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  • Resoconto teleriunione  23 aprile 2019

Processi evolutivi autopoietici

Durante la teleconferenza di martedì scorso, a cui hanno partecipato 15 compagni, abbiamo fatto alcune considerazioni riguardo i vari movimenti sociali che sempre più frequentemente riempiono le strade e le piazze del pianeta.

Non di rado ci è capitato, in seguito ad una nostra riunione o conferenza, che qualcuno dei convenuti si avvicinasse e ci dicesse che finalmente aveva trovato le parole per esprimere ciò che aveva in testa. Questo semplice e gradito commento rivela un aspetto importante della situazione in cui si trovano prime fra tutte le nuove generazioni e in generale chi si pone controcorrente: il vecchio linguaggio, quello legato al riformismo, allo stalinismo o anche alla Terza Internazionale, è assente o, se presente, non riesce più a funzionare da attrattore, risultando inadatto, e viene quindi ignorato. Allo stesso tempo i movimenti che in questi ultimi tempi hanno fatto parlare di sé, come quello francese dei gilets jaunes, ancora non sono riusciti a formularne uno nuovo. Quando un nuovo linguaggio prende piede, non importa se in ambienti di dimensioni contenute o in ampi strati della popolazione, è sempre segno di cambiamento perché significa che nuove forme risultano maggiormente valide rispetto a quelle tradizionali.

Abbiamo quindi letto alcuni passi dell'articolo "Poscritto al Grande Ponte", tratto dall'ultimo numero della rivista:

"Il proletariato si allarga in rapporto alla concatenazione fra le figure interne delle classi, fra chi non ha niente da perdere e chi ha qualcosa da perdere e lo sta perdendo. Un tema centrale e permanente del nostro lavoro è una critica al concetto di rivoluzione come evento costruito da gruppi, governi o partiti; concetto in assoluto contrasto con l'approccio di Marx ed Engels e il risultato del loro metodo di analisi della storia: le rivoluzioni vanno trattate come eventi fisici, le forze in gioco si comportano come quelle dei fenomeni naturali."

Il capitalismo senile produce sovrappopolazione assoluta, ed oggi le nuove generazioni si trovano a fare i conti con un sistema che ha sempre più difficoltà ad integrarle, dando luogo a tutti quei fenomeni di vita senza senso che riempiono le pagine dei giornali o le statistiche delle case farmaceutiche. Gli attuali rapporti sociali non permettono di "costruirsi un futuro" e quindi è normale che nel milieu alcuni comincino a cambiare visuale sentendosi con i piedi in due scarpe: da una parte il tran-tran dell'attivismo e dall'altra l'attenzione verso il futuro. Quando abbiamo occasione di parlare con qualcuno che è interessato al nostro lavoro, ricordiamo sempre l'articolo "Un programma, l'ambiente" (1913), in cui si dice che il partito rivoluzionario non è un'organizzazione tra le tante ma l'anticipazione pratica della società futura.

I segnali di un qualcosa che sta montando sono evidenti; possiamo riconoscere nei movimenti che si sono manifestati negli ultimi tempi caratteristiche comuni. Se a Parigi il giorno di ritrovo nelle piazze è il sabato (siamo al 23°), in Algeria è il venerdì. Sempre più spesso questo tipo di appuntamenti, anonimi, lanciati in rete e diffusi da uno smartphone all'altro, raccoglie migliaia di persone che occupano i luoghi centrali delle città e si scontrano con le forze dell'ordine. Nelle foto delle manifestazioni in Sudan, soprattutto di quelle notturne a Karthum, si vedono le tantissime luci dei telefoni cellulari in mano ai manifestanti. Questo piccolo strumento alla portata di tutti sta rivoluzionando il mondo, dando vita a processi evolutivi autopoietici e formando un organismo cibernetico globale. Questa evoluzione extra-organica, così come la chiamerebbe Leroi-Gourhan (Il gesto e la parola), produce dei cambiamenti antropologici: la tecnologia influisce sempre più rapidamente e pesantemente anche su chi pensa di controllarla.

Negli ultimi decenni il capitalismo è stato costretto ad eliminare garanzie e tutele, scatenando una reazione che apparentemente si configura come un processo lento e graduale ma che in realtà è soggetta ad accelerazioni. Ormai non passa giorno nel cuore della vecchia Europa senza che qualche piazza si infiammi (negli ultimi giorni è stata la volta dell'Irlanda del Nord, paese funestato da una lunga crisi politica e da alti tassi di disoccupazione; anche in Spagna, prossima a nuove elezioni, cresce l'incertezza politica e vanno sparendo le mezze classi).

I movimenti che animano le proteste degli ultimi anni sono tendenzialmente antiforma. Quando abbiamo scritto l'articolo sull'incendio nelle banlieue, nel 2005, una delle critiche più frequenti era quella riguardo la "classificazione" del movimento. Molti sostenevano infatti che la teppaglia francese fosse espressione dell'interclassismo e che quindi la sua lotta non potesse rappresentare un avanzamento di classe. Noi invece nelle lunghe notti di auto bruciate e di scontri con la polizia vedevamo tanti senza riserve che stavano mettendo in discussione ogni cosa e con qualunque mezzo, e senza aver più nulla da rivendicare all'interno di questa società. Il movimento dei gilet gialli in Francia è nato sulla base di alcune rivendicazioni specifiche, ma queste nel giro di poco tempo sono diventate secondarie rispetto al livello di scontro raggiunto dalla piazza: dopo mesi di manifestazioni, si tratta ormai di una lotta per prendersi/difendere degli spazi.

Considerando la struttura frattale delle rivoluzioni, passando quindi dal livello macro a quello micro, osserviamo che rientrano in questo processo anche le lotte dei rider (vedi lo sciopero di Atene). Se i primi scioperi vengono organizzati sulla spinta di richieste particolari legate al miglioramento delle condizioni di lavoro, dopo poco tempo la protesta si trasforma in movimenti di senza riserve che hanno ben poco da conquistare in questo mondo. Che siano a Torino, Amsterdam, Londra o Atene, ai fattorini del settore del food delivery manca proprio l'oggetto del contendere, manca il contratto di lavoro, manca il padrone e pure il luogo di lavoro. Perciò era vero: i banlieuesard parigini erano solo in anticipo sui tempi, ma rispecchiavano in pieno le caratteristiche del proletariato moderno ("La banlieue è il mondo", n+1, n. 19).

L'introduzione del reddito di cittadinanza in Italia va inserito in un contesto di questo tipo. Qualche giorno fa alcuni operai licenziati da FCA si sono arrampicati sul campanile di una chiesa di Napoli denunciando la loro esclusione dalla nuova misura di sostegno a causa dei requisiti troppo stringenti; l'Inps è subito intervenuto proponendo un incontro e promettendo di andare in deroga alla legge per far aver loro il sussidio. Il RdC non copre tutte le figure che sono state tagliate fuori dal mondo del lavoro, e se comincia a passare un meccanismo come quello visto nella città partenopea allora potrebbero mettersi in atto delle pressioni di piazza perché questa misura di sostegno al reddito si allarghi e aumenti d'importo. Inoltre quanto successo recentemente sulla pagina Facebook dell'Inps, dove alcuni impiegati dell'Istituto hanno risposto sgarbatamente alle migliaia di messaggi di insoddisfazione dei cittadini per l'entità dei primi assegni, è significativo. La pressione anche tramite social network segna un passaggio interessante che bisogna seguire. Oggi è la pagina social, domani saranno le piazze? Il governo si sta muovendo su un terreno scivoloso e la nuova misura potrebbe rivelarsi un'arma a doppio taglio. Ma indietro non si può tornare.

Rimane il fatto che il Movimento 5 stelle ha posto all'ordine del giorno argomenti non di poco conto: il reddito di cittadinanza e la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Pur essendo il primo una brutta copia del salario ai disoccupati, e rimanendo il secondo ancora a livello di proposta, sono stati resi pubblici temi che ricordano quelli che fanno parte del nostro bagaglio storico. Che a metterli sul tavolo sia la borghesia e non il proletariato non significa che la lotta di classe sia assente, anzi, ne è invece il riflesso perché espressione dello scontro fra due modi di produzione.

Ritornando al tema dell'antiforma: la Sinistra Comunista "italiana" ha detto qualcosa di molto preciso nel filo del tempo "Fiorite primavere del Capitale" (1953). Il punto di partenza è che nessuna rivoluzione comincia pura, ma sempre in maniera ibrida. L'esempio fatto nell'articolo "Dalla 'partecipazione' alla schiavitù" (ultimo numero della rivista) è quello della doppia rivoluzione in Russia:

"In Russia era all'ordine del giorno la rivoluzione borghese. Tutto faceva pensare a uno sviluppo conseguente, secondo lo schema consueto della successione storica e delle classi in movimento. Lenin, nel libretto Due tattiche, ne espresse una dura critica, basata su di un'analisi qualitativa delle forze in campo. L'unica in grado di passare dall'energia potenziale a quella cinetica era il proletariato."

Da quando appare sulla scena storica, il proletariato è la classe che dà l'impronta alla rivoluzione, ma non sempre in modo diretto. Un decorso "normale", cioè aderente al modello della rivoluzione come scontro fra due classi "pure", rappresentanti due modi di produzione che collidono è un decorso "ordinato" e quindi meno probabile. In certi casi, il proletariato è come il catalizzatore che permette lo svolgimento di una reazione chimica rimanendo comunque inalterato al termine della stessa. La classe proletaria c'è, e non solo come insieme statistico, ma come forza storica, e la sola sua esistenza è una minaccia per la borghesia, che si muove in anticipo con misure economiche e politiche per evitare che essa provochi sconquassi sociali... che comunque ci saranno.

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