Informazioni aggiuntive

  • Resoconto teleriunione  11 aprile 2017

Passaggi di stato

La teleconferenza di martedì sera, a cui hanno partecipato 12 compagni, è iniziata con alcune considerazioni sulle guerre in corso.

Per affrontare il tema è necessario considerare non solo i conflitti in essere fra le nazioni, ma anche tutte quelle situazioni di scontro armato interne agli stati, che coinvolgono i civili, prevedono operazioni di polizia con mezzi da guerra e spesso mostrano strutture di sicurezza fuori controllo. Aggiungendo tutti i pezzi, il quadro che si compone è quello di una guerra civile diffusa con un impiego intensivo delle partigianerie (vedi Ucraina, Siria, Libia, Yemen). Non a caso la Chiesa, che alle spalle ha una lunga tradizione, ha più volte definito questo momento storico come una guerra mondiale combattuta a pezzi.

Lo scorso 7 aprile due cacciatorpediniere della marina americana hanno lanciato contro la base aeronautica siriana di Shayrat 59 Tomahawk; l'azione è stata ufficialmente giustificata quale rappresaglia degli Stati Uniti per l'utilizzo di armi chimiche contro la popolazione civile da parte del regime di Assad. I Tomahawk sono missili da crociera che possono contenere grandi quantità di esplosivo, ma guardando i video che circolano in rete sembra che l'attacco non abbia causato grandi danni: gli americani si sono limitati a mandare un messaggio a siriani, russi e iraniani. Anche se gli Usa vorrebbero continuare a far vedere i sorci verdi al resto del mondo come nella loro miglior tradizione, oggi non lo possono più fare: i problemi (interni) con cui si scontrano glielo impediscono. Risulta perciò difficile immaginare la riproposizione di scenari tipo l'invasione dell'Iraq (2003), che secondo Stiglitz è costata circa 3 mila miliardi di dollari, o quella dell'Afghanistan (tutt'ora in corso), che ne è costata 2 mila. Inoltre l'armamento che hanno a disposizione, tra cui portaerei dotate di missili nucleari ed F35, risulta inefficace per combattere, ad esempio, i miliziani di Daesh nascosti nel deserto. Negli anni della cosiddetta guerra fredda, che ha prodotto circa 250 milioni di morti, il condominio Usa-Urss garantiva un certo equilibrio; oggi quell'equilibrio non c'è più e non potrà ritornare.

A suo tempo Marx accusava l'Inghilterra di vigliaccheria perché non andava fino in fondo nella guerra contro il bastione reazionario russo. Parimenti oggi gli Stati Uniti non sono più in grado di far corrispondere la loro azione politico-militare alle dottrine che la ispirano, per cui ogni loro iniziativa rimane fine a sé stessa.

Se da un punto di vista economico l'attuale modo di produzione è come un malato in coma tenuto in vita artificialmente, così dal punto di vista militare gli stati hanno sempre meno spinta propulsiva. Il mondo capitalistico perde energia e vede aumentare il disordine. In uno degli articoli del numero 41 della rivista (in uscita a maggio), dedicato allo sciupio, prendiamo a prestito dal testo Entropia di J. Rifkin l'elenco dei passaggi necessari alla produzione di una brioche per spiegare lo sperpero capitalistico di energia: per ottenere 130 kilocalorie contenute nel dolce ne vengono sprecate decine di migliaia. Un modus operandi che è esteso a tutte le branche della produzione e che dimostra che la dissipazione è connaturata al capitalismo.

Anche l'ammontare del debito a stelle e strisce è indice di un sistema che sta raggiungendo il suo limite massimo. Ne La crisi del sistema bancario americano (1991) scrivevamo:

"Se nell'epoca del declino capitalistico l'aumento del credito non è conseguente ad un aumento delle attività produttive, ciò si traduce in un facile accesso ai prestiti senza che vi corrisponda una altrettanto facile creazione di profitto. Il debito diventa quindi fine a sé stesso, si autoalimenta ed ha il solo scopo di distruggere capitale addizionale fornito dall'esuberanza delle forze produttive di cui questa società non sa utilizzare il potenziale di liberazione delle forze umane".

Il debito complessivo americano, che riguarda i vari stati, l'industria e i privati, ammonta a circa 68,5 mila miliardi di dollari (pari al PIL mondiale!), mentre il prodotto interno lordo raggiunge i 18 mila miliardi. La situazione è insostenibile: le forze produttive bloccate dalle catene del valore possono essere liberate solamente da una rivoluzione.

Frattanto lo sviluppo dell'automazione provoca dibattiti a non finire su come impiegare la forza lavoro in esubero. In Traiettoria e catastrofe, un testo degli anni '50, la nostra corrente dice che la "dottrina dell'automatismo nella produzione si riduce a tutta la nostra deduzione della necessità del comunismo, fondata sui fenomeni del capitalismo."

Tra le fila borghesi, il sociologo Domenico de Masi, recentemente intervenuto alla convention del M5S a Ivrea, teorizza il bisogno dell'ozio. Paul Mason, nel suo Postcapitalism, afferma che il capitalismo è finito (anche se alla fine del saggio lo risuscita in versione 3.0). Ci sono poi gli attivisti del Venus Project, che immaginano una società basata sulle risorse fisiche e non sul valore, e che funzioni grazie a potenzialità già esistenti.

Il "movimento reale" spazza via le ultime illusioni sulla natura progressiva dell'attuale modo di produzione, e siamo sicuri che raggiunta una certa soglia si formeranno delle strutture sociali in antitesi al capitalismo. Saggi di organizzazione futura li abbiamo già visti con il movimento Occupy Wall Street (2011).

Dal Sud America arrivano notizie di fermento: in Paraguay è stato dato alle fiamme il parlamento, in Argentina un grosso sciopero generale è stato organizzato dai sindacati, in Brasile e Venezuela si sono avuti scontri violenti in seguito al veloce peggioramento delle condizioni di vita. Non riuscendo più a vivere alla vecchia maniera, sono milioni gli uomini che cominciano a fibrillare, così come si agitano le molecole in un passaggio di stato.

Articoli correlati (da tag)

  • Una società in crisi irreversibile

    La teleriunione di martedì sera è iniziata commentando la sommossa in corso in Bangladesh.

    Da un paio di settimane in tutto il paese si susseguono importanti manifestazioni. Gli studenti, opponendosi ad una legge che prevede una serie di facilitazioni alle famiglie dei reduci della guerra di liberazione dal Pakistan, si sono scontrati duramente con polizia ed esercito. L'epicentro della rivolta è stata l'Università di Dacca. Al di là della contestata legge, è evidente che anche il Bangladesh affronta gravi problemi di disoccupazione giovanile.

    Ottavo paese più popoloso del pianeta, con 170 milioni di abitanti, il Bangladesh ha un'età media molto bassa e una popolazione concentrata principalmente nell'area urbana di Dacca, che ha una densità abitativa altissima, con 45.000 abitanti per km². Finora si registrano 160 morti, oltre a migliaia di feriti, manifestanti scomparsi, casi confermati di torture, anche ai danni dei giornalisti. Il governo ha chiuso Internet, ma così facendo ha contribuito ad aumentare il caos.

    Oltre alle manifestazioni nella capitale, ci sono stati blocchi delle autostrade e delle ferrovie, attacchi alle stazioni di polizia, tentativi di invasione delle sedi delle TV, e la liberazione di detenuti dal carcere: tutti eventi che danno l'idea di una situazione quasi insurrezionale. Almeno a partire dal 2006, nel paese si è verificata una lunga serie di scioperi nelle fabbriche, in particolare nel settore tessile.

  • Direzione del moto storico

    La teleriunione di martedì sera è cominciata parlando del recente attentato a Donald Trump avvenuto durante un comizio elettorale in Pennsylvania.

    Si tratta di un ulteriore step nel livello di violenza che caratterizza la campagna elettorale americana. L'attentatore, un ragazzo di 20 anni con simpatie repubblicane, ha utilizzato un fucile semiautomatico AR-15, l'arma più diffusa in tutto il Paese con una stima di oltre 40 milioni di pezzi venduti. Naturalmente, non sono mancate le teorie del complotto, ma d'altronde in mancanza di informazioni vagliabili tutte le ipotesi sono aperte.

    Nel nostro articolo "Teoria e prassi della nuova politiguerra americana", nel capitolo finale intitolato La vita nel ventre della balena, abbiamo ribadito che il moto storico ha una direzione precisa. Gli USA sono ciò che la storia del pianeta li ha portati ad essere. La crisi dell'imperialismo unipolare è dovuta al fatto che sulla scena si stanno affacciando nuove potenze (lo sviluppo ineguale di cui parla Lenin nell'Imperialismo), l'America non ha più la forza di dare ordine al mondo, e non esiste un sostituto all'orizzonte. Si è interrotta la staffetta dell'imperialismo ("Accumulazione e serie storica") e il disordine mondiale aumenta con l'estendersi dei conflitti bellici su scala planetaria. Chiunque sarà il prossimo presidente americano (i pronostici danno per certa la vittoria di Trump), potrà far ben poco per invertire la tendenza economica, la quale produce effetti sulla società.

  • La società analizzata con il wargame

    La teleriunione di martedì sera è iniziata commentando l'articolo "Wargame. Non solo un gioco" (rivista n. 50), particolarmente utile per comprendere i conflitti bellici e sociali in corso, e per evitare di commettere errori logici nell'analisi.

    In "Wargame" troviamo considerazioni inerenti alla "trasformazione della guerra imperialista in guerra civile", parola d'ordine dell'Internazionale Comunista. Storicamente, la guerra non rappresenta un problema per l'imperialismo ma la soluzione (temporanea) alla sua crisi. Difatti, la nostra corrente afferma che nell'epoca moderna, anche a causa del modo di condurre i conflitti, o passa la guerra o passa la rivoluzione. Oggi le determinazioni di una guerra classica che la farebbero passare da salvezza del modo di produzione capitalistico a elemento della sua distruzione non sono più da considerare ipotesi, dato che la crisi economica è da tempo diventata cronica. L'elettroencefalogramma del capitalismo è piatto.

    Detto questo, finché c'è guerra non c'è disfattismo e quindi non c'è rivoluzione. La rivoluzione, perciò, deve scattare prima che la guerra conquisti la scena mondiale, prima che diventi un fatto totale, tanto più che quella a venire sarà "gestita" da sistemi basati sull'intelligenza artificiale, potenzialmente fuori dal controllo umano. Pensiamo alla fabbrica: il robot, registrando in modo approfondito le competenze dell'operaio, lo va a sostituire.

Rivista n°55, luglio 2024

copertina n° 55

Editoriale: Non potete fermarvi

Articoli: Evoluzione extra biologica - Transizione di fase. Prove generali di guerra

Rassegna: Presa d'atto - Il capitalismo è morto

Recensione: Dallo sciopero, alla rivolta, alla Comune - Guerra civile negli USA, ma non quella vera

Doppia direzione: Il programma immediato non ammette mediazioni

Raccolta della rivista n+1

Newsletter 245, 19 gennaio 2022

f6Libertà

Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale.

Continua a leggere la newsletter 245
Leggi le altre newsletter

Abbonati alla rivista

Per abbonarti (euro 20, minimo 4 numeri) richiedi l'ultimo numero uscito, te lo invieremo gratuitamente con allegato un bollettino di Conto Corrente Postale prestampato.
Scrivi a : mail2

Iscriviti alla newsletter

Iscriviti alla newsletter quindicinale di n+1.

Invia una mail a indirizzo email