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  • Resoconto teleriunione  26 marzo 2019

Conoscenza, marasma sociale e rivoluzione

La teleconferenza di martedì sera, presenti 16 compagni, ha preso le mosse dalla lettera di Elio Franzini, filosofo nonché rettore dell'Università di Milano, a Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, intitolata "Studi umanistici e scientifici. La scissione non ha senso".

In realtà, a dispetto del titolo, l'autore afferma che la discussione iniziata negli anni '60 da Charles P. Snow sulla necessità di unificare il sapere scientifico con quello umanistico, è superata, dato che le due culture esistono e che "non si può pensare di ridurre la complessità dei saperi ad artificiosi momenti unitari". Per Franzini, la filosofia ha dunque la preminenza su tutte le altre discipline:

"Nella misura in cui tratta di una questione puramente tecnica, la soluzione dipende dagli strumenti tecnologico-scientifici che si riescono ad approntare. Ma, nel momento in cui il campo si allarga – ed è il caso della nostra contemporaneità – il ritmo del progresso tecnico impone alla coscienza umana l'obbligo di adattare le regole alle circostanze, precisando con le sue scelte i criteri che gli consentono di agire. Ed è qui che il pensiero filosofico innesta ancor oggi la sua forza di propulsione."

Ciò che conta è quindi la profondità del pensiero filosofico, le altre discipline servono al massimo ad ampliarne l'orizzonte speculativo. Lo scritto di Franzini fa venire in mente lo scambio epistolare avvenuto qualche anno fa sulle pagine di Repubblica tra Eugenio Scalfari e Alessandro Baricco; il tema della discussione era l'avvento dei nuovi barbari, e mentre il primo difendeva l'importanza degli intellettuali e della cultura classica rivendicando il primato della filosofia rispetto all'emergere dell'intelligenza diffusa e distribuita, il secondo valutava abbastanza positivamente la superficialità barbarica.

Il pensiero borghese celebra l'autonomia delle varie discipline (frutto della divisione sociale del lavoro) e, al massimo, arriva all'idea di un contatto più o meno episodico tra le varie culture per cui ogni studioso si specializza in un determinato campo del sapere e poi comunica i risultati raggiunti agli altri. Marx fa piazza pulita di questo dualismo affermando che la scienza/conoscenza di specie è una sola.

John Brockman, nel libro La terza cultura, cerca di descrivere il processo di unificazione dei saperi mettendo insieme brevi saggi scritti da fisici, biologi, psicologi, informatici e filosofi. Anche se i pragmatici divulgatori americani sono un passo avanti rispetto ai filosofi nostrani, le tesi di Snow rimangono deboli e la discussione ripresa da Brockman non affronta il problema alla radice: entrambi gli autori non riescono a liberarsi del tutto dall'idea della divisione del sapere e arrivano alla conclusione della necessità di una cultura interdisciplinare. Insomma, sono ancora lontani dall'immaginare una società che liberi finalmente il cervello sociale (in cui nessun neurone pensa in proprio) e raggiunga la conoscenza unica di specie prefigurata da Marx.

Il mondo delle reti è un insieme di argomenti concatenati: su Wikipedia, partendo da una qualsiasi voce, attraverso il sistema dei collegamenti ipertestuali, è possibile arrivare ai più diversi argomenti. Gli uomini ragionano ancora in maniera preistorica (per Marx le società di classe sono la preistoria della società umana), anche se nella vita di tutti i giorni sono inseriti in un sistema industriale integrato. Viviamo in un mondo che vede aumentare oggettivamente le conoscenze generali sulla natura: indaghiamo sulla struttura della materia spaccando gli atomi, trovando nuove particelle, rivelando le basi molecolari della vita, e accumuliamo effettivamente una enorme quantità di conoscenze, ma la qualità rimane bassa perché nel nostro approccio allo studio della natura ha ancora il sopravvento il criterio del dualismo osservatore-uomo e osservato-natura.

Un compagno ha poi accennato a un lavoro in corso sulla guerra civile diffusa, partito dalla lettura degli articoli "Marasma sociale e guerra", "Lo Stato nell'era della globalizzazione" e "Il grande collasso". Sono stati mostrati e commentati via Skype una serie di grafici sviluppati grazie ai dati sulla violenza organizzata tratti da "Uppsala Conflict Data Program", un progetto sviluppato presso l'Università di Uppsala in Svezia che raccoglie informazioni sui conflitti armati dal 1946 e lo rende disponibile pubblicamente attraverso il suo rapporto annuale, States in Armed Conflict. Nel caso della guerra civile diffusa bisogna analizzare in quale forma e con quale frequenza essa si manifesti, in modo da ottenere una rappresentazione valida che ci permetta di passare dal concreto all'astratto e viceversa. Nella prima nota degli "Elementi dell'economia marxista" (1946) si afferma infatti l'importanza di schematizzare la realtà sociale, trattando "le entità su cui si indaga con misure numeriche e relazioni matematiche tra le loro misure", in modo da rendere "le nozioni e le relazioni e il loro possesso e maneggio meno individuali, più impersonali e valevoli collettivamente".

Un grafico sullo stato della guerra civile diffusa serve anche a smentire la concezione secondo cui si starebbe preparando la Terza Guerra Mondiale, combattuta di nuovo tra due blocchi imperialistici contrapposti. Noi sosteniamo che la guerra contemporanea è quella che vede una larga partecipazione della popolazione civile, comprese partigianerie e gruppi armati di ogni genere. I dati presi in esame dimostrano che la guerra di tutti contro tutti è diventata sistema e che uno dei suoi aspetti caratteristici è l'aumento delle forze combattenti che guerreggiano per procura (proxy war), come in Siria, Iraq, Ucraina, Yemen, ecc.

Oggi si combattono conflitti anche relativamente brevi, come quello in Libano nel 2006, ma con un'intensità notevole per km2, soprattutto per il numero di morti, rispetto alle guerre di qualche decennio fa. Lo Stato fa gli interessi del Capitale e cerca di ricomporre a favore di quest'ultimo lo scontro tra le classi, ma quando viene meno l'accumulazione e la relativa redistribuzione del plusvalore, non c'è più modo di tenere insieme le spinte sociali antagonistiche. La guerra moderna comporta lo scontro armato all'interno di una nazione fra i suoi cittadini, operazioni di polizia con mezzi da guerra, strutture di sicurezza super-armate, colonizzazione interna di strati sociali da parte di altri strati sociali, e ampio uso della compellence (coercizione a fare ciò che ci è utile anche se l'avversario non vuole).

La guerra civile è nel DNA del capitalismo nella misura in cui le due classi principali vivono un rapporto di sfruttamento dell'una sull'altra. E' un fenomeno che si diffonde come un'epidemia in tutto il mondo.

A proposito di marasma sociale e guerra, in Palestina è sceso in piazza un movimento che si chiama "Vogliamo vivere", nato contro il peggioramento delle condizioni di vita nella Striscia di Gaza; le manifestazioni, duramente represse da Hamas che accusa i manifestanti di essere al soldo degli israeliani, vedono la partecipazione di giovani e disoccupati. In Marocco ha avuto luogo un grande sciopero degli insegnanti contro il carovita. L'Algeria è alle prese con scioperi generali e una tensione sociale crescente. In Tunisia continuano le proteste e le manifestazioni. Infine c'è l'Egitto, una "pentola a pressione" con oltre 100 milioni di abitanti e dove dalla caduta di Mubarak non è cambiato assolutamente nulla dal punto di vista delle condizioni di vita. Risalendo i Balcani, sono da segnalare le manifestazioni in Serbia e in Ungheria.

Quando qualche anno fa parlavamo di sincronia in merito agli indici di crescita economica dei vari paesi e in relazione ai movimenti "contro" che nascevano un po' ovunque, qualcuno storceva il naso e ci accusava di essere degli scientisti (spesso abbiamo citato il libro Sincronia del matematico Steven Strogatz). Oggi tali fenomeni sono sotto gli occhi di tutti.

A Londra un milione di persone è sceso in piazza per manifestare contro la Brexit, vissuta da molti come il suicidio del Regno Unito. Quando si muovono tali masse di uomini, al di là di quello che pensano o dicono i singoli, vuol dire che forte è il disagio sociale. Così come avviene, per esempio, in Francia con le proteste dei gilet gialli. Si tratta di un processo iniziato nel 2008 e che ha coinvolto quasi tutto il mondo, tra manifestazioni, rivolte e guerre più o meno cruente.

Lo sviluppo del capitalismo è, allo stesso tempo, lo sviluppo della sua antitesi: il comunismo. Marx dice che il peggior nemico del capitalismo è il capitalismo stesso, e non si potrebbe affermare nulla del genere se non fosse il capitalismo stesso a preparare le condizioni per la sua scomparsa, socializzando al massimo la produzione e portandola al livello tecnico e organizzativo corrispondente a una società senza classi; eliminando oggettivamente la proprietà privata prima che scompaiano i soggetti che ne beneficiano, i capitalisti; sviluppando la classe che, con il suo organo politico, rappresenta fisicamente lo strumento per la distruzione della vecchia società e l'emergere di quella nuova.

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    Nell'articolo "Proletari, schiavi, piccolo-borghesi o... mutanti?", pubblicato sulla rivista n. 4 (2001), descrivevamo una serie di trasformazioni che all'epoca si potevano solo intravedere; allora, infatti, non c'erano i rider, non c'erano i clickworkers e di intelligenza artificiale si parlava poco:

    "La struttura mondiale del lavoro sociale, la socializzazione crescente della forza produttiva umana, non possono non avere effetti materiali sulle forme in cui si manifesta lo sfruttamento. Se la miseria e il sottosviluppo odierni sono fenomeni modernissimi dovuti alla distruzione irreversibile dei rapporti antichi, l'estendersi enorme di rapporti di lavoro atipici nelle aree metropolitane non devono essere considerati fenomeni di regresso: saranno anch'essi a tutti gli effetti il risultato di progresso, quindi, per definizione, riflessi del futuro sul presente in via di liquidazione continua."

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Rivista n°53, giugno 2023

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Editoriale: La guerra rispecchia la società

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