intervento politico dello Stato per disciplinare l'economia intera (come negli Stati Uniti), dall'altra si va sul sicuro affermando che le campagne di privatizzazione rappresentano un vero e proprio intervento dispotico dello Stato nell'economia, con buona pace dei neoliberali di destra e di sinistra. E' del tutto ininfluente il fatto che lo Stato mantenga o no la golden share, cioè la maggioranza di controllo di un'azienda, ciò che importa è la realizzazione pratica della previsione che Marx fece nei Grundrisse (Vol.II):

"Il capitale raggiunge il suo più alto sviluppo quando le condizioni generali del processo sociale di produzione non vengono create traendole dal prelievo del reddito sociale, dalle imposte pubbliche, - dove è il reddito e non il capitale che figura come labour funds, e l'operaio, pur essendo operaio salariato libero come chiunque altro, tuttavia da un punto economico è in un rapporto diverso -, ma dal capitale in quanto capitale."

Il processo di finanziarizzazione è quindi funzionale al consolidamento di una massa impotente di piccoli investitori presso cui effettuare la raccolta di valore e di una oligarchia finanziaria – che fa da tramite col mercato - in grado di indirizzare i capitali raccolti là dove la valorizzazione sia prevista più alta che altrove. Quelle che una volta erano funzioni proprie dello Stato vengono demandate ad organismi di mercato – cioè al capitale in quanto capitale -, che fagocitano anche questi settori (pensioni, sanità, poste, ferrovie, ecc.).

Ma c'è un'altra ragione strutturale che sta alla base del processo di privatizzazione. Da alcuni decenni l'incremento del debito pubblico nei principali paesi e a livello mondiale supera l'incremento del prodotto lordo, il che si riflette nella tendenza ad un aumento del debito pubblico. L'ammontare dei titoli emessi per coprire deficit pubblici superiori al tasso di crescita contribuisce ad aumentare la voce riguardante la ricchezza finanziaria in rapporto al resto del Pil. Infatti a partire dal 1980 quando si affermarono le vedute neoliberiste, l'indebitamento pubblico, a livello mondiale, era quasi raddoppiato. Gli Stati non riuscivano più a mantenere i vecchi livelli di spesa sociale, che erano propri di un modello di accumulazione oramai obsoleto.

Ritorno e recrudescenza delle crisi finanziarie

Si è concluso all'inizio degli anni Settanta il lungo periodo di relativa stabilità dei mercati finanziari, originato dai processi di regolazione decisi a livello dei singoli paesi come risposta alla micidiale crisi degli anni Trenta cui si aggiunge, dopo la seconda guerra mondiale, il sistema di regolazione internazionale di Bretton Woods. Il primo segnale della fine fu nel 1971 la decisione di Nixon di annullare una delle clausole dei suddetti accordi: scollegare il valore del dollaro dall'oro e rendere di conseguenza la moneta statunitense non più convertibile in oro.

Con quella decisione unilaterale, si prendeva atto che in seguito alle emissioni di dollari fatte negli anni precedenti la quantità di dollari in circolazione travalicava di gran lunga le riserve auree degli USA. Da allora il dollaro ha continuato a svolgere la funzione di principale moneta internazionale, ma il suo valore veniva ora definito sostanzialmente dalla politica economica seguita dagli USA. Tutto ciò va bene finché tale moneta è riconosciuta da chi l'adopera, vale a dire finché circola comecontrovalore di merci veramente prodotte e quindi come rappresentante di valore autentico. Ma il deficit perenne della bilancia dei pagamenti americana è garantito solo dalla fiducia che gli Stati Uniti possono riscuotere nel mondo. Non per niente la moneta come la conosciamo noi, da quando ha incominciato ad essere emessa senza più riscontro fisico, si chiama "fiduciaria".

A quella scelta seguì nel 1973 quella dei paesi dell'OPEC di quintuplicare il prezzo del greggio. Il conflitto apertosi tra paesi produttori e paesi consumatori portò ad un inasprimento del conflitto capitale-lavoro all'interno dei paesi occidentali. Il sovrapprezzo ceduto dai paesi importatori ai paesi produttori fu pagato sostanzialmente dal proletariato e questo rispose con lotte e rivendicazioni salariali.

Nei paesi capitalistici il risultato di questo conflitto distributivo fu una forte pressione sui costi di produzione, che si rifletté in una corsa dell'inflazione; questa tuttavia coesisteva con tendenze deflazionistiche causate dalla riduzione del potere d'acquisto, e gli economisti dovettero così inventarsi un neologismo: stagflazione.

Sul piano finanziario si verificò un formidabile squilibrio in seguito al rapido accumularsi di risorse finanziarie nei paesi produttori di greggio. D'altro canto quei paesi non disponevano di sistemi finanziari e di politiche capaci di rimettere in circolazione l'enorme liquidità monetaria. Il compito di riciclare quel denaro fu assunto sostanzialmente dalle grandi banche anglosassoni, che diressero i flussi finanziari soprattutto verso alcuni paesi emergenti, in particolare nell'America Latina. Si trattava però di paesi che non avevano un'economia adeguata a valorizzare tale massa di capitali. Ciò comportò una crisi di vaste dimensioni che coinvolse per primi questi paesi per poi riverberarsi in Europa.

Sembrava una situazione senza sbocchi, tanto che in molti cominciarono a parlare di crisi irreversibile del sistema (previsione di Amadeo Bordiga sul 1975 e studio del MIT).

Ma il capitalismo riuscì a prolungare la sua agonia, cercheremo adesso di capire come ciò fu possibile e soprattutto quali mutamenti sostanziali permisero il - temporaneo - successo.

Le crisi bancarie sono continuate fino agli anni Novanta collegate a crisi finanziarie di vario tipo e sono continuati gli interventi di salvataggio da parte degli Stati. Cominciava ad imporsi a livello mondiale il problema di un'eccessiva produzione di merci-capitali che non trovavano adeguata allocazione.

Le dimensioni delle crisi a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta non avevano nulla da invidiare a quelle degli anni Trenta. Il paradosso stava nel fatto che mentre si diffondevano teorie e politiche volte al ridimensionamento del ruolo dello Stato, il salvataggio, ad opera dello Stato, dei sistemi bancari con il denaro dei contribuenti raggiungeva dimensioni straordinarie.

Il modello statalista di tipo socialdemocratico

Il "Piano economico" di tipo statalista, impostosi tra le due guerre mondiali e proseguito fino agli anni Ottanta, poggiava sostanzialmente su due pilastri:

1) Politiche dei redditi: i salari venivano agganciati alla produttività media del sistema.

L'idea di collegare il salario alla produttività a livello aziendale è propria di Henry Ford agli inizi del Novecento con il lancio del "Piano americano" e lo slogan "l'automobile per tutti". Piena occupazione e controllo dell'inflazione.

2) Politiche fiscali: imposte sul reddito molto progressive, che hanno consentito, aumentando la quota del prodotto nazionale allocata attraverso i bilanci pubblici, lo sviluppo di servizi sociali e la distribuzione del reddito (welfare state).

In Italia per esempio, a partire dalla ricostruzione postbellica e dall'avvio del Piano Marshall, la grande quantità di plusvalore disponibile nella società si era sposata con il boom demografico e l'emigrazione interna dal Sud verso il Nord, per cui l'intera società aveva potuto permettersi lo sviluppo della "scuola di massa", delle amministrazioni pubbliche, delle infrastrutture e di una keynesiana e gigantesca burocrazia statale. Il tutto consentiva un ciclo capitalistico virtuoso di produzione e consumo che, tra leggi fiscali (Vanoni), lavori pubblici (Fanfani), industria statale (IRI) e connivenza sindacale, serviva ad utilizzare il gran flusso di valore totale per l'accumulazione accelerata e per un conseguente Piano economico di sostegno all'industria.

Queste politiche erano il prodotto di un capitalismo ancora rampante, che in Italia aveva prodotto quelli che furono chiamati, non a torto, gli anni del grande "boom economico".

Anni che sono contrassegnati da una tenue presenza di lotte operaie e da un avanzamento relativo delle condizioni di vita del proletariato e delle mezze classi.

Un primo riapparire delle lotte operaie si ha nel biennio 1968-69: sono il preavviso di un'inversione di tendenza dell'economia mondiale.

Il tasso di profitto nelle maggiori economie capitalistiche subisce una prima forte diminuzione a cavallo dei primi anni Settanta. Tra le cause principali viene indicatol'esaurimento delle basi tecnologiche ed economiche che erano il pilastro del precedente modello di accumulazione. Tali basi erano costituite in primo luogo dalla trasformazione di beni quali l'automobile, gli elettrodomestici e l'elettronica, il cui acquisto per motivi di prezzo era stato fino a quegli anni appannaggio della classe media. Ora essi erano accessibili anche al proletariato, grazie al rapporto favorevole tra costo unitario e salario medio. Sennonché una volta che nei maggiori paesi fu saturata la domanda interna dei "beni di massa", la crescita dell'economia rallentò, i profitti diminuirono, il loro rapporto con gli investimenti in macchinari e impianti peggiorò.

Pertanto fin dalla metà degli anni Settanta la principale forza propulsiva dell'economia mondiale è stato l'incessante tentativo delle imprese di riportare – con differenti mezzi – il tasso di profitto ai maggiori livelli di venti anni prima. Sul terreno della lotta per contendersi margini maggiori di profitto (e preservare le precedenti conquiste politico-sindacali) si giocò il conflitto tra proletariato e borghesia, che contrassegnò il lungo Sessantotto italiano.

Tra i mezzi messi in campo dalla borghesia rientrano la riduzione del costo del lavoro, l'aumento dei prezzi più rapido dei salari, una politica smaccatamente anti-sindacale e le prime "delocalizzazioni" di unità produttive in zone del mondo dove il costo della forza lavoro era più basso.

Le contromisure borghesi alla crisi mondiale non potevano però rappresentare una risposta definitiva ai problemi di accumulazione cui il capitalismo andava incontro. Si trattava infatti di risposte di tipo immediato, non strutturali. Bisognava trovare uno strumento per accrescere nuovamente i profitti, nonostante le difficoltà frapposte dalla stagnazione della domanda, dalla concorrenza dei paesi emergenti e dalle lotte operaie.

In realtà una risposta a questo problema non verrà mai data, non si farà altro che assecondare gli automatismi di un capitalismo sempre meno legato alle barriere nazionali e sempre più refrattario ai vincoli proprietari. E' vero che si cercò di capire e razionalizzare la crisi cercando nuovi e più efficienti metodi di produzione. Nacquero curiose teorie quali la produzione snella e il toyotismo, ma erano fuochi di paglia, serviva ben altro per rinvigorire il capitalismo. Il toyotismo per esempio non era riproducibile integralmente altrove, e del resto non poteva sopravvivere neppure in Giappone. Esso era un ibrido, piuttosto raccapricciante, fra l'organizzazione scientifica del lavoro di stampo tayloristico e caratteristiche antiche sopravviventi nella società nipponica.

Cominciava intanto a prender piede un'altra scuola di pensiero. Bastava – così si cominciò a teorizzare - concepire l'impresa non più come istituzione economica che genera plusvalore producendo merci o servizi, ma piuttosto come un'entità capace di accrescere il capitale anticipato, misurato dal proprio valore in Borsa, tramite varie modalità, di cui la produzione di merci e servizi era soltanto una delle opzioni possibili.

L'orizzonte di lì a poco sarebbe stato la "massimizzazione del valore per gli azionisti". Tale nuovo paradigma rendeva necessario un intervento massiccio sui diversi aspetti del sistema produttivo, sia in materia di legislazione del lavoro, sia soprattutto sui modelli di governo dell'azienda e del rapporto di quest'ultima con le istituzioni finanziarie. Bisogna ricordare che questo cambiamento non è stato né veloce né indolore, anzi è stato possibile solo grazie alla sconfitta del ciclo di lotte operaie conclusosi verso l'inizio degli anni Ottanta.

Proprietà, capitale e finanza

Possiamo comprendere appieno questa trasformazione solo legandoci ai preveggenti studi economici di Marx. Bisogna infatti analizzare, per quanto riguarda l'impatto che il processo di finanziarizzazione ha avuto sulla gestione delle imprese, la doppia separazione che è venuta a verificarsi: quella tra proprietà e capitale e quella tra gestione e proprietà dell'impresa.

Non sono temi nuovi per i comunisti, Marx ha analizzato minuziosamente le ripercussioni del processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali sulla struttura a venire del capitalismo.

La Sinistra Comunista "italiana" continuò la ricerca sulla linea tracciata da Marx e Lenin, e sono infatti da ricordare lavori quali Proprietà e capitale e Scienza economica marxista. Non si tratta dunque di affrontare argomenti economici con strumenti teorici nuovi, bensì di tracciare una linea che parta dai testi classici per arrivare all'analisi dell'attuale assetto economico.

Riferendosi al processo di socializzazione dei capitali, Marx diceva:

"Trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e dei proprietari di capitali in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari. Anche quando i dividendi che essi ricevono comprendono l’interesse e il guadagno d’imprenditore (…) questo profitto totale è intascato unicamente a titolo d’interesse, ossia un semplice indennizzo della proprietà del capitale, proprietà che ora è, nel reale processo di riproduzione, cosi separata dalla funzione del capitale come, nella persona del dirigente, questa funzione è separata dalla proprietà del capitale (…). Questo significa la soppressione del modo capitalistico di produzione, nell’ambito dello stesso modo di produzione, quindi è una contraddizione che si distrugge da se stessa, che prima facie si presenta come semplice momento di transizione verso una nuova forma di produzione" (K. Marx, op. cit. pagg. 518-520)

Detto altrimenti:

"In generale, il capitalismo ha la proprietà di staccare il possesso del capitale dal suo impiego nella produzione, di staccare il capitale liquido dal capitale industriale e produttivo, di separare il rentier, che vive soltanto del profitto tratto dal capitale liquido, dall'imprenditore e da tutti coloro che partecipano direttamente all'impiego del capitale. L'imperialismo, vale a dire l'egemonia del capitale finanziario, è quello stadio supremo del capitalismo, in cui tale separazione raggiunge dimensioni enormi"(V. I. Lenin, L'imperialismo, fase suprema del capitalismo, Newton Compton, pag. 84.)

I dibattiti economici degli anni Ottanta, erano quindi assolutamente oziosi, non focalizzavano assolutamente la tendenza generale del capitalismo, quella alla centralizzazione dei capitali e alla conseguente caduta del tasso di profitto, ma partivano da una supina giustificazione delle esigenze di un capitalismo sempre più asfittico e fuori controllo, che invece loro si ostinavano a vedere come portatore di benessere e stabilità. Il dibattito economico metteva in luce due schieramenti: i sostenitori di un modello capitalistico anglosassone, caratterizzato dal prevalere delle public company, e i sostenitori del modello renano, nel quale il controllo delle imprese era ancora in mano a un nucleo proprietario ben definito.

Col procedere della ristrutturazione capitalistica il dibattito ha perso di senso poiché è prevalso il modello anglosassone, più corrispondente alle necessità del capitalismo mondiale.

Cerchiamo allora di capire quali sono le caratteristiche innovative del modello di accumulazione di tipo anglosassone rispetto a quello precedente.

La public company nel panorama economico non è sorta di recente: da decenni ormai è la forma delle più note corporation americane e lo era nella fase in cui, a partire dagli anni Trenta, esse controllavano i mercati.

Dagli anni Sessanta il forte flusso di valore derivante dal boom economico aveva incentivato la tendenza verso la conglomerazione, l'espansione in attività diverse da quella originaria. L'impresa aveva mostrato i primi segni di refrattarietà verso i vincoli proprietari famigliari, cominciando a librasi ad un livello superiore.

Negli anni Ottanta il consolidarsi dell'impresa sulla forma della public company fa sorgere curiose teorie, che vanno a mettere in discussione quelle neoclassiche, dal "Piano Americano" di Henry Ford, all'esperienza di "Comunità" portata avanti da Adriano Olivetti in Italia. L'economia stava provocando una piccola rivoluzione strutturale, ed essa produceva riflessi nella sovrastruttura ideologica.

Una di queste novità è la Teoria contrattuale. Essa ha come presupposto il fatto che massimizzare il valore per gli azionisti equivalga a massimizzare l'intera ricchezza per la società (in ciò si esaurirebbe la missione economica dell'impresa). Secondo i sostenitori di tale teoria l'impresa ha come unico obiettivo la valorizzazione delle azioni degli investitori: più i dividendi sono alti, più l'azienda è produttiva e sana.

Una variante di tale approccio è la shareholder value, teoria che afferma che l'unico obiettivo dell'impresa è "produrre valore per gli azionisti", il resto non conta. Tale tesi è diventata dominante durante gli anni Novanta e uno dei suoi più entusiasti sostenitori è il famoso economista Milton Friedman.

Tale visione che arriva fino ai giorni nostri non ha però vita facile e viene ferita a morte dalla crisi finanziaria del 2000-2, che partita da Wall Street ha contagiato tutte le altre Borse, nonché dai grandi scandali societari scoppiati negli anni seguenti.

Michael Jensen, uno dei fondatori (adesso pentito) della Teoria contrattuale, ha paragonato la sopravvalutazione delle azioni perseguita con ogni mezzo dagli executive e dalle banche d'affari all'eroina, poiché essa produceva vantaggi nel breve periodo ma, alla lunga, rendeva impossibile ai gestori dell'impresa realizzare previsioni e strategie aziendali.

Lo shortermism, quella tendenza dell'economia che privilegia gli investimenti a breve termine, ha cominciato a essere riveduto criticamente (anche se non verrà mai abbandonato): la necessità di far crescere gli utili ogni trimestre produce effetti nefasti, induce a manipolare i dati e a contraffare i bilanci, compromettendo qualsiasi strategia industriale.

Ciò che maggiormente ha cominciato a destare preoccupazione era la constatazione che la gran parte delle pratiche usate dalle corporation per mistificare i conti era la collocazione di grosse quantità di debiti in società controllate ma tenute fuori bilancio. Il ruolo stesso della contabilità cambiava diventando qualcos'altro rispetto al suo scopo tradizionale. A questo livello di astrazione dell'economia da se stessa, basta una buona performance borsistica per valutare positivamente la salute industriale di un'azienda.

Distruzione accelerata di valore

In Usa verso il 1985 i profitti post imposta sul capitale fisso hanno toccato di nuovo la quota del 16% circa, che avevano visto sfumare vent'anni prima quando nel 1974 toccarono il minimo del 10%. Dopo di allora, con alcune flessioni e rimonte, si sono mantenuti su tale quota, fino all'incirca al 2000.

Tale andamento non ha fatto altro che rafforzare la convinzione che, in un modo o nell'altro, fosse possibile la creazione di valore dalla finanza. Ma come vedremo, la teoria che sta alla base della creazione di valore dalla circolazione ha dovuto capitolare di fronte all'immane distruzione di valore avvenuta nel biennio 2000-2.

La prova dei fatti è stato il crollo dei corsi azionari nelle borse di tutto il mondo a partire dai primi mesi del 2000. Il Dow Jones cala repentinamente da 11722 a 7286 punti, segno che le azioni rappresentate hanno perso in media il 38% del loro valore. Un autentico crollo è quello del Nasdaq, che fa registrare un meno 80%: da oltre 5000 punti a poco più di 1100, grosso modo il livello a cui si trovava sette anni prima. Gli stessi disastri si hanno nella borsa di Londra e si ripercuotono poi nel resto dell'economia mondiale.

In complesso si calcola che la distruzione di valore relativa a tutte le azioni circolanti negli Stati Uniti sia ammontata alla bellezza di 8400 miliardi di dollari (8,4 trilioni).

Per farsi un'idea più precisa si pensi che 8,4 trilioni di dollari corrispondeva a oltre l'85% del Pil statunitense nel 2001, che era di 9,8 trilioni.

Particolarmente pesanti sono state le perdite subite dai fondi pensione Usa, pubblici e privati, ed è inutile soffermarsi sul fatto che i grandi spennati furono principalmente i piccoli azionisti, i meno informati e i più vulnerabili.

Per le borse europee la valutazione è più difficile non esistendo una fonte unica, ma si stima che la distruzione di valore si aggira intorno ai 3000-3500 miliardi di euro.

Una delle cause più visibili del crollo sono stati gli scandali societari susseguitisi in Usa e in Europa dal 2000 in poi, ma in realtà si trattava della diffusa presa di coscienza che intere economie erano basate su fondamenta d'argilla, ossia sul debito e sull'illusione dell'auto-creazione del valore dalla circolazione.

Gli eventi furono accompagnati da provvedimenti legislativi e da un'ampia autocritica da parte delle imprese, delle istituzioni finanziarie e dei governi. Tuttavia tanta luce sugli scandali mise in ombra la natura non criminale, ma strutturale, della crisi finanziaria. Gli atti disonesti dei manager indagati dalla magistratura rappresentavano, a ben vedere, soltanto un passo più deviante rispetto al nuovo paradigma economico. La massiccia distruzione di valore non è imputabile a poche mele marce annidate all'interno del sistema finanziario, ma è causata dalla stessa struttura finanziaria e dalle strategie che essa ha dettato.

Nel novero delle strategie imprenditoriali messe in atto dagli anni Novanta risultano essere preferite le seguenti:

- le fusioni ed acquisizioni che hanno per attori grandi gruppi economici e società finanziarie;
- la diversificazione dell'attività produttività perseguita entrando in molteplici settori, estranei alla missione originaria dell'impresa;
- l'acquisto da parte di multinazionali di piccole e medie imprese operanti nello stesso settore produttivo, assoggettate al - - gruppo stesso per mezzo di complicate architetture finanziarie.

 

Durante tutti gli anni Novanta si ha un'ondata di fusioni e acquisizioni senza precedenti. A molte aziende sembrava un mezzo sicuro per mettersi al riparo da acquisizioni ostili (takeover) e al tempo stesso per creare valore per gli azionisti. In realtà, a posteriori, tale strategia si rivelò un grande insuccesso. In altre parole fusioni e acquisizioni, a parte casi isolati, più che creare valore lo distrussero.

Riportiamo a titolo d'esempio due delle catastrofi più rappresentative del nuovo corso:

Fusione tra Aol e Time Warner:

fu annunciata nel 2000 e divenne operativa undici mesi dopo.

American on line era specializzata in servizi internet, Warner invece, molto più grossa della prima, possedeva i famosi studi cinematografici della Warner Bros.

Erano gli anni in cui le azioni di qualunque impresa che avesse a che fare con Internet valevano come i bulbi di tulipano nell'Amsterdam del Seicento.

Alla vigilia dell'annuncio i due gruppi sommati valevano in borsa oltre 260 miliardi di dollari.

Ma la caduta di lì a poco dei titoli tecnologici, simboleggiata dal tonfo dell'indice Nasdaq, indebolì la parte di Aol del gruppo.

Nel maggio 2004, meno di tre anni dopo la fusione, il gruppo aveva un valore di mercato di 77,6 miliardi di dollari. La distruzione di valore ammontava a 185 miliardi di dollari.

Il paradigma della creazione di valore dalla circolazione aveva brutalmente cozzato contro la spietata legge del valore.

Fusione tra Daimler- Benz AG e Chrysler Corporation:

fu siglata nel 1998 e fu in realtà un brutale acquisto della seconda da parte della prima. Venne comunque salutata come la maggior fusione transfrontaliera di tutti i tempi. Il valore combinato dei gruppi ammontava in borsa alla bellezza di 85 miliardi di dollari. Come avviene di solito dopo le fusioni, il valore delle azioni aumentò del 30%.

Subito dopo le difficoltà organizzative e gestionali del mega-gruppo cominciarono a farsi sentire e la borsa avvertì immediatamente il pericolo.

Nel maggio 2004 il valore della Daimler-Chrysler ammontava a 45 miliardi: si trattava esattamente di 40 miliardi in meno del valore combinato dei due gruppi.

Finanziarizzazione delle imprese

La General Electric è un'azienda simbolo del sistema economico statunitense ed è un valido esempio di impresa finanziarizzata:

"nel 1980 il 92% dei suoi profitti dichiarati proveniva dalle sussidiarie manifatturiere. Nel 2003, circa il 50% dei guadagni è stato fornito da sussidiarie finanziarie largamente dipendenti dall'indebitamento…"

La General Electric non è certo la sola, un altro storico colosso dell'economia statunitense, General Motors, ad esempio,

"non ricava quattrini dai motori ed era in utile solo grazie alla sua sussidiaria finanziaria, la Gmac. Attraverso Gmac l'erogazione di mutui è l'attività più lucrosa. In effetti Gm sta facendo un lavoro simile a Fannie and Freddie incoraggiando gli acquirenti delle auto e i proprietari di case a indebitarsi e spendere."

La serie di scandali societari iniziata con il fallimento della Enron passando per quello di Worldcom ha mostrato quanto fossero diffuse anche pratiche peggiori di uso spregiudicato della leva finanziaria da parte delle imprese statunitensi.

La storia della Enron è un vero paradigma del capitalismo finanziarizzato. Inizialmente essa si limitava a produrre energia elettrica. Il primo mutamento consistette nella sua trasformazione in impresa che vendeva energia prodotta anche da altri, puntando al vantaggio competitivo derivante dall'acquisizione di una particolare competenza nella valutazione delle variazioni dei prezzi sui mercati. Enron si è proposta gradualmente come società in grado di coprire i rischi derivanti dalle oscillazioni dei prezzi dei prodotti energetici con emissione di prodotti finanziari derivati, dando luogo a un modello di business nel quale "l'informazione, insieme a una modesta presenza di asset fisici, era la chiave per dominare i mercati dell'energia..."

L'afflusso di capitali, accompagnato dalla manipolazione dei conti e dalla pratica di vendere sotto forma di prodotti finanziari utili futuri (future) semplicemente per provocare l'ingresso nella società di nuovi capitali, permise alla Enron di internazionalizzarsi entrando in nuovi mercati attraverso l'acquisto di società estere e trasformandosi in conglomerata.

Il passaggio al business basato sull'informazione richiede una radicale trasformazione del modello organizzativo. L'azienda si deve adattare ad un orizzonte globale e mutevole. I dipendenti operavano su progetti che se potevano dare risultati in sei mesi bene, altrimenti era meglio non parlarne più. Tale attitudine a operare sul breve termine era potentemente stimolata da un sistema finanziario pronto a premiare le performance di breve periodo, che di riflesso incentivava tutte le pratiche di manipolazione dei conti, e l'uso massiccio di stock option per stimolare i manager ad aumentare gli utili.

Insomma, fu la strategia basta sullo shortermism a portare Enron alla rovina.

Con "l'impresa globale" si è passati da una fase in cui l'imperativo era concentrarsi sulla massimizzazione del plusvalore prodotto a un'altra in cui è prevalsa l'attitudine a entrare in mercati e attività nuove diversificando gli investimenti e conglomerandosi.

Anche se la tendenza a conglomerarsi non è una novità è comunque da sottolineare che a partire dagli anni Novanta è un fenomeno sempre più ricorrente, che porta ad una sempre maggiore centralizzazione dei capitali.

La conglomerazione provoca un mutamento della stessa struttura dell'impresa: da entità orientata alla produzione di determinati beni e servizi a entità molto più flessibile, che può crescere con estrema velocità entrando in nuove attività, per il cui sviluppo grande importanza assume la leva finanziaria e la formazione di vaste reti politico-finanziarie di intermediazione.

Insomma, l'impresa industriale assume autonomamente una funzione che è propria delle istituzioni finanziarie: l'allocazione delle risorse finanziarie fra i differenti tipi di attività e la copertura dei rischi. Enron si è addirittura spinta oltre, in quanto si è applicata a comprare rischi altrui e a rivenderli sotto forma di prodotti derivati.

Considerando questo complesso di trasformazioni, ancora oggi in corso, si può arrivare a sostenere che la vecchia distinzione tra capitale industriale e capitale finanziario si sta facendo sempre più incerta, per lasciare il posto ad un panorama alquanto nebuloso.

L'autonomizzazione dei sistemi finanziari

Quasi dappertutto le specializzazioni e i confini che separavano le diverse forme di attività finanziaria tendono a scomparire. All'interno di questo processo di de-specializzazione si sta realizzando la convergenza tra attività bancaria e attività assicurativa. Basti pensare che le assicurazioni stanno in misura crescente comprando rischi e le Banche hanno preso a vendere una parte dei crediti, che ora vengono normalmente acquistati da investitori istituzionali.

Da molto tempo le grandi società di assicurazione riassicurano i rischi delle società minori; tuttavia se in passato le compagnie riassicuratrici tenevano nei propri portafogli i rischi riassicurati, ora li trasferiscono a loro volta ai mercati sotto forma di derivati.

In conseguenza di questi cambiamenti, che comportano un'ulteriore compenetrazione tra attività creditizia e assicurativa, banche e assicurazioni devono acquisire sempre più flessibilità e capacità di muovesi nei mercati finanziari, dando vita a grandi reti distributive globali. Reti finanziarie che più crescono e si internazionalizzano più sfuggono al controllo degli Stati.

Le manovre finanziarie diventano così sempre più anonime e impersonali: oggi, attraverso la vendita di derivati, le banche d'investimento gestiscono grandi masse di rischio con criteri statistici, utilizzando ampiamente modelli matematici e infrastrutture informatiche.

Si potrebbe allora obiettare che una tale distribuzione dei rischi possa aumentare la stabilità dei mercati finanziari col fatto di socializzare rischi e benefici. Chi però confronta gli attuali conti economici delle banche con quelli di venti anni fa, constata che la gran parte delle entrate proviene da commissioni legate alla vendita di prodotti finanziari, occupando lo spazio proprio della finanza.

A questo punto sorge naturale una domanda: banche e assicurazioni spostano parti consistenti dei rischi ai mercati, ma da chi sono composti i mercati? La risposta mette in evidenza quella che è la tendenza principale: il trasferimento dei rischi viene spostato dalle istituzioni finanziarie alla società, ai risparmiatori, alle famiglie:

"Uno degli indici empirici più evidenti della trasformazione del mondo finanziario è l'inversione del servizio di banca: fino a trent'anni fa il sistema del credito era totalmente attivo nella raccolta e collocazione di capitali individuali, pagando o richiedendo un interesse ai loro possessori o utilizzatori; oggi sono principalmente i possessori di denaro, poco o tanto, che si rivolgono alla banca per un servizio passivo di mera gestione del denaro, per il quale pagano esose commissioni. E anche a monte dello sportello bancario la trasformazione è evidente: il caso Parmalat ci ha mostrato un sistema fatto di colossi mondiali del credito che usano sistematicamente aziende complici non per raggruppare capitali da investimento produttivo, ma per "rapinare i risparmi delle vecchiette" bombardando a tappeto i mercati con "titoli spazzatura" internazionali." (L'autonomizzarsi del Capitale; "n+1" n. 17)

Il caso dei titoli spazzatura in Usa, quello dei Bond argentini, Cirio, Parmalat, la dice lunga sul livello di irrazionalità dei sistemi finanziari.

Stessa situazione quando gli Stati attraverso la riduzione della copertura pensionistica pubblica trasferiscono alle istituzioni finanziarie la gestione dei fondi pensionistici.

La crescita esplosiva di prodotti finanziari aumenta la volatilità dei mercati. Tale crescita è trainata dall'emissione di derivati la cui funzione è quella di coprire vari tipi di rischi distribuendoli a una platea sempre più vasta e il cui uso dilata enormemente i volumi trattati. I sistemi di incentivazione adottati stimolano quindi comportamenti speculativi: cavalcando il mercato trimestre su trimestre si bada unicamente a quanto più profitto è possibile ottenere e si privilegiano i risultati di breve termine, fregandosene del resto.

Di qui l'ultrasensibilità dei mercati e la loro esposizione a un rischio sistemico che può provocare insolvenze e fallimenti a catena.

D'altro canto i derivati possono essere si visti come fattori di copertura dei rischi, ma altrettanto come fattori di dilatazione del rischio. Come diceva Marx, la risoluzione delle contraddizioni del sistema non fa altro che spostarle nel futuro ingigantendole.

L'enorme attività di trading (acquisto e vendita di prodotti finanziari) non aumenta il rendimento medio del capitale finanziario, che in ultima analisi deriva dal plusvalore prodotto nell'industria e dai servizi e poi messo in circolazione, ma fa crescere enormemente la speculazione:

"Fino a ora […] i mercati finanziari hanno venduto "materiale" vero, nel senso che i prezzi dei titoli grosso modo hanno continuato a corrispondere alla crescita delle società e dei loro utili (in generale, ovviamente).

Al di là della linea di confine che si sta per attraversare, invece, questo non è più vero. E quindi si andrà a comprare (per chi ci andrà) sulla base non più di "compro per 100 euro quello che vale effettivamente 100 euro", ma sulla base della speranza di future performance (migliori) o sulla base della speranza che ci sia qualche guerra azionaria che consenta di ricavare di più del giusto prezzo. In sostanza, finora i mercati hanno viaggiato (anche se hanno molto corso) su un terreno solido, al di là della linea di confine che abbiamo indicato (e che sta poco più avanti) si camminerà invece su un terreno fatto più di sogni e di profezie." (I quattro motori che spingono le Borse, Giuseppe Turani, Affari & Politica, "la Repubblica" del 20/05/07)

Si pensi agli hedge funds (fondi con un giro d'affari che ormai si misura in termini di trilioni di dollari) che operano con criteri fortemente speculativi e che, potendo avere efficacia anche contro i mercati, consentono di ridistribuire le perdite e addirittura di guadagnare quando i mercati perdono. Anche i fondi di Private equity (fondi che raccolgono soldi da grandi investitori internazionali e che poi li mettono in aziende con lo scopo di ricavarne nel giro di qualche anno laute plusvalenze rivendendo il tutto a qualche altro soggetto) aumentano la liquidità dei mercati e la speculazione selvaggia, soprattutto quando utilizzano le aziende come dei contenitori per attività di pura compra-vendita.

L'attività imprenditoriale è quindi sempre più dominata dalla fredda asetticità delle previsioni matematico-statistiche finalizzate alla ricerca di guadagno veloce: le azioni emesse dalle imprese e quotate in Borsa sono diventate anche il "sottostante", che serve da parametro di riferimento, a strumenti finanziari complessi scambiati ogni giorno senza che ciò implichi, nella maggior parte dei casi, una valutazione sulla caratteristica e sul valore delle imprese.

In generale si sta realizzando la previsione di Keynes: con la dilatazione dei mercati finanziari l'impegno degli operatori si sposta dallo sforzo di prevedere il rendimento futuro degli investimenti, che richiede una conoscenza dei progetti industriali delle imprese nelle quali si investe, a un barcamenarsi volto a percepire la psicologia dei mercati, così che il funzionamento di essi subisce una forte torsione speculativa.

Troppo capitale poca valorizzazione

Alla base della previsione di Keynes c'è una evidente capitolazione ideologica di fronte alla ben più salda previsione di Marx. E' infatti nei Grundrisse (Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica), gli appunti preparatori alla poderosa opera successiva, che Marx affronta la difficoltà crescente della valorizzazione del capitale con lo svilupparsi del modo di produzione capitalistico.

In pagine ad altissimo potenziale dialettico Marx mette in luce come il modo di produzione del capitale ha nel suo Dna l'aspirazione al plusvalore relativo, ossia l'impulso crescente allo sviluppo delle forze produttive.

Ma proprio qui il capitale si scontra in barriere inerenti alla sua stessa natura, che fanno apparire il suo modo di produzione come un'epoca dell'evoluzione umana soltanto transitoria, anche se storicamente necessaria per il passaggio ad una società superiore.

Il capitale accresce le forze produttive in quanto solo così si valorizza, cioè crea plusvalore.

Ma la sua valorizzazione è costretta a muoversi all'interno dei limiti angusti del rapporto tra lavoro necessario e plusvalore. Ne segue che la valorizzazione del capitale incontra difficoltà tanto maggiori quanto più le forze produttive sono già sviluppate e il lavoro necessario dell'operaio si avvicina al limite:

"Un bel guaio per il Capitale moderno. Esso avrebbe assolutamente bisogno di potenziare i fattori di accumulazione come nella sua infanzia e maturità, ma una volta giunto alla fase senile non può fare altro che soffocarli, adattandosi alla legge auxologica, cioè degli incrementi di sviluppo a saggio decrescente. I bambini crescono, i vecchi no; e anche se crescessero, come gli alberi, la nuova massa si aggiungerebbe alla massa che già esiste in percentuale decrescente (a un centimetro l'anno il tronco si accresce del 10% sul diametro di 10 centimetri, ma dell'1% quando ha raggiunto il metro). Il risultato è che si stabilizza la tendenza alla diminuzione del saggio di profitto e, alla lunga, non essendoci l'allargamento conseguente della produzione, anche della massa (la massa del plusvalore si ottiene moltiplicando il salario per il saggio di sfruttamento; quindi, a produttività costante, se scende la massa dei salariati scende la massa del plusvalore). In poche parole: mentre una volta si poteva passare dal 10% di profitto su 10 miliardi al 9% su 12 incrementando ugualmente la massa, oltre a un certo limite non si può continuare, dato che il capitale prodotto in precedenza non basta ad anticipare la quantità necessaria all'incremento, e soprattutto non esiste una popolazione consumatrice a tal punto da far salire i parametri del modello in modo equilibrato. Non si può insomma, quando si dimezzi il saggio di profitto, raddoppiare il capitale anticipato per mantenere costante la massa e nel frattempo non assumere, anzi, licenziare operai." (Stato di avanzata decomposizione; "n+1" n. 9)

Nei Grundrisse Marx fa un esempio abbastanza semplice per dimostrare l'insanabile contraddizione che si sviluppa all’intero del processo di accumulazione capitalistico:

"Supponiamo che il raddoppiamento della produttività abbia ridotto il tempo di lavoro necessario dalla metà ad un quarto di giornata; così il capitalista ha guadagnato 1/4 di giornata in plusvalore. Posto ora che la produttività si raddoppi, il tempo di lavoro necessario scenderà da 1/4 ad 1/8 della giornata e il plusvalore non aumenterà che di 1/8. Ne segue che, con ogni aumento ulteriore della produttività, l'aumento relativo del plusvalore decresce."

Quindi, quanto più è sviluppato il capitale e le sue forze produttive, tanto più si riduce l'aumento del plusvalore che il capitale ottiene dall'aumentata produttività del lavoro.

"Esso [il capitale] può muoversi solo entro questi confini e questo decreta la sua morte potenziale. Quanto più è già ridotta la frazione che spetta al lavoro necessario, ossia quanto maggiore è il plusvalore estratto da ogni singolo operaio, tanto meno un qualsiasi aumento della produttività può ridurre sensibilmente il lavoro necessario, giacché il denominatore (capitale costante: impianti, macchinari, ecc.) è intanto aumentato enormemente.
L'autovalorizzazione del capitale diventa più difficile nella misura in cui esso è già valorizzato",
cosicché, a un certo punto, "l'aumento delle forze produttive diverrebbe indifferente per il capitale, e lo diverrebbe la stessa valorizzazione […], perché le sue proporzioni si sono ridotte al minimo. In tal modo, esso avrebbe cessato di essere capitale." (Grundrisse)

Ad un certo punto l'aumento della produttività del lavoro diventa indifferente per le aziende che hanno già grandi impianti, anzi con la finanziarizzazione delle imprese il legame con la produzione, pur sempre indispensabile, diventa lontano e invisibile: l'azienda giunge ad una situazione di indifferenza tra saggio di profitto e saggio di interesse (Enron, Parmalat, Telecom, ecc.).

D'altronde lo stesso Marx annota che non appena il lavoro in forma immediata cessa di essere la fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d'uso. Ma allora, se il capitale è tale solo in quanto si contrappone al lavoro vivo, solo in quanto perpetua questa relazione antitetica (l'estrazione di plusvalore), la finanziarizzazione si può anche leggere come una forma di mistificazione al venir meno di questo rapporto fondamentale.

Questo scollamento della finanza dalla base produttiva non è pianificato dai governi o da spregiudicati gruppi finanziari come molti riformisti ci vogliono far credere, è invece il risultato materiale dello sviluppo delle forze produttive del capitale oltre quel limite (ossia quando l'aumento delle forze produttive diviene indifferente per il capitale) di cui parla Marx. La scoperta di questa contraddizione esplosiva non è una novità degli ultimi trent'anni, ma rientra in linea di principio nella teoria marxiana del profitto: il capitale è tale solo perché ha la continua tendenza ad accrescersi, se l'industria arranca e il plusvalore prodotto cala in proporzione al capitale anticipato, il capitale deve trovare altre fonti di valorizzazione, fittizie quanto si vuole… poi si vedrà. Questa è, in ultima analisi, la base su cui si sviluppa il nuovo paradigma economico.

Crisi di sovrapproduzione

Dopo questa digressione di ordine teorico ritorniamo alla cronaca dei fatti. Per arrivare a trattare più estesamente la crisi del 2000-2 dobbiamo necessariamente passare per la crisi giapponese e per quella delle Tigri asiatiche.

All'origine della crisi giapponese del 1989 vi era innanzitutto il surplus strutturale della bilancia commerciale, frutto di una permanente distorsione del rapporto tra economia giapponese ed economia mondiale. L'enorme afflusso di valore che proveniva dal resto del mondo, anno dopo anno, non riusciva ad essere messo in circolazione all'interno dell'economia, oramai satura. Il Giappone disponeva di un enorme surplus della bilancia commerciale ma non aveva una politica adeguata a reinvestirlo all'estero. Gran parte di quel fiume di liquidità si riversò allora sulle azioni mobiliari e immobiliari nazionali facendone salire i prezzi alle stelle e preparando così il crollo dei prezzi, lo scoppio della bolla e la lunga deflazione che ne seguì.

A ben guardare, anche la crisi finanziaria statunitense e mondiale del 2000-2 ebbe origine dal rapporto distorto dell'economia statunitense con l'economia mondiale. La corsa dei capitali stranieri verso gli Usa fu la causa principale del verificarsi della crisi finanziaria, amplificata dalla favola della new economy. In tempi in cui i capitali faticano a trovare centri di valorizzazione adeguata, alla prima avvisaglia di euforia economica si precipitano in massa e al primo segno di cedimento sincronizzati si danno alla fuga alla ricerca di una nuova preda.

Si tratta quindi di un fenomeno strutturale: la sovrapproduzione di capitali e la caduta del tasso di profitto vanno di pari passo con le privatizzazioni delle imprese e dei sistemi pensionistici comportando la produzione di un'eccessiva ricchezza finanziaria che non trova valorizzazione nell'economia reale. Come diceva Marx:

"Quanto più acute e frequenti diventano le rivoluzioni di valore, tanto più il movimento del valore autonomizzato, automatico, operante con la violenza di un processo elementare di natura, si fa valere contro la previsione e il calcolo del singolo capitalista, tanto più il corso della produzione normale viene ad assoggettarsi alla speculazione anormale e più grande diviene il pericolo per l'esistenza dei capitali singoli " (K. Marx, Il Capitale II, Editori Riuniti, pag.108)

Del resto la crisi Giapponese è stata seguita dalla crisi delle Tigri asiatiche, a dimostrazione che i problemi non erano limitati a una distorsione dell'economia giapponese, ma ad una ben più grave ed estesa crisi di sovrapproduzione.

Gli alti tassi di crescita delle Tigri e le facilitazioni per i capitali esteri hanno effettivamente provocato disponibilità per un'ulteriore crescita, per cui il circolo "virtuoso" ha richiamato capitali ad alta disposizione di rischio, investimenti di portafoglio di breve e brevissimo termine. Da dove venivano se non dall'esuberante e ineguagliata estorsione di plusvalore occidentale? E' vero che con questo le Tigri hanno potuto finanziare di tutto, i grattacieli gemelli più alti del mondo, i centri commerciali più grandi del mondo, il ponte più lungo del mondo, l'aeroporto più efficiente del mondo ecc. Ma è anche vero che le loro economie, spinte dall'inerzia dei passati successi a funzionare come al solito, non hanno tenuto conto, esattamente come successe prima in Giappone, che il boom economico di 15 anni aveva portato una quantità enorme di plusvalore a fissarsi come lavoro morto soprattutto nella rendita immobiliare urbana, sui cui prezzi si fissano i prestiti ipotecari e in genere le garanzie sulla circolazione di capitale creditizio. Ma il prezzo immobiliare rappresenta il valore passato, non attuale. Infatti il crollo dei prezzi immobiliari ha provocato uno squilibrio fra i prestiti e la loro copertura a garanzia, con relative restrizioni alla finanza facile.

Quando gli analisti degli istituti internazionali sono andati a vedere i conti per capire se si sarebbero potuti stanziare fondi di aiuto con sicurezza, hanno scoperto con sgomento che per molti anni, sempre sull'onda del boom economico, la maggior parte delle imprese si era indebitata senza ricorrere a ricoperture del rischio quando le loro garanzie erano venute meno. Così le banche avevano continuato a fornire prestiti (cioè avevano pompato plusvalore dall'Occidente e dal Giappone verso l'Oriente) fino all'assurdo. Per esempio, la Malaysia, uno dei paesi che più ricorreva agli investimenti interni per sostenere la sua crescita, ha visto crollare il mercato immobiliare e, subito dopo, il mercato azionario. Quest'ultimo ha perso, ancor prima che la crisi esplodesse in tutta la sua virulenza alla fine del '97, 58 miliardi di dollari, più dell'intero suo Pil, mentre le banche denunciavano crediti interni per un ammontare pari al 170% del Pil. Lo stesso dicasi per le banche indonesiane, i cui conti non è stato possibile verificare neppure dopo la crisi e che si stima abbiano accumulato un debito verso l'estero (per finanziare attività interne) pari a 90 miliardi di dollari, di fronte a riserve centrali dell'Indonesia pari a 21 miliardi. Tutte queste cifre vanno lette con l'attenzione rivolta alla grande massa di capitali dei paesi sviluppati che si era fissata nelle economie asiatiche.

Il sistema del credito alimentava ancora l'economia, ma non poteva durare e infatti non è durato. La Corea, in crisi da tempo, per esempio, drogava l'economia e manteneva aperte le fabbriche fallite, col risultato di indebitarsi, per cui il Fmi dovette intervenire con urgenza versando la prima tranche di 16 miliardi di dollari su 57 miliardi in tre anni. Non appena gli investitori stranieri, specie i fondi assicurativi americani che hanno bisogno di alte performance per garantire l'assistenza ai loro iscritti, si accorsero del potenziale pericolo, incominciarono a rifluire verso Wall Street.

Questa massa di capitali che vaga per i mercati sconvolgendo intere economie, si concentra nelle mani di ristretti gruppi di potere e qualora non trovi centri di valorizzazione si riversa in misura consistente nell'acquisto di azioni patrimoniali, immobiliari e azionarie, facendone lievitare il prezzo. Si sta formando un circolo vizioso:l'aumento di valore delle azioni fornisce ai privati la possibilità di aumentare l'uso della leva finanziaria e quindi di accrescere la domanda di azioni facendone ancora salire il prezzo… il tutto funziona finché la bolla non scoppia.

Nell'ultimo quarto di secolo l'aumento di valore delle azioni ha di gran lunga superato il tasso di crescita dell'economia reale. La crescita dei prezzi delle azioni è quindi largamente inflazionata: l'inflazione si scarica sulle azioni, poiché il valore delle azioni nei paesi avanzati rappresenta un multiplo spesso elevato del valore del prodotto nazionale. Il fatto che il prezzo sia inflazionato sta a significare che larga parte del valore è fittizio non avendo corrispettivo in merci.

E' possibile una riforma del sistema?

Il ripetersi delle crisi finanziarie e l'accumularsi di nuovi squilibri sullo scenario mondiale hanno da tempo alimentato un dibattito sulla riforma del sistema di regolazione dell'economia mondiale creato a Bretton Woods ed entrato in crisi dal 1971 con l'unilaterale decisione degli Usa di scollegare il dollaro dalle proprie riserve auree. Da quel momento con l'entrata in scena del potere di Reagan e della Thatcher prevalse l'idea che ciascun Stato potesse mettere ordine in casa propria, vale a dire rientrare dall'inflazione e dai deficit pubblici, privatizzare e flessibilizzare il mercato del lavoro; al resto avrebbe pensato la mano invisibile del mercato. Fu la fase euforica della cosiddetta deregolamentazione dell'economia: una sorta di de-responsabilizzazione verso l'economia che si pretendeva trasformare in teoria economica.

Ma il ripetersi e l'aggravarsi delle crisi finanziarie fece indietreggiare i governi verso un tentativo di re-regolamentazione dell'economia. A quegli anni è da datare la nascita del gruppo di Basel da parte del G10 e l'emissione delle norme di Basilea I e il summit dei G7 a Colonia nel 1999.

Nello stesso tempo stava diventando senso comune la messa in discussione di alcuni Pilastri del Washington consensus. Ormai in documenti dell'Onu e dell'Apec e perfino del Fmi si può leggere che non è bene accelerare troppo i movimenti di liberalizzazione dei capitali (come se fossero i governi a poter decidere il tipo di sviluppo del capitalismo e non viceversa).

Inutile notare che rispetto a quegli anni non si sono fatti passi avanti, la stessa proliferazione di organismi più o meno informali quali i gruppi G, G8, G10, G20, G22, G24, G33, G77, e la loro sostanziale inutilità testimoniano l'impossibilità di qualsivoglia riforma del mercato mondiale.

Qualsiasi ipotesi di sistema post Bretton Woods va inevitabilmente a cozzare contro gli interessi degli Stati Uniti, refrattari ad accettare qualsiasi vincolo alla propria politica economica. Il sistema capitalistico ha sempre più bisogno di un centro unico che controlli il fatto politico-economico, ma proprio lo Stato a cui il sistema ha dato questo compito è il più refrattario ha ogni tipo di controllo.

Rodrigo Rato, direttore del Fmi, espone infatti una tesi che va a confermare quanto detto:

"Il più visibile aspetto degli squilibri globali sono il deficit molto ampio della bilancia dei pagamenti Usa e i corrispondenti larghi surplus nelle bilance degli altri paesi."

L'America predica libertà di mercato mentre corazza la sua struttura statalista, centralista, dirigista, monopolista e militarista. Gli Stati satelliti sono costretti a tenere atteggiamenti del tutto schizofrenici: da una parte devono partecipare al sistema mondiale americano, cioè lasciar libero corso alle scorribande del capitale i cui flussi, manco a dirlo, privilegiano l'unico centro imperialista rimasto; dall'altra devono anche correre ai ripari, rafforzare il controllo dello Stato per non passare da satelliti a schiavi. La politica dell'Unione Europea, se di unione è corretto parlare, è il prodotto di questa schizofrenia.

L'immane idrovora finanziaria

Una semplice occhiata ai dati relativi ai flussi finanziari a livello mondiale mostra come la direzione dei flussi di valore sia stata strutturata dalla formidabile forza di attrazione della galassia centrale, cioè dall'economia statunitense. E tale attrazione finora è cresciuta al diminuire della capacità del sistema statunitense di auto-finanziarsi.Esiste un gran divario tra il fabbisogno finanziario del settore pubblico dell'economia statunitense e la capacità del settore privato di finanziarlo; ciò è una caratteristica che si afferma durante l'intero quarto di secolo che parte dalla ristrutturazione economica di Reagan.

Il deficit finanziario statunitense sta crescendo enormemente negli ultimi anni. Nel periodo delle amministrazione Reagan l'elemento trainante è stato l'esplodere del deficit pubblico. Nell'era Clinton il deficit pubblico è diminuito, ma il deficit finanziario complessivo del sistema economico è restato invariato.

Dopo l'avvento al potere di Bush jr. il deficit finanziario è fortemente aumentato in seguito a una nuova esplosione del deficit pubblico: il bilancio pubblico statunitense è passato infatti da un attivo di circa il 2,0% del Pil nel 2000 a un passivo di circa il 6,0% nel 2003, salto che non è stato compensato dall'aumento del risparmio privato dovuto alla forte riduzione dell'indebitamento delle imprese.

Negli Stati Uniti durante gli ultimi venticinque anni ci sono stati periodi nei quali tutti i settori dell'economia, Stato, famiglie, imprese, erano prenditori netti di denaro. Il rapporto fra deficit finanziario del sistema pubblico e deficit della bilancia dei pagamenti correnti, i cosiddetti deficit gemelli, ci ricorda che l'economia statunitense ha costantemente una eccessiva domanda interna; ciò provoca un'importazione di merci dall'estero che deve poi essere compensata da un'importazione di capitali.

La progressiva capacità di indebitamento Usa è favorita dal fatto che il dollaro è ancora (per quanto ancora?) la moneta internazionale di gran lunga più importante, sia come valuta di riserva sia come valuta di scambio. Dai dati non solo emerge che il flusso di capitali in entrata è in costante aumento, ma che la sua composizione muta considerevolmente. Nel 2000, in linea con quanto avveniva nel decennio precedente, i flussi più importanti erano quelli privati diretti all'acquisto di titoli privati e pubblici statunitensi o a investimenti diretti. Ma dopo la crisi di Wall Street del 2000-2 gran parte dei flussi, nel 2004 quasi i quattro quinti del totale, proviene dalle banche centrali per l'acquisto di riserve ed è volta a sostenere il dollaro.

L'indebitamento sull'estero, che dura ormai da decenni, sta provocando negli Stati Uniti uno scellerato peggioramento della posizione patrimoniale. Gli Usa sono diventati debitori netti sull'estero alla fine degli anni Novanta e nel 2004 avevano già accumulato un debito netto di 3320 miliardi di dollari pari al 25% del prodotto lordo, malgrado un beneficio di circa 800 miliardi derivante dalla svalutazione del dollaro nei confronti dell'euro; il che significa che una parte del peso del debito statunitense è stato scaricato sugli altri paesi. La previsione è che nel 2008 l'indebitamento netto raggiungerà il 50% circa del prodotto lordo.

La voragine rappresentata dall'economia statunitense assorbe gran parte dei flussi finanziari netti mondiali: è come se un buco nero si fosse prodotto al centro del sistema finanziario globale dice Silvano Andriani nel suo libro L'Ascesa della Finanza. Dati del Fmi mostrano come paesi "emergenti" stiano finanziando con esportazioni di capitali gli Stati Uniti, ciò consente ormai da un quarto di secolo agli statunitensi di vivere al di sopra dei propri mezzi. Il fatto che il paese più ricco e più potente del mondo assorba, per finanziare il proprio tenore di vita, una così larga parte delle risorse mondiali rappresenta la più grande e catastrofica distorsione del mercato mondiale.

Ma da cosa dipende questa fatale attrazione esercitata dall'economia statunitense sui capitali di tutto il mondo?

Bisogna distinguere tra due fasi.

Durante gli anni Novanta vi è stata innanzitutto una massiccia ondata di investimenti negli Usa, proveniente dagli altri paesi volta all'acquisto di imprese statunitensi nella convinzione di potere così ridurre il gap tecnologico, soprattutto nei settori ad alta tecnologia. Gli investimenti di portafoglio, diretti all'acquisto di Bond, titoli pubblici e soprattutto azioni, provenivano anch'essi in gran parte da paesi avanzati, nella presunzione di ottenere negli Stati Uniti maggiori rendimenti.

I fatti hanno smentito l'aspettativa. I dati concernenti i flussi di capitali relativi al pagamento e all'incasso, derivanti dagli asset Usa sull'estero, mostrano che il rendimento degli investimenti Usa all'estero è stato, nella media degli anni Novanta, sensibilmente superiore al rendimento degli investimenti esteri negli Stati Uniti.

Il vantaggio per gli Usa è rappresentato dal fatto che il dollaro era ancora la principale moneta internazionale; ma l'attrazione fatale dei capitali privati esteri in Usa era dovuta anche a una convinzione di carattere ideologico relativa alla superiorità del modello statunitense.

Tale convinzione era alimentata dalla pseudo-teoria allora dominante, quella fondata sulla new economy, sostenuta a un certo punto anche da Alan Greenspan: in seguito alla rivoluzione economica e alla globalizzazione, il ciclo economico sarebbe definitivamente scomparso e le economie sarebbero cresciute senza soluzione di continuità… così almeno si diceva.

Dopo la crisi del 2000-2 (con l'esplosione della bolla tecnologica) la composizione dei flussi verso gli Usa è mutata: gli investimenti privati diretti verso gli Usa sono drasticamente calati, mentre rapidamente sono aumentati gli acquisti di riserve in dollari da parte delle banche centrali, soprattutto di quelle asiatiche.

La situazione dell'economia statunitense porta a delle derive paradossali: il rendimento costante più basso degli investimenti in Usa rispetto a quelli degli investimenti statunitensi all'estero produce l'eclatante risultato, per esempio, del 2004 quando gli Stati Uniti, pur essendo debitori netti per un ammontare enorme pari al 25% circa del loro prodotto interno lordo, hanno incassato dai loro averi all'estero più di quanto hanno pagato per i loro debiti. In altri termini, tutto il loro indebitamento netto è a titolo gratuito.

Nonostante tutto ciò, l'economia americana è stata per tutti gli anni Novanta l'unica locomotiva dell'economia mondiale, locomotiva il cui carburante viene fornito dal resto del pianeta. O, se vogliamo, una immane idrovora, che risucchia capitali da tutto il mondo e proietta una domanda netta di beni che stimola la crescita degli altri paesi attraverso le esportazioni. Ha sostenuto anche l'asfittica crescita dell'economia europea e giapponese, ma soprattutto le straordinarie performance della Cina, dell'India e del Sudest asiatico.

La Cina sta diventando, a sua volta, una locomotiva dell'area asiatica e non solo. Basta considerare come l'integrazione economica dell'area, accelerata dopo la crisi finanziaria del Sudest asiatico del 1996-1998, derivi innanzitutto dall'enorme crescita delle importazioni cinesi da tutti i paesi del Sudest asiatico. Ma la crescita dell'economia cinese, a sua volta, è ancora fortemente dipendente dalle esportazioni negli Stati Uniti, come dimostra il crescente ed enorme attivo della sua bilancia di pagamenti corrente verso gli Usa, che gareggia per dimensioni con quello del Giappone.

La Cina, in misura crescente, acquista semilavorati dai paesi vicini che le servono per produrre beni che in larga parte esporta negli Stati Uniti. L'enorme attivo della bilancia commerciale cinese genera comunque problemi non di poco conto per la sua economia (e per il resto del mondo), ne è prova il "martedì nero" - febbraio 2007 - della Borsa di Shanghai (scatenato dalle voci sull'introduzione di una imposta sulle plusvalenze azionarie) e le preoccupazioni successive per il formarsi di una bolla finanziaria:

"Con 2.000 miliardi di euro depositati su libretti di risparmio bancari e BoT che danno un interesse reale negativo (2,5% di rendimento contro un'inflazione del 3%) non c'è da stupirsi che i cinesi cerchino investimenti più remunerativi per assicurarsi la propria vecchiaia o per finanziare gli studi dei figli. L'unico altro mercato che ha offerto risultati altrettanto spettacolari della Borsa è quello immobiliare, ma l'investimento in appartamenti è meno liquido, e il rischio di "bolla" nelle grandi città come Pechino e Shanghai è altrettanto forte. Un'altra causa strutturale del rialzo azionario è la non convertibilità della moneta e la politica di sottovalutazione del cambio. I cinesi sono costretti a investire a Shanghai e Shenzhen perché non hanno ancora la libertà di diversificare sulle Borse estere. Inoltre con un renminbi si comprano appena dieci centesimi di euro, una parità che non riflette l'equilibrio tra domanda e offerta sul mercato, e alimenta il crescente attivo commerciale della Cina verso gli Stati Uniti e l´Europa: questo attivo a sua volta si traduce in afflusso di liquidità, che la banca centrale cinese fa fatica a "sterilizzare". Il credito facile è quindi un'altra causa di surriscaldamento dei mercati. […] Al culmine della bolla speculativa della New Economy, nella primavera del 2000 al Nasdaq il price-earning medio aveva raggiunto quota 100. Ma i vertici del regime di Pechino non si lasciano rassicurare. Il governo ricorda che all'inizio degli anni Novanta ci fu una "febbre" simile, poi conclusa catastroficamente con la crisi asiatica del 1997. Oggi la prospettiva di una bolla che scoppia fa più paura, perché la platea dei piccoli risparmiatori si è molto allargata. Le eventuali perdite di un crac potrebbero intaccare il consenso politico verso il regime proprio nella sua constituency più fedele, il ceto medioalto delle grandi città."(Shangai, record assoluto in Borsa ma ora la Cina teme lo "sboom", Federico Rampini, "la Repubblica" 11/05/07)

Cause economiche dell'11 settembre 2001

Ritorniamo alle magagne dell'economia statunitense nel biennio 2000-2 e cerchiamo di cogliere le connessioni tra i cambiamenti economici e i cambiamenti nella politica estera americana post 11 settembre.

Ripetiamo che dal punto di vista della crescita economica e della domanda interna americana, negli ultimi vent'anni, si possono rintracciare due fasi ben distinte:

1) Negli anni Novanta la crescita è stata trainata dai consumi delle famiglie (indebitamento) e dagli investimenti delle imprese tramite l'afflusso di capitali dall'estero.

L'insieme di queste due tendenze ha prodotto notevoli squilibri nell'economia statunitense, che si riverberano poi in quella mondiale. L'eccesso di liquidità e il costo troppo basso del capitale hanno prodotto un eccesso di capacità produttiva, soprattutto nei settori high tech, e un eccesso di rialzo dei titoli azionari, vale a dire una bolla speculativa; quest'ultima, visto l'effetto imitazione, si è riprodotta poi nell'economia mondiale.

2) Dopo la crisi finanziaria del 2000-2, la situazione è in parte cambiata: i tassi di crescita dell'economia statunitense pur restando ridotti sonosuperiori a quelli dell'Europa e del Giappone, ma cambiano i fattori trainanti della crescita. Resta l'azione dei consumi privati, alimentati da un'impennata nel livello di indebitamento delle famiglie e da speculazioni di massa sugli immobili. Queste furono favorite dai bassissimi tassi di interesse.In conseguenza di tutto ciò negli ultimi anni i capitali esteri stanno finanziando non tanto gli investimenti quanto i consumi pubblici e delle famiglie statunitensi.

E' all'interno di questo biennio che l'economia americana abbandona qualsiasi velleità di riordino della propria economia e si appresta ad intraprendere una brusca virata sul piano dell'indebitamento verso l'estero. Ormai non sono più i privati ad investire in Usa, sono aumentati gli acquisti di riserve in dollari da parte delle banche centrali, soprattutto di quelle asiatiche. L'America è legata a doppio filo alla "volontà" del resto del mondo di continuare a finanziare il suo enorme debito pubblico.

In questo frangente (nel passaggio tra le due fasi) avviene l'attacco alle Twin Towers del settembre 2001. L'attacco al cuore capitalistico dell'America, in un momento carico di incognite per l'economia mondiale, non è certo casuale. Riportiamo per l'appunto alcuni stralci dal libro Superclan, chi comanda l'economia mondiale? (ed. Feltrinelli 2003) di Giulietto Chiesa e Marcello Villari, in cui viene abbozzata una spiegazione delle cause che stanno a monte dell'attentato. Anche se in alcuni punti si personalizzano troppo i fatti e si da troppa rilevanza al fattore soggettivo, ci sembra un'analisi interessante, quantomeno per il tentativo di spiegare la svolta politico-militare partendo dall'analisi dei fattori economici:

"Il profeta dell' espansione continua, così è stato definito Greespan, portava l'America a un indebitamento vertiginoso che non era supportato dall'andamento dell'economia. Gli investimenti delle imprese non calavano per mancanza di denaro, ma per un'evidente crisi di sovrapproduzione. Questo andamento non era motivato da ragioni economiche. Restano solo le ragioni politiche e geopolitiche. Cioè gli Stati Uniti non potevano permettersi la classica e sempre salutare crisi ciclica, da cui il capitalismo, nel corso della sua storia, è sempre uscito ottimamente: ripulito dagli eccessi produttivi e finanziari, pronto a ripartire con nuovo vigore, meglio di prima. Certo, avrebbe potuto sgonfiare la bolla speculativa già verso la metà degli anni novanta, limitando i danni ai risparmiatori e ai pensionati americani. Ma questo avrebbe messo in discussione presso l'opinione pubblica mondiale l'idea della crescita senza limiti e senza cicli, il "valore eterno" del modello americano; avrebbe rotto il giocattolo della superclasse, che, fino all'ultimo momento, aveva garantito guadagni fantasmagorici ai Ceo, agli analisti, agli imbonitori mediatici, al circo delle meraviglie di Wall Street. "

E ancora:

"Le basi economiche, i cosiddetti fondamentali, sono indebolite e rischiano di crollare rovinosamente. E l'Impero, dopo aver inondato il mondo di dollari (il debito internazionale americano ammonta oggi a circa 3,5 trilioni di dollari), si trova in grave difficoltà persino nel calcolo del valore reale della sua moneta. Che sarebbe ormai carta straccia se gli Stati Uniti non fossero il centro dell'Impero e non disponessero del più possente apparato militare mai creato nella storia umana. Solo chi ha una forza sterminata non paga i debiti. Gli Stati Uniti sono appunto un debitore insolvente , che non può essere chiamato da nessuno a onorare i suoi debiti. Peggio ancora: il debitore insolvente, che ha uno spaventoso debito interno ed estero, ha un bisogno spasmodico di continuare a indebitarsi, di consumare. E quindi deve avere la garanzia che il risparmio globale continui a fluire verso il dollaro, altrimenti il crollo sarebbe inevitabile. Gli americani non potrebbero più consumare, le imprese non potrebbero più investire se non si attinge al risparmio interno. Ma il risparmio interno non c'è più.
Come realizzare il miracolo? In primo luogo, impedendo che altre monete comincino a rivaleggiare con il dollaro, con l'ambizione di sostituirlo come valuta principale nei traffici internazionali. E' chiaro che stiamo parlando dell'euro, moneta unica del principale alleato degli Stati Uniti. Dunque si esercita una pressione politica e, indirettamente, militare sull'Europa, affinché essa non diventi un competitore economico e finanziario efficace. In secondo luogo, l'obiettivo viene perseguito mantenendo uno stato di tensione permanente - la guerra infinita - in modo da spingere gli investitori globali a riversare i capitali sul dollaro che, in quanto moneta dell'Impero, diventa il rifugio più sicuro in caso di emergenza. Ecco quindi che l'emergenza - fattore politico - diventa dominante rispetto agli fattori economici. Guerre e instabilità globali sono dunque funzionali al continuo flusso di capitali verso l'economia americana e la sua borsa."

Effettivamente la situazione dell'America nell'estate del 2001 è assai preoccupante: sia la produzione industriale che il tasso di occupazione erano in declino. Per di più gli investimenti in attrezzature e software erano scesi del 5,1% rispetto al terzo semestre 2000, proprio il settore che aveva rappresentato il nuovo Eldorado per l'economia mondiale. Troppi segnali indicavano che il giocattolo si era rotto, o che stava per rompersi irrimediabilmente. Nell'aprile del 2001, la Federal Reserve aveva già abbassato quattro volte il tasso di sconto, senza riuscire a invertire la tendenza negativa. Alla fine dell'anno, gli Stati Uniti batteranno tutti i record della loro storia, abbassando il costo del denaro per ben undici volte in un solo anno.

Era quindi necessaria una forte virata e gli strumenti della Federal Reserve non bastavano più. Quella che serviva era un'azione preventiva atta a consolidare un sistema di equilibri mondiali che cominciava a sgretolarsi sotto i colpi della crisi americana. Inutile affermare che il contraccolpo militare in Afghanistan non era una semplice reazione difensiva, bensì l'emergere di nuova strategia politico-militare nei confronti del mondo (studiata e pubblicizzata molto prima dell'11 settembre). Era necessario un drastico ricompattamento del fronte interno e un pretesto per lanciare una guerra permanente su più fronti. Ecco allora come si può leggere l'affermazione di Jim Hoagland che, dalle colonne delll'International Herald Tribune del 23 agosto 2001, poche settimane prima del fatidico 11 settembre, profeticamente scriveva:

la crisi "sta improvvisamente costringendo i più potenti banchieri del mondo, i finanzieri, i politici a compattarsi e - speriamo - a ridefinire alcuni postulati circa le ricchezze e il potere nell'epoca della globalizzazione."

I due giornalisti italiani scrivono: "Era la descrizione del ponte di comando e, insieme, l'annuncio della virata."

Noi aggiungiamo che più che la descrizione del ponte di comando si trattava della descrizione di uno dei tanti terminali che si apprestava a rispondere in maniera coordinata rispetto alle spinte che riceveva. Le determinanti della guerra non stanno nella volontà dei singoli politicanti o militaristi ma altrove, nei meccanismi impersonali della società, a livello nazionale e internazionale.

Il resto è storia recente e ancora in corso: si tratta della politiguerra americana al mondo ("n+1" n. 11) con tappe guerreggiate in Afghanistan e Iraq, e che continua in maniera più o meno sotterranea sulle linee di forza dello scacchiere internazionale, in attesa di manifestarsi in nuovi e più estesi conflitti. Nel frattempo sono cresciuti nuovi giganti economici, in concorrenza sul piano delle materie prime e del controllo delle risorse energetiche. L'enorme concentrarsi di ricchezza in paesi come Cina e India, accompagnato da tassi stratosferici di incremento industriale, produce enormi tassi di risparmio che non vengono investiti solo per lo sviluppo del paese, ma trovano allocazione all'estero. Ecco perché le politiche monetarie seguite dall'amministrazione statunitense e dal governo cinese risultano finora perfettamente complementari: l'eccesso di risparmio dei cinesi serve a finanziare l'eccesso di consumi e di spesa pubblica negli Usa. Viceversa tutto il mondo esprime preoccupazione per le evidenti distorsione che tale andamento sta provocando nell'economia mondiale.

Siamo infatti arrivati a livelli veramente preoccupanti. Il debito federale degli USA è oggi di circa 8,8 trilioni di dollari. Questo non spaventa affatto Washington perché è relativamente basso, circa la metà di quello italiano rispetto al Pil. Ma se si va a ad aggiungere al debito pubblico federale quello degli stati federati e del settore finanziario, gli americani sono i più indebitati del mondo. Aggiungendo poi anche il fenomeno dell'indebitamento interno ad altre voci, il fenomeno non ha eguali nella storia. Il rapporto Debito/Pil diventa astronomico, cioè 48 trilioni di dollari su 12, ovvero il 400%. Bisogna fare questo rapporto perché gli Stati Uniti sono l'unico paese che può utilizzare massicciamente l'emissione di titoli sul mercato internazionale per alimentare il debito interno. Gli altri paesi non possono (cioè non esiste nessuna Cina che compra, mettiamo caso, 1.000 miliardi di dollari in titoli italiani emessi in euro).

Mutamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro

Adesso vediamo come il processo di finanziarizzazione si è tradotto nel mutamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Nei paesi occidentali, gli anni Novanta registrano il persistere di un'elevata disoccupazione. Gli economisti guardano con preoccupazione la forbice che si apre tra produzione e lavoro: la tendenza dimostra come l'aumento degli investimenti e la crescita della produttività possano essere accompagnati dalla perdita di posti di lavoro.

La disoccupazione per tutti gli anni Novanta non è stata riassorbita, inoltre, il sistema economico incontra crescenti difficoltà nel far fronte alla nuova offerta di lavoro, con il conseguente aumento di giovani in cerca di prima occupazione. Il travaso di forza lavoro sembra incepparsi e il tanto decantato terziario non appare più in grado di assorbire l'esubero crescente di uomini in età da lavoro.

Infatti, il settore dei servizi in Italia, ha già superato per numero di addetti quello industriale, sfiorando i due terzi degli occupati complessivi.

Volendo addentrarci nel tema dei rapporti di forza tra le classi, abbiamo già due prime spiegazioni del perché le imprese hanno avuto bisogno di un cambiamento del quadro ideologico e normativo in tema di leggi del lavoro: la precarietà lavorativa e l'utilizzo massiccio di contratti "atipici" è direttamente proporzionale all'incapacità del sistema di assorbire una forza lavoro in costante esubero. Inoltre la precarietà è utile a trarre dalla forza lavoro occupata margini di profitto maggiori. Ma vediamo un po' di cifre che possono chiarirci le idee:

"… nel gennaio 2001, le donne occupate con un lavoro dipendente a carattere temporaneo erano l'11,8%, contro il 7,8% degli uomini; quelle che lavoravano a tempo parziale erano il 16,9% contro il 3,4%. Oltre la metà degli 1,8 milioni di titolari di contratti di collaborazione coordinata e continuativa (al 2000) hanno un titolo di studio non superiore alla licenza media. I lavori di durata temporanea sono in percentuale assai più numerosi tra coloro che hanno meno di 25 anni o più di 45 che non nelle fasce mediane. Tra i 300.000 lavoratori adibiti a missioni "in affitto" nel 2000, tre quarti erano operai – un dato che di per sé qualifica il lavoro interinale più come serbatoio di lavoratori-massa che non come un mezzo per sopperire a carenze contingenti di personale di elevata caratura tecnica, come fu presentato all'inizio. Infine, tutti gli indicatori di insicurezza relativi a genere, titolo di studio e fasce di età sono notevolmente più alti nel Meridione, e toccano i valori massimi quando si tratta di immigrati." (Il costo umano della flessibilità; Luciano Gallino, Laterza 2001)

Il presupposto ideologico che ha giustificato tali repentini cambiamenti,

"… è che il lavoro flessibile, nello stato dell'attuale economia, sia in assoluto e in via definitiva inevitabile, in quanto connaturato all'essenza della globalizzazione; per cui sarebbe fuori dal mondo immaginare un qualsiasi intervento rivolto a limitarne la diffusione, o addirittura a farla regredire" (Il costo umano della flessibilità; Luciano Gallino, Laterza 2001)

Come dice il sociologo Luciano Gallino (L'impresa irresponsabile, Einaudi 2005), gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall'insistente domanda da parte delle imprese di accrescere la flessibilità del lavoro per poter restare ai tempi della globalizzazione all'altezza degli altri paesi. I prezzi delle merci, compreso quello della forza-lavoro, si confrontano direttamente sul mercato globale. Così un salario occidentale non può certo competere con uno cinese o indiano. Per questo leggi apposite (Treu e Biagi) prendono atto del cambiamento cercando di istituzionalizzare le condizioni "asiatiche" venutesi a realizzare sul territorio nazionale. Niente di nuovo si dirà. In effetti è una costante del modo di produzione capitalistico fin dai suoi albori il tentativo di abbassare il salario e rendere la forza lavoro flessibile e divisa. Sarebbe sciocco però partire da questo dato invariante per sottovalutare la trasformazione intercorsa negli ultimi decenni. Si tratta infatti di un cambiamento qualitativo che ha dirette conseguenze nei rapporti di forza e nei rispettivi parametri di organizzazione. Dagli anni Novanta l'ideale perseguito dalle imprese è molteplice: primo, non impiegare e non retribuire nemmeno un lavoratore in più rispetto a quelli necessari al processo produttivo; secondo, fare sì che i lavoratori impiegati siano più flessibili, in modo da ottenere che le ore di presenza siano sature al 100% da lavoro produttivo; terzo, assumere di meno, a costi sempre più bassi, con condizioni a termine. Il lavoro è la principale voce sulla quale fare risparmi, a cominciare dai costi della sicurezza sui posti di lavoro. Nessuno stupore quindi di fronte ai dati sugli infortuni sul lavoro in Italia: 1141 vittime ufficiali, sui posti di lavoro, nei primi nove mesi del 2006, senza contare quelli provocati dalle malattie professionali, ecc.

Queste sono sole le motivazioni di fondo che hanno guidato i governi nel processo di precarizzazione della forza lavoro con conseguente smantellamento delle vecchie conquiste politico-sindacali. E comunque anche gli occupati "stabili" hanno salari sempre più bassi e faticano ad acquistare e a risparmiare (di poveri infatti in Italia, secondo i dati Istat - Rapporto annuale del 2007 - che misurano il fenomeno nei suoi aspetti "relativi", quindi in base ai consumi effettuati, ce ne sono 7 milioni e mezzo. Su dieci famiglie sette vivono al Sud, dove 5 persone su 100 affermano di non riuscire a mettere insieme in modo "adeguato" il pranzo con la cena).

Le ragioni profonde di queste modificazioni dei rapporti di forza vanno ricercate nell'accelerazione della circolazione del capitale che contraddistingue l'attuale fase di del capitalismo. In presenza di tale accelerazione la stabilità vacillante del capitale esige la destabilizzazione di qualsivoglia rigidità del lavoro.

E' chiaro per esempio, che un'azienda quotata in Borsa deve adattarsi il più possibile alle esigenze degli azionisti: se il management di una società vede scendere i profitti o il valore delle azioni, sa bene che prima o poi ne dovrà render conto ai propri azionisti. In questi casi un tipo di intervento particolarmente apprezzato dagli investitori e dalla Borsa è la riduzione, a mezzo di licenziamento, del monte ore dei dipendenti. Tale misura comporta una immediata riduzione dei costi e un aumento della produttività del lavoro.

Anche in questo caso, possiamo osservare come la produzione vera e propria, con tutte le sue componenti (lavoro vivo e capitale fisso), diventi uno strumento virtuale più che la base reale dell'economia.

Uno degli altri metodi adottati dalle imprese per rendersi più dinamiche e flessibili è il frazionamento della catena di produzione del valore in un gran numero di micro-unità produttive, distribuite su ampi territori nazionali e internazionali. Dismissioni, acquisizioni e fusioni hanno facilitato questo processo di socializzazione:

"Acquisizioni, fusioni, ristrutturazioni, finanziarizzazione modificano la forma e l'identità dell'azienda e frantumano la forza lavoro, ma rafforzano il ruolo dell'Azienda come istituzione chiave del mondo post-democratico […]. La sua capacità di decostruzione è la forma più estrema assunta dal predominio dell'azienda sulla società contemporanea." (Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, 2003)

Nel caso delle grandi multinazionali, tipo la Nike, l'azienda madre può controllare una vasta rete di controllate, le quali il più delle volte hanno una personalità giuridica autonoma. Queste aziende controllate fanno a loro volta uso di sub-appalti e di altri tipi di flessibilità del lavoro. Non sussiste pertanto difficoltà ad annunciare all'una e all'altra di esse che a causa dell'andamento del mercato tale azienda o stabilimento deve essere chiuso. Quando il mercato lo richiede la società controllante può quindi decidere la dismissione di interi rami d'azienda, con relativa forza lavoro occupata, senza incorrere in problemi di tipo sindacale o giuridico.

In molti casi, come accennato poc'anzi, si può parlare di dismissioni e di licenziamenti di "convenienza borsistica". D'altronde se la Borsa premia con un rialzo del prezzo delle azioni la scelta di chiudere rami aziendali, per l'azienda non ci sono problemi: ha comunque ottenuto un aumento di valore del titolo, e ciò significa un aumento dei profitti. Che poi questo significhi una distorsione dei progetti industriali, questo poco importa, data la velocità con cui avvengono i cambianti sullo scenario economico mondiale:

"Alla moltiplicazione dei lavori flessibili sono costretti anche i dirigenti d'azienda che non la considerano utile, perché gli investitori istituzionali pretendono da loro tassi di redditività fuori misura. Dall'inizio degli anni Novanta, in tutto il mondo gli investitori istituzionali – in specie i fondi pensione anglosassoni, con portafogli di centinaia di miliardi di dollari – chiedono alle imprese che il loro capitale sia remunerato con tassi del 10 - 15% l'anno. Visto che detengono le quote più corpose del capitale azionario, nessun dirigente, dall'amministratore delegato in giù, può pensare di disattendere le loro richieste. Ma come si fa ad ottenere dal capitale investito nelle imprese un reddito del 10 – 15% l'anno, quando l'economia, ovvero il Pil, cresce nel migliore dei casi al tasso del 3% annuo? Non certo producendo beni e servizi, perché il tasso di crescita del Pil non è altro che la somma, ricalcolata anno per anno in termini reali, del loro valore. Bensì comprimendo allo spasimo i costi di produzione, a cominciare da quello su cui si ha un controllo più diretto – il costo del lavoro. Il proprio e quello dei fornitori. In quanto permettono di stabilire una relazione più stretta tra andamento della produzione e quantità di forza lavoro utilizzata, nonché di ridurre gli oneri indiretti, i lavori flessibili sono uno strumento a cui i dirigenti sono costretti a ricorrere. Anche quelli che si rendono conto che in fondo a questo tipo di tunnel c'è soltanto il buio, cioè un sistema produttivo fortemente vulnerabile." (Il costo umano della flessibilità; Luciano Gallino, Laterza 2001)

L'utilizzo di lavoro precario è quindi un vantaggio per tutti poiché permette alle piccole aziende di adattarsi facilmente al volume delle commesse che arrivano dalle grandi aziende e a quest'ultime di ristrutturarsi velocemente senza incorrere in problemi. Nella Ue a 15, la diffusione di simili politiche dell'occupazione, raccomandate dall'Oecd e fatte proprie dalla Commissione europea, ha fatto sì che pur in presenza di un aumento degli occupati di 9 milioni di unità tra il 1991 e il 2002, i contratti a tempo determinato siano cresciuti di 16 milioni, mentre i contratti definiti normali sono diminuiti di 7 milioni.

L'incertezza e la fluidità che accompagnano la condizione di ampi strati di salariati è direttamente proporzionale a quella che caratterizza i mercati mondiali. Ecco allora che l'istruzione, la formazione, la politica e tutto il mondo della "conoscenza" operano al fine di far passare come del tutto naturale il mutamento dei rapporti di forza a vantaggio del capitale. Un vero e proprio pensiero unico abbraccia tutti gli attori politici e sindacali, compattandoli sul fronte unico dell'agguerrita difesa dello status quo.

Ma nessun tipo di imbonimento ideologico, per quanto massiccio esso sia, potrà mai cancellare la situazione oggettiva in cui versano milioni di proletari: la limitata o nulla possibilità di formulare piani e previsioni sia di lunga che di breve portata rispetto al futuro.

Fine del progetto industriale o fine del sistema tout court?

Gli anni Settanta, come abbiamo visto, furono caratterizzati dal ristagno occupazionale e da un andamento produttivo altalenante, da forti pressioni inflazionistiche e da acuti conflitti di classe. Né uscì modificata la distribuzione dell'occupazione industriale per collocazione internazionale. Dalla metà degli anni Settanta la crescita dell'occupazione industriale, che dagli anni Cinquanta aveva sempre avuto una tendenza positiva, si invertì bruscamente. Uno dei fattori all'origine di questa inversione fu il decentramento delle attività produttive della grande industria sia all'estero che all'interno: gli investimenti delle grandi aziende in nuovi impianti evitarono il gigantismo (ossia la tendenza all'appiattimento dei profitti) e privilegiarono insediamenti lontani dai grossi centri urbani. A lato del decentramento industriale iniziò la sua espansione il settore sommerso dell'economia: lavoro nero, uso massiccio dell'appalto e del sub-appalto, evasione fiscale, lavoro precario.

La ristrutturazione capitalistica iniziata dall'inizio degli anni Ottanta ha quasi dissolto le grandi fabbriche occidentali dove si era organizzata la lotta di classe: queste sono state di fatto smantellate e divise nei distretti, nelle imprese a rete, nelle filiere, nei reparti produttivi diffusi nel territorio. Immaginiamo ora che la fabbrica di tipo classico venga scorporata nei suoi singoli reparti di produzione, i quali diventino tante fabbriche autonome, più piccole ma sempre controllate da un unico centro. In poche parole, che si formi una holding. Il piano di produzione razionale dei reparti originari non sparisce: ora, quello che per altre fabbriche è anarchia di tanti produttori alle prese con un mercato anarchico per la holding è invece una risposta razionale all'anarchia. Ma c'è di più: ogni singolo reparto diventato fabbrica può ottimizzare le proprie funzioni e crescere, per esempio lavorando anche per altri utenti finali. Allargando la scala e affinando le tecniche della produzione, si avrà un prodotto migliore, di costo inferiore ecc.

In quegli anni da più parti si incomincia a parlare di "fabbrica sociale diffusa nel territorio". Sono gli anni della riscoperta dei distretti industriali e delle "macroregioni". Verrebbe quindi da pensare ad una pianificazione economica che esce dalle mura aziendali per invadere tutto il territorio, ma non è così. Il piano di produzione razionale interno alla fabbrica resta, non ci potrebbe essere produzione altrimenti, è il piano aziendale a lungo termine che salta. Per quanto gli imprenditori cerchino di rimodellare le imprese, snellendole con l'outsourcing e pianificando il più possibile i costi, resta il fatto tangibile che sono sotto la pressione dell'andamento delle altre economie e più che progettare il futuro vivono una situazione di retroguardia. La "frantumazione" dell'impresa nel territorio serve proprio alla veloce ri-modulazione e ri-conversione della stessa per essere sempre al passo coi tempi. Come nel gioco del Lego, il massimo per un imprenditore sarebbe quello di smontare e rimontare l'azienda secondo il volume delle commesse e delle vendite (Fabbriche portatili, "n+1" n. 9) La contraddizione tra anarchia del mercato e pianificazione interna ai processi produttivi si fa sempre più esplosiva. A questo punto assume sempre maggior centralità – per la borghesia come per il proletariato - il territorio rispetto ai confini oramai esplosi della fabbrica. L'attuale organizzazione del lavoro, diffusa nel territorio, ha il pregio di contribuire al superamento del vecchio dibattito sull'associazionismo economico che ha sempre ammorbato il movimento operaio.

La ri-strutturazione del mercato del lavoro può infatti annichilire temporaneamente la capacità di contrattazione tradizionale, ma nello stesso tempo e proprio per questo, obbliga i proletari ad agire non secondo gli schemi sindacali della lotta per categoria, bensì a ritrovare la forza nell'organizzazione immediata territoriale com'era prima che prendesse il sopravvento l'ideologia operista. Solo uscendo dalla galera aziendale e connettendosi a rete con altre realtà, non necessariamente della stessa categoria, si potrebbero ottenere dei risultati. E' comunque fondamentale sottolineare che, soprattutto oggi nella fase senescente del capitalismo, non vi possono essere conquiste stabili e durature all'interno di questa società. L'organizzazione economica di tipo territoriale è allora importante non tanto e non solo per le singole lotte, ma soprattutto perché può gettare le basi del nuovo ambiente.

L'impotenza della sovrastruttura di classe</p>

La finanziarizzazione sancisce chiaramente che il potere decisionale si è spostato a tutto favore di un capitale sempre più autonomizzato e impersonale. La miseria crescente, il netto polarizzarsi della ricchezza in pochi centri mondiali a discapito delle interminabili periferie metropolitane, mettono inevitabilmente in discussione il rapporto tra politica ed economia, verticalizzando i centri di comando.

Le ricadute interne alle economie nazionali si traducono nel depotenziamento del ruolo dei sindacati e dei partiti (di qualsiasi colore) sempre più succubi delle necessità del mercato, che limitano gli spazi di manovra e di mediazione. Lo iato che si crea tra comando reale e comando locale (nazionale) è lo stesso che si viene a creare tra finanza e industria. Gli esecutivi sono diretti da tecnici che non badano più al colore della bandiera ma alle aspettative delle agenzie di rating, il resto dei componenti sono dei mulini di chiacchiere buoni solo per i talk show e per l'imbonimento. Infatti la vecchia militanza propria dei cosiddetti "partiti di massa" è stata sostituita dalla politica spettacolare dei mass media. Il fatto interessante è che anche i borghesi cominciano a registrare il fenomeno denunciandolo con grande preoccupazione:

"Oggi, in Italia, gli uomini politici sono circondati dal disprezzo, dal rancore, dall'ostilità, dall'avversione, che non salva nemmeno i non molti dignitosi tra di loro. Essi, temo, non se ne accorgono, poiché passano il tempo dentro il ventre della televisione. Gli italiani continuano a votare per abitudine, e inconscia obbedienza. Ma non sopportano più le facce degli uomini politici, le piccole miserie, i discorsi, i trucchi, i gesti, la consapevole o inconsapevole corruzione. Stiamo attraversano un momento pericolosissimo per la vita democratica italiana: come la Francia del 1936-1939 e l'Italia del 1920-22, quando la classe politica era egualmente squalificata." (L'odio per i politici; Pietro Citati, "la Repubblica" del 06-05-07)

Come i manager negli istituti finanziari, così i governi non riescono più ad impostare politiche coinvolgenti di ampio respiro, e tutti si muovono alla giornata con logiche dishortermism: i programmi politici vanno a farsi benedire e con essi le motivazioni che stavano alla base delle vecchie contrapposizioni. Ecco un passo significativo dal libroSudditi, manifesto contro la democrazia (ed. Marsilio 2004) di Massimo Fini:

"… effettivamente decisioni, politiche, economiche, tecnologiche, scientifiche che hanno un peso determinante nella nostra vita sono prese in luoghi, istituzionali, concettuali, geografici, lontanissimi da noi, in qualche punto indefinito della globalizzazione, fuori da ogni nostro controllo.
Ma questa è la ragione più superficiale della nostra mancanza di libertà. Se fosse solo una questione di multinazionali, di un "trust" di "cervelli" che guida la baraonda, di una qualche Trilateral o "Spectre", le cose sarebbero più semplici. Ma il fatto è che l'uomo moderno, nato con il liberalismo, l'individualismo, la democrazia, è divenuto ostaggio del meccanismo, industriale, tecnologico, produttivo ed economico, che lui stesso ha creato e che è sfuggito di mano agli stessi apprendisti stregoni che pretendevano di governarlo. Un meccanismo che si autoregola esclusivamente in funzione della propria crescita, indifferente alla condizione umana. Non sono le oligarchie, nazionali e internazionali, politiche ed economiche, a guidarlo, queste sono solo i profittatori di giornata e le mosche cocchiere di una carrozza che va per conto suo. L'individualismo liberaldemocratico ha finito dunque per produrre un sistema che, in un sovrapporsi di motivi, si è rivolto proprio contro l'individuo."

Il pezzo di Fini ci introduce all'argomento di esplosiva attualità, della "crisi della politica". In molti parlano di epoca post-ideologica, di fine delle contrapposizioni tra destra e sinistra, c’è addirittura chi parla dell'avvento di un'epoca bio-politica (!?).

Il processo di depotenziamento della politica si accompagna allo spostamento verso l'area politica di centro dei vari partiti. Viene da chiedersi che senso abbiano le differenze e le frammentazioni nel panorama politico quando la funzione si riduce per tutti, quando sono al governo, a quella di opera esecutrice dei dettami che arrivano dagli organismi internazionali. Come al solito la causa può essere ricercata solo attraverso l’analisi dei rapporti di produzione e del riflesso che questi hanno nelle sovrastrutture. La rincorsa verso l'area di centro è dettata dall’organizzazione tecnico-politica richiesta dal livello di sviluppo capitalistico e coinvolge entrambi gli schieramenti uniformandoli. Il centro, a questo punto è chiaro, non è un luogo fisico da conquistare bensì lo stesso circuito politico a cui i vari gruppi politici incoevoluzione danno vita. La tendenza al partito unitario borghese è ormai generalizzata per l'intero pianeta, partito che rimane unitario anche se diviso in più tronconi che si alternano al governo di un paese. Un esempio emblematico è rappresentato dagli Stati Uniti dove l'influenza delle lobbies economiche è decisamente determinante nelle elezioni presidenziali e anche in quelle locali. Ciò che fa la differenza in una tornata elettorale è la capacità dei candidati e dei rispettivi partiti di rastrellare finanziamenti per la campagna politico-pubblicitaria. I governi che escono vincitori dalle elezioni sono dei veri e propri "comitati d'affari": le varie lobbies finanziarie intervenendo dietro le quinte hanno la possibilità di approvare o abrogare determinate leggi dettando la politica al governo dalla comoda posizione di azionisti di riferimento. Si tratta degli stessi gruppi d'influenza che hanno un'osservazione privilegiata dei meccanismi del mercato e ne traducono le esigenze. Nessuna sorpresa allora, se molti analisti cominciano a parlare di post-democrazia o di post-politica: i partiti politici sono diventati dei gusci vuoti e auto-referenziali, mere propaggini delle istituzioni finanziarie e non è un caso che, proprio il paese in cui l'autonomizzazione dello Stato dalla società ha raggiunto livelli mai visti prima, sia quello che si presenta al mondo come massimo esportatore di democrazia.

La "crisi della politica" e quindi la "crisi della rappresentanza" sono causa ed effetto della scomparsa dei confini ideologici tra le varie forze politiche borghesi ed è logico che tale processo si manifesti nella disaffezione degli elettori verso i partiti. Appurato l'esaurirsi delle grandi ideologie del XX secolo, per la borghesia non resta che mettere fine alle vecchie contrapposizioni tra i blocchi di destra e sinistra stringendosi attorno al concetto moderato di governance. Basta "nemici" da neutralizzare, basta odio. Solo concorrenti da sfidare nel libero mercato delle merci e delle chiacchiere in parlamento. Gratta gratta è questa la vera "teoria" del "pensiero debole" venuta in auge negli ultimi anni: sarebbe cioè finita l'era dei blocchi storici, delle egemonie culturali, mentre avanza la figura astratta del cittadino-consumatore come nuovo soggetto sociale;ergo: crisi dei tesseramenti e perdita di radicamento nel territorio; ergo: tentativi machiavellici di dar vita ad organismi sempre più vasti e a-identitari nell'illusione di pescare in bacini elettorali più grandi. Si tratta di un percorso alquanto avventuroso che frammenta e ricompone le vecchie geografie della politica, mettendo in discussione vecchi programmi e simboli del passato. La crisi del Piano, in economia come in politica, è in realtà crisi del capitalismo tout court, sintomo palese di ingovernabilità del fatto economico-sociale. Ciò non va a mettere in discussione la lucidità della macchina repressiva statale, anzi, con il venir meno della gestione ordinaria dei conflitti di classe ne ingigantisce enormemente l'apparato:

"Più l'imperialismo matura, più lo Stato s'inflaziona. Muore lo Stato etico e si espande lo Stato controllore, che si allarga nella società e su più nazioni, attraverso il rafforzamento della struttura di comando a livello pratico." (Inflazione dello Stato; "n+1" n. 10)

In ultima analisi la crisi della forma di governo basata sullo Stato-nazione va ricercata nell'impossibilità per i singoli paesi di dar vita ad un governo unico mondiale, unica forma di comando adeguata al livello di socializzazione del capitalismo. Ma questa forma di governo non è possibile all’interno del modo di produzione del capitale poiché la borghesia fin dal suo apparire si caratterizza come classe nazionale. Di qui la spiegazione del ruolo di sostituto svolto dagli Stati Uniti, posizione che sviluppa però una contraddizione esplosiva: gli Stati Uniti devono difendere contemporaneamente e su più fronti i propri interessi nazionali e quelli del capitalismo mondiale.

Il sistema capitalistico cerca spasmodicamente valorizzazione e ordine, ma continuando ad accrescersi mina le basi di questo stesso ordine. Infatti c'è ben altra forza che, attraverso la guerra generalizzata, l'insicurezza economica, la miseria crescente ("n+1" n. 20), l'assenza di futuro, il capitalismo aizza contro le sue fortezze: si tratta del lavoro associato, del proletariato mondiale, forza globale che in momenti di crisi acuta assurge a costituirsi in partito politico autonomo. La desertificazione sociale e lo svuotamento della sovrastruttura politica borghese aprono enormi spazi d'azione per l'opera di chiarificazione programmatica delle forze che si richiamano al partito storico. La borghesia, come il famoso apprendista stregone, non è più in grado di controllare le forze che ha evocato dal sottosuolo della storia. Andando in crisi il Piano in economia (non esiste più un Piano nazionale perché il capitale nazionale oggi ha come unico referente il mercato mondiale), deve saltare anche la vecchia e obsoleta concezione del partito che si sviluppa a "macchia d'olio" (una sorta di teoria mutuata dalla Terza Internazionale degenerata): il partito che cresce e si sviluppagradualmente, penetrando nei sindacati ed egemonizzando via via fette più vaste di proletari, fino alla progressiva "conquistata delle masse". Non c'è più uno sviluppo economico ed un Piano capitalistico a cui "agganciare" la dinamica antitetica di crescita del partito di classe, viene da sé che, ad una situazione economica mondiale sempre più caotica e nebulosa, l'emergere del partito non può che avvenire attraverso una dinamica di tipo catastrofico: collasso del sistema e simultanea formazione dell'organo politico di guida.

Bibliografia:

- L'impresa irresponsabile, Luciano Gallino;

- L'ascesa della finanza, Silvano Andriani;

- Globalizzazione, Quaderni di n+1;

- Il costo umano della flessibilità, Luciano Gallino;

- Sudditi, Massimo Fini;

- Superclan, Giulietto Chiesa, Marcello Villari;

 

Rivista n°54, dicembre 2023

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