Informazioni aggiuntive

  • Resoconto teleriunione  30 gennaio 2018

Schiavitù 2.0 e guerra moderna

La teleconferenza di martedì sera (presenti 14 compagni), dopo un breve accenno allo scandalo che ha coinvolto alcuni colossi del settore automobilistico sull'utilizzo di cavie umane e animali per testare la nocività dei gas di emissione, ha preso le mosse dalla vertenza che l'IG Metall, il più grosso sindacato dei metalmeccanici della Germania, ha aperto per ottenere l'aumento dei salari e la riduzione della giornata lavorativa.

Le trattative con gli industriali tedeschi si sono presto interrotte, dato che quest'ultimi hanno respinto la richiesta di una settimana lavorativa a 28 ore settimanali, su richiesta del lavoratore, anche perché la compensazione della decurtazione del salario graverebbe sulle loro tasche. La dirigenza del sindacato ha annunciato un blocco generale della produzione di 24 ore nei prossimi giorni, minacciando lo sciopero illimitato nel caso in cui gli imprenditori non accettassero di sedersi ad un tavolo di trattativa. IG Metall, con i suoi 2,3 milioni di iscritti, dispone di un fondo di più di 560 milioni di euro per sostenere gli scioperanti e sembra che anche i sindacati dei servizi e del settore pubblico siano in agitazione. Curiosamente, sul sito della Cisl Conquiste del Lavoro, si saluta questa mobilitazione come giusta e non ideologica "perché la battaglia dell'IG Metall su orario e salario ci riguarda". Nell'epoca del corporativismo, che vede legati governo, sindacati e padroni, è molto probabile che il grande sindacato tedesco si sia già accordato con la controparte, la quale si muove come da copione, prima rifiutando l'accordo e poi facendo finta di cedere alle pressioni. Da notare che il tutto avviene mentre è in ballo l'appoggio dell'SPD al nuovo governo di Grosse Koalition.

Nei giorni scorsi abbiamo seguito anche le lotte dei rider del food delivery che vanno crescendo e allargandosi in tutta Europa, e non solo. Dai primi sporadici scioperi del 2016 si è passati a circa 39 mobilitazioni nel 2017, e sembra che il 2018 procederà allo stesso ritmo. Il 1° gennaio scorso i corrieri di Deliveroo di Amsterdam hanno incrociato le braccia per protestare contro il cambio "forzato" di contratto, imposto dall'azienda per trasformare tutti i fattorini da dipendenti a freelance. Una settimana più tardi l'azienda ha annunciato la medesima variazione anche a Bruxelles e i rider belgi hanno immediatamente organizzato lo sciopero e una biciclettata in centro città. Il collettivo autorganizzato Collectif des coursier-e-s / KoeriersKollectief rappresenta circa 200 fattorini belgi e su Twitter e Facebook sta registrando la solidarietà di ciclofattorini di città come Torino, Milano e Bologna. Di fronte all'indifferenza di Deliveroo, i rider hanno successivamente occupato la sede dell'azienda nella capitale, chiamando a raccolta solidali, precari e disoccupati a sostegno della loro lotta, che dicono essere quella di tutti. A Lille, in Francia, lo scorso 20 gennaio uno sciopero spontaneo ha coinvolto i lavoratori di UberEats e quattro giorni più tardi hanno dimostrato i lavoratori di Foodora e Deliveroo a Berlino. Anche ad Hong Kong, il 22 e 23 gennaio, Deliveroo è stata colpita da uno sciopero dei fattorini. A far scattare la protesta nella metropoli asiatica è stata la decisione dell'azienda di chiudere l'applicazione nei momenti di minore intensità, lasciando i corrieri senza consegne e quindi senza paga.

Cosa possono rivendicare questi lavoratori? E' ovvio che cerchino di strappare un aumento di salario e delle garanzie che permettano loro di sopravvivere, ma i fattorini 2.0 sono proletari ad un punto di svolta, precari che vivono una situazione talmente estrema dal punto di vista del rapporto di lavoro che non potranno che contare sulle loro forze, mettendo in campo un coordinamento internazionale di lotta. Se quella dei metalmeccanici tedeschi è una lotta classica che vede il sindacato mobilitare i suoi iscritti (pagando pure le giornate di sciopero), nel settore della gig-economy è difficile ipotizzare la possibilità di un compromesso neo-corporativo: non potendo lottare per un posto di lavoro che non c'è più, i lavoratori saranno costretti a riscoprire la forza dell'organizzazione immediata territoriale collegandosi a/in rete con altri precari.

Al fenomeno della gig-economy, la CGIL cerca di rispondere con una Conferenza di programma dal titolo "BUON LAVORO. Governare l'innovazione, contrattare la digitalizzazione". Ascoltando gli audio degli interventi si capisce bene che i bonzi sindacali, pur sforzandosi di ammodernare il linguaggio, non riescono proprio a cambiare paradigma. Sono fermi al contratto con firma e non concepiscono altri orizzonti d'intervento. Eppure il mondo cambia molto velocemente. Il ricercatore Antonio Casilli in un articolo pubblicato su il manifesto, intitolato "Sulle piattaforme digitali siamo tutti operai del click", scrive:

"Le stime del micro-lavoro a livello mondiale oscillano fra i 100 e i 300 milioni di effettivi, concentrati principalmente in Kenya, India, Bangladesh, Cina. Ma anche in Romania, nel Madagascar, nelle Filippine, dove soppiantano oramai i tradizionali call center. I loro committenti sono americani, inglesi, francesi."

Negli Usa il 5% degli americani lavora come freelance per piattaforme come Amazon Mechanical Turk e alcuni analisti prevedono che entro il 2027 quasi un terzo della popolazione Usa farà parte dell'esercito dei click workers. Con l'erogazione internazionale di plusvalore su piattaforme digitali che utilizzano collaboratori esterni (crowdworking), sparisce il concetto stesso di contrattazione e restano forme di ipersfruttamento, di schiavitù 2.0, che nessuno riesce più a controllare. Ciò significa che quando si generalizzerà la lotta, si passerà immediatamente ad un livello di scontro politico.

A proposito di nuove schiavitù, un compagno ha segnalato un articolo pubblicato su Econopoly, blog de Il Sole 24 Ore dal titolo emblematico "Reintrodurre la schiavitù è o no un'opzione per la società moderna?", in cui leggiamo:

"La schiavitù è spesso vista con un'accezione negativa. Tuttavia si può notare come una larga parte della storia dell'umanità abbia visto regni, imperi e persino nazioni democratiche (con un sistema di elezioni popolari come gli stati americani) utilizzare gli schiavi per differenti mansioni e ruoli. L'abolizione della schiavitù è un fenomeno piuttosto recente. Poco più di due secoli. Tuttavia se sulla carta la schiavitù, nella sua accezione più brutale, è stata bandita, così non si può dire nei fatti. Con nomi differenti esiste e prolifera ancora in una buona parte del mondo."

Il ritorno moderno di forme schiavistiche non va inteso come un passo indietro nella storia poiché è il risultato della fame di forza-lavoro a basso prezzo del capitalismo avanzato. Nel moderno processo di produzione, che vede un ampio utilizzo di tecnologie, l'operaio prima è passato a fare il sorvegliante delle macchine e poi è stato spinto fuori dalla fabbrica e gettato nella sovrappopolazione relativa e infine in quella assoluta, senza alcuna possibilità di essere riutilizzato. Ormai una merce simbolo come l'automobile ingloba nel suo prezzo di produzione circa il 5% di lavoro vivo. L'automazione elimina lavoro umano e costringe gli operai a vendersi a basso prezzo e questo fenomeno rallenta lo sviluppo delle forze produttive, perché è molto più conveniente impiegare degli schiavi che investire in nuovi macchinari.

Nel più volte ricordato Rapporto segreto da Iron Mountain (1967), un documento fantapolitico - ma non troppo - attribuito a Kenneth Galbraith, si descrive la necessità capitalistica della guerra, intesa come fenomeno utile per attivare nuovi cicli economici, in alternativa della quale, la schiavitù rappresenta un buon sostituto. Ma non sarà sufficiente, la società borghese è già arrivata a un punto limite in cui non può più nutrirsi con il lavoro dei propri schiavi ma è costretta a nutrirli. Di qui il dibattito in corso a livello mondiale sulla necessità o meno di un reddito di base o di cittadinanza.

Sul tema della guerra moderna, l'ultimo numero dell'Economist è uscito con una serie di articoli dedicati all'alleggerimento dei mezzi militari in dotazione agli stati e alla guerra civile diffusa. Nell'articolo "The growing danger of great-power conflict" si descrive il ruolo di Cina e Russia i cui interessi non potranno che cozzare contro quelli americani. Comunque, se il capitalismo soffre di sovrapproduzione e il sistema produttivo si alleggerisce sempre più, anche la guerra, come massima espressione della società del Capitale, deve rispecchiare queste caratteristiche. E infatti nei conflitti armati d'oggi si utilizzano sempre più soldati in outsourging (contractors), partigianerie varie e tecnologie avanzate.

In Afghanistan una serie di attentati hanno provocato centinaia di vittime. La missione Enduring Freedom, condotta dagli Usa, è costata circa 2 mila miliardi di dollari e non ha raggiunto nemmeno uno degli obiettivi prefissati: il territorio è in mano a forze irregolari afghane, della democrazia neppure parlarne, le donne non sono state "liberate" e il papavero da oppio si coltiva più di prima. L'heartland è al centro di uno scontro di tutti contro tutti (Usa, Russia, Cina, India, Iran, ecc.), dove tribù e milizie al soldo dei signori della guerra hanno preso il controllo di intere aree, sostituendosi a ciò che resta dello stato.

Se fino alla Seconda guerra mondiale erano possibili coalizioni e fronti netti, una situazione di quel tipo oggi sembra irripetibile. La guerra moderna è al livello della sparatoria casa per casa (Mosul insegna), coinvolge inevitabilmente i civili e vede i fronti polverizzarsi in mille gruppi e sotto-gruppi in lotta tra loro. Le attuali guerre a macchia di leopardo sono come fumo negli occhi per gli stati, poiché forze combattenti con mezzi relativamente limitati possono inceppare la logistica dei grandi eserciti facendo saltare o semplicemente sabotando le linee di rifornimento.

Articoli correlati (da tag)

  • Una società in crisi irreversibile

    La teleriunione di martedì sera è iniziata commentando la sommossa in corso in Bangladesh.

    Da un paio di settimane in tutto il paese si susseguono importanti manifestazioni. Gli studenti, opponendosi ad una legge che prevede una serie di facilitazioni alle famiglie dei reduci della guerra di liberazione dal Pakistan, si sono scontrati duramente con polizia ed esercito. L'epicentro della rivolta è stata l'Università di Dacca. Al di là della contestata legge, è evidente che anche il Bangladesh affronta gravi problemi di disoccupazione giovanile.

    Ottavo paese più popoloso del pianeta, con 170 milioni di abitanti, il Bangladesh ha un'età media molto bassa e una popolazione concentrata principalmente nell'area urbana di Dacca, che ha una densità abitativa altissima, con 45.000 abitanti per km². Finora si registrano 160 morti, oltre a migliaia di feriti, manifestanti scomparsi, casi confermati di torture, anche ai danni dei giornalisti. Il governo ha chiuso Internet, ma così facendo ha contribuito ad aumentare il caos.

    Oltre alle manifestazioni nella capitale, ci sono stati blocchi delle autostrade e delle ferrovie, attacchi alle stazioni di polizia, tentativi di invasione delle sedi delle TV, e la liberazione di detenuti dal carcere: tutti eventi che danno l'idea di una situazione quasi insurrezionale. Almeno a partire dal 2006, nel paese si è verificata una lunga serie di scioperi nelle fabbriche, in particolare nel settore tessile.

  • Direzione del moto storico

    La teleriunione di martedì sera è cominciata parlando del recente attentato a Donald Trump avvenuto durante un comizio elettorale in Pennsylvania.

    Si tratta di un ulteriore step nel livello di violenza che caratterizza la campagna elettorale americana. L'attentatore, un ragazzo di 20 anni con simpatie repubblicane, ha utilizzato un fucile semiautomatico AR-15, l'arma più diffusa in tutto il Paese con una stima di oltre 40 milioni di pezzi venduti. Naturalmente, non sono mancate le teorie del complotto, ma d'altronde in mancanza di informazioni vagliabili tutte le ipotesi sono aperte.

    Nel nostro articolo "Teoria e prassi della nuova politiguerra americana", nel capitolo finale intitolato La vita nel ventre della balena, abbiamo ribadito che il moto storico ha una direzione precisa. Gli USA sono ciò che la storia del pianeta li ha portati ad essere. La crisi dell'imperialismo unipolare è dovuta al fatto che sulla scena si stanno affacciando nuove potenze (lo sviluppo ineguale di cui parla Lenin nell'Imperialismo), l'America non ha più la forza di dare ordine al mondo, e non esiste un sostituto all'orizzonte. Si è interrotta la staffetta dell'imperialismo ("Accumulazione e serie storica") e il disordine mondiale aumenta con l'estendersi dei conflitti bellici su scala planetaria. Chiunque sarà il prossimo presidente americano (i pronostici danno per certa la vittoria di Trump), potrà far ben poco per invertire la tendenza economica, la quale produce effetti sulla società.

  • La società analizzata con il wargame

    La teleriunione di martedì sera è iniziata commentando l'articolo "Wargame. Non solo un gioco" (rivista n. 50), particolarmente utile per comprendere i conflitti bellici e sociali in corso, e per evitare di commettere errori logici nell'analisi.

    In "Wargame" troviamo considerazioni inerenti alla "trasformazione della guerra imperialista in guerra civile", parola d'ordine dell'Internazionale Comunista. Storicamente, la guerra non rappresenta un problema per l'imperialismo ma la soluzione (temporanea) alla sua crisi. Difatti, la nostra corrente afferma che nell'epoca moderna, anche a causa del modo di condurre i conflitti, o passa la guerra o passa la rivoluzione. Oggi le determinazioni di una guerra classica che la farebbero passare da salvezza del modo di produzione capitalistico a elemento della sua distruzione non sono più da considerare ipotesi, dato che la crisi economica è da tempo diventata cronica. L'elettroencefalogramma del capitalismo è piatto.

    Detto questo, finché c'è guerra non c'è disfattismo e quindi non c'è rivoluzione. La rivoluzione, perciò, deve scattare prima che la guerra conquisti la scena mondiale, prima che diventi un fatto totale, tanto più che quella a venire sarà "gestita" da sistemi basati sull'intelligenza artificiale, potenzialmente fuori dal controllo umano. Pensiamo alla fabbrica: il robot, registrando in modo approfondito le competenze dell'operaio, lo va a sostituire.

Rivista n°55, luglio 2024

copertina n° 55

Editoriale: Non potete fermarvi

Articoli: Evoluzione extra biologica - Transizione di fase. Prove generali di guerra

Rassegna: Presa d'atto - Il capitalismo è morto

Recensione: Dallo sciopero, alla rivolta, alla Comune - Guerra civile negli USA, ma non quella vera

Doppia direzione: Il programma immediato non ammette mediazioni

Raccolta della rivista n+1

Newsletter 245, 19 gennaio 2022

f6Libertà

Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale.

Continua a leggere la newsletter 245
Leggi le altre newsletter

Abbonati alla rivista

Per abbonarti (euro 20, minimo 4 numeri) richiedi l'ultimo numero uscito, te lo invieremo gratuitamente con allegato un bollettino di Conto Corrente Postale prestampato.
Scrivi a : mail2

Iscriviti alla newsletter

Iscriviti alla newsletter quindicinale di n+1.

Invia una mail a indirizzo email