Informazioni aggiuntive

  • Resoconto teleriunione  7 settembre 2021

Senilità capitalistica cinese

Durante la teleconferenza di martedì sera, a cui hanno partecipato 18 compagni, abbiamo fatto un aggiornamento sullo stato del capitalismo prendendo spunto da un articolo apparso su Repubblica riguardo il rincaro dei trasporti, soprattutto nel settore marittimo.

Il più grande armatore di navi mercantili al mondo, la compagnia danese Maersk, ha lanciato l'allarme sulla difficile situazione nel settore della movimentazione merci, che avviene per il 90% via mare. La rapida ripresa della domanda, seguita ai periodi di lockdown e alimentata dalle misure di sostegno ai consumi interni adottate dai vari stati (in particolare Cina e Usa), ha provocato l'intasamento di porti e banchine, il ritardo nelle consegne e l'aumento del costo dei noli. Il flusso degli scambi commerciali è cresciuto così repentinamente che le compagnie di cargo non riescono a soddisfare le richieste e a gestire la relativa movimentazione dei container navali, generando colli di bottiglia nella distribuzione delle merci, con ricadute anche sul prezzo finale.

Paradossalmente, di fronte alla preoccupante situazione, l'amministratore delegato di APM Terminals, una collegata di Maersk, in un'intervista al Financial Times auspica una sorta di decrescita, per far sì che la catena di approvvigionamento possa recuperare i ritardi accumulati e, nel lungo periodo, recuperare l'efficienza.

La logistica è fondamentale per il capitalismo: se il flusso di distribuzione delle merci dovesse bloccarsi, le conseguenze sarebbero micidiali e ricadrebbero gravemente sull'intero sistema (non è un caso che i servizi segreti monitorino con attenzione le lotte che si sviluppano nel settore). Ne abbiamo parlato spesso, soprattutto in relazione all'approvvigionamento delle numerose metropoli che contano milioni abitanti. Si tratta di un sistema in bilico, sempre più esposto a criticità che ne riducono stabilità ed efficienza.

Solo pochi mesi fa l'incidente della nave Ever Given nel Canale di Suez, l'unico collegamento tra Mar Mediterraneo e Mar Rosso attraverso cui passa il 25% delle navi cargo in circolazione, ha mandato in tilt il commercio internazionale e in panico i suoi operatori, causando danni per decine di miliardi di dollari. Lo scorso giugno in Cina il porto di Yantian è stato chiuso in seguito al varo di severe misure restrittive per il contenimento dei contagi da Covid19; sembra che il blocco dell'importante snodo commerciale abbia causato una perdita economica maggiore di quella di Suez, dato che sulle sue banchine circola un quarto del commercio tra Cina e Stati Uniti (nel periodo di crisi spostare un container tra i due paesi richiedeva fino a 10mila dollari). Ad agosto è stato il turno del porto di Ningbo-Zhoushan, vicino ad Hong Kong, chiuso a causa dei contagi da coronavirus tra i lavoratori portuali. Nello stesso mese, l'Inghilterra, e soprattutto la sua capitale Londra, hanno registrato considerevoli problemi alla catena logistica, in conseguenza dei quali molti supermercati sono rimasti senza merci sugli scaffali. Le causa della penuria era legata alla Brexit, ma anche alla ripresa della diffusione del virus nel paese e alla conseguente insufficienza di lavoratori disponibili (moltissime persone erano costrette in casa per scontare la quarantena). All'elenco possiamo aggiungere anche la crisi dei semiconduttori che, in particolare, sta colpendo duramente il settore automobilistico. Sebbene la carenza di microchip sia legata alla poca disponibilità di materie prime e non alla difficoltà dei trasporti, ci troviamo di fronte ad un'ulteriore frenata che, nel caso di Volvo, ha portato alla sospensione della produzione per alcuni giorni.

La supply chain globale è intrinsecamente fragile: basta un piccolo intoppo per rallentare il flusso delle merci e la catena internazionale del valore. La logistica non è una branca produttiva autonoma dalle altre, ma la catena di montaggio interna alla fabbrica che è uscita dalle mura aziendali e si è estesa su tutto il territorio permeando il pianeta come un sistema nervoso ("Rottura dei limiti d'azienda", rivista n. 4). Le difficoltà che sta attraversando il comparto in questo periodo sono intrinseche al sistema stesso, soggetto ad entropia, e non sono esclusivamente legate alla pandemia. Recentemente, per esempio, il colpo di stato in Guinea ha fatto impennare il prezzo della bauxite (la principale fonte per la produzione dell'alluminio) che è cresciuto del 40%. In futuro i colli di bottiglia si verificheranno con sempre maggiore frequenza con ricadute sull'approvvigionamento, e quando i blocchi riguarderanno non tanto materiali come il ferro, l'alluminio, ecc., ma la supply chain destinata alle metropoli sarà tutta un'altra storia. Non è tanto il battito d'ali della farfalla a determinare un uragano (sociale) dall'altra parte del mondo, si tratta invece di un sistema in seria difficoltà al quale basta una perturbazione locale per aggravare il proprio stato di crisi globale.

Da anni il governo cinese sta affrontando la questione del consumo interno tentando di frenare la fuga all'estero dei capitali, convogliandoli all'interno del proprio territorio; durante la pandemia questa politica è stata notevolmente incrementata con l'adozione di importanti misure di rilancio dell'economia. I guai della Cina sono gli stessi che hanno dovuto gestire a loro tempo i paesi a capitalismo maturo. Il rapporto debito/pil del gigante asiatico sfiora il 290% e si avvicina a quello dell'Eurozona e degli Stati Uniti. Pechino stava provando ad appianare il deficit con operazioni di deleverage, ma con la pandemia questi interventi sono stati interrotti. Il debito cinese impensierisce gli investitori internazionali, i quali sono legati all'economia del paese e si vedono ora esposti ad un rischio elevato ("Chinais dodgy-debt double act", The Economist del 4 settembre). Non è più lo Stato a comandare sul Capitale bensì il contrario, e anche la Cina, che in brevissimo tempo è passata da paese del terzo mondo a paese capitalisticamente avanzato (con indici di crescita alti), segue lo stesso percorso obbligato solcato dai concorrenti occidentali. La sincronizzazione delle economie in un mondo globalizzato è un fatto inevitabile.

Un altro grosso problema incombe sul gigante asiatico, l'insolvenza di Evergrande. Una delle più grandi società immobiliari del paese scricchiola rumorosamente sotto il peso di oltre 100 miliardi di dollari di debito. In un anno le azioni del gruppo sono crollate del 70% in termini di valore in borsa, mentre i profitti sono diminuiti del 29%. Di recente è arrivato anche il declassamento da parte dell'agenzia di rating Moody's, a cui si è aggiunta la sospensione temporanea delle contrattazioni sul titolo alla borsa di Shenzhen, e delle obbligazioni a Shanghai. Sono in molti a ravvisare nella crisi del colosso cinese forti similitudini con quanto accaduto negli Usa nel 2008 con la crisi dei mutui subprime. Il pericolo maggiore riguarda l'esposizione della società verso gli investitori stranieri e l'effetto domino che potrebbe generarsi, dato che Evergrande è un conglomerato finanziario che raggruppa diverse società. In realtà, è tutto il settore ad essere in crisi; Il Sole 24 Ore afferma che la crisi di Evergrande rischia di trascinare nel baratro l'intero sistema immobiliare cinese (che vale circa un quarto di tutta la produzione economica del paese).

Da tempo i grandi investitori si domandano se l'immobiliare cinese sia un'enorme bolla e quando scoppierà. Non serve essere esperti di finanza per accorgersi dell'esistenza in Cina delle città fantasma, e cioè della costruzione di immensi centri urbani che poi rimangono vuoti (sembra che ne esistano più di 50). Bisognerà vedere che tipo di reazione metterà in campo il governo di Pechino, ma in ogni caso il problema non potrà essere risolto alla radice ma solo tamponato.

Non si tratta d'altro che di una crisi di sovrapproduzione, quindi di eccedenza di merci e perciò di capitali. Il mondo capitalistico produce troppo e non riesce a fermarsi ("Vulcano della produzione o palude del mercato?", 1954).

Da tempo ci aspettavamo un nuovo crack, e guarda caso sembra profilarsi all'orizzonte una crisi che, come nel 2008, partirebbe dal settore immobiliare determinando pesanti contraccolpi su quello finanziario internazionale. Come abbiamo scritto nella rivista n. 23 (giugno 2008): quella in corso non è una crisi congiunturale.

Articoli correlati (da tag)

  • Conferenza pubblica sulla guerra - Roma

    Sabato 27 maggio 2023, ore 17.30

    Ci sono varie forme di rappresentazione della guerra in Ucraina e di tutte le guerre in corso nel mondo. Quella che va per la maggiore è una cronaca dei fatti condita da un'informazione parziale e propagandistica che non permette di distinguere i dati reali da quelli inventati; un'impostazione ideologica che ripropone il dualismo tra paesi aggrediti e paesi aggressori, e il relativo bisogno di intruppare il proletariato e chi vorrebbe rappresentarlo in un fronte borghese contro un altro. L'unico modo per analizzare i fatti in sintonia con il "movimento reale che abolisce lo stato di cose presente" è farlo proiettandosi nel futuro. E questo ci dice che l'esaurimento di qualsivoglia funzione propulsiva del presente modo di produzione si manifesta anche nel carattere che lo scontro interimperialista assume: una serie di guerre che porta distruzione senza alcuna possibilità di ringiovanimento del Capitale. In questo senso, la guerra attuale è diversa dalle grandi guerre dei secoli scorsi, dalle quali emergevano una potenza dominante e un nuovo ordine mondiale. Quando si sente parlare di un impero in declino e di uno in ascesa, bisogna tenere presente che il capitalismo d'oggi è senile ad Ovest come ad Est, e che la parabola che descrive l'andamento della produzione di plusvalore ha un inizio e una fine. Il sistema ha una freccia del tempo: dissipa energia, regredisce verso il disordine, procede verso la catastrofe.

    Sarà possibile seguire l'incontro anche via Skype. Per partecipare inviare una mail all'indirizzo Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. entro il 26 maggio 2023.

    c/o Laboratorio politico Alberone via Appia Nuova 357 - Roma
    (fermata della metropolitana A Furio Camillo)

  • Il picco cinese

    La teleconferenza di martedì sera, a cui si sono connessi 14 compagni, è iniziata con la presentazione della riunione pubblica che si terrà il prossimo 27 maggio a Roma sul tema della guerra. Abbiamo ribadito che per capire cosa sta succedendo nel mondo bisogna proiettarsi nel futuro (n+1), e di lì guardare al presente (n). Se le guerre passate si sono caratterizzate per il fatto che la potenza vincitrice è riuscita ad imporre un nuovo ordine mondiale, quella odierna indica una situazione di ingovernabilità generale ed è il prodotto di una situazione che alla fine non avrà vincitori in ambito capitalistico.

    The Economist, uno dei settimanali che prendiamo come punto di riferimento del mondo borghese, scrive che "la potenza cinese sta per raggiungere il picco", rifacendosi alle analisi dei due politologi americani Hal Brands e Michael Beckley ("Is Chinese power about to peak?"), secondo i quali l'ascesa della Cina si sta già arrestando. Da quando il paese ha iniziato ad aprirsi e riformare l'economia, nel 1978, il suo PIL è cresciuto in media di un 9% all'anno, e ciò ha permesso un relativo miglioramento delle condizioni di vita per milioni di cinesi. Pechino ha bruciato le tappe facendo in 40 anni quello che l'Occidente ha compiuto in qualche secolo. Negli ultimi decenni la crescita economica della Cina, e in generale dell'Asia, (il paese conta un quinto della popolazione mondiale) ha rappresentato una boccata d'ossigeno per il capitalismo, che dagli anni '70 mostra segni di cedimento in Occidente. Ma ora il gigante asiatico sta avendo qualche problema perché l'attuale modo di produzione è diventato senile ad Ovest come ad Est. Se da una parte si sta arrivando alla parità economica tra USA e Cina, dall'altra sappiamo che non ci potrà essere un nuovo paese alla guida del capitalismo e la serie storica non potrà che interrompersi ("Accumulazione e serie storica"). Le motivazioni del declino cinese sono di varia natura, una di questa è la situazione demografica: le Nazioni Unite stimano che entro la metà del secolo la popolazione lavorativa potrebbe diminuire di oltre un quarto, con la crescita del numero degli anziani. L'economista Nouriel Roubini, nel saggio La grande catastrofe, analizzando quella che definisce la bomba a orologeria demografica, scrive:

  • Un mondo sempre più disintegrato

    La teleconferenza di martedì sera, a cui hanno partecipato 17 compagni, è iniziata riprendendo il tema della guerra, con particolare attenzione a quello che sta succedendo in Sudan e alle cause generali che hanno portato allo scoppio del conflitto.

    La rivista Limes, nell'articolo "Prove di guerra per procura (anche) in Sudan", afferma che "lo scontro in atto nel paese africano è un tassello della tumultuosa transizione verso un nuovo ordine mondiale". Sarebbe più corretto dire nuovo disordine mondiale. Cina, Russia e Stati Uniti hanno interessi nel paese e sono presenti, mentre Onu e Unione Europea sono politicamente assenti. Il Sudan ha una popolazione di 48 milioni di abitanti, è il terzo paese più popoloso del continente africano e ha un'estensione di oltre 1,8 milioni kmq (circa 6 volte l'Italia). Ha una posizione geopolitica importante, poiché si affaccia sul Mar Rosso in un tratto che collega i paesi arabi con quelli africani, e per la disponibilità di materie prime (acqua, petrolio, oro). Non è troppo distante da Gibuti, dove ci sono le basi militari di Italia, Cina, Francia, Stati Uniti, Giappone, Arabia Saudita. Pochi mesi fa aveva dato il via libera alla costruzione di una base navale russa sul proprio territorio.

    Secondo l'Espresso, "la guerra in Sudan rischia di far collassare l'Africa". Nell'articolo "Marasma sociale e guerra" avevamo visto che già nel 2011 diversi paesi (Egitto, Siria, Libia) erano stati travolti da moti di piazza, in alcuni casi evoluti in guerra civile. A partire dal 2019, il Sudan è stato teatro di manifestazioni di massa che hanno contribuito alla cacciata del presidente Omar al-Bashir, al potere da oltre trent'anni, e poi di un golpe dell'esercito che però non ha risolto la situazione. In un quadro di instabilità generale proliferano le guerre civili. Esse diventano endemiche in quanto le cause che le generano sono molteplici: migrazioni, siccità, crisi economiche e politiche, mutati assetti internazionali.

Rivista n°52, dicembre 2022

copertina n°52

Editoriale: Niente di nuovo sul fronte orientale

Articoli: La malattia non esiste, parte prima - Un sistema che ingegnerizza sé stesso? - La riduzione dell'orario di lavoro non è più un tabù

Rassegna: L'ennesima conferenza sul clima - Polarizzazione crescente - Pericolose tempeste"

Recensione: Gaia, le macchine autoreplicanti e l'intelligenza collettiva

Doppia direzione: Più "avanzato" Lenin o Bogdanov? - Cooperazione e sostegno

Raccolta della rivista n+1

Newsletter 245, 19 gennaio 2022

f6Libertà

Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale.

Continua a leggere la newsletter 245
Leggi le altre newsletter

Abbonati alla rivista

Per abbonarti (euro 20, minimo 4 numeri) richiedi l'ultimo numero uscito, te lo invieremo gratuitamente con allegato un bollettino di Conto Corrente Postale prestampato.
Scrivi a : mail2

Iscriviti alla newsletter

Iscriviti alla newsletter quindicinale di n+1.

Invia una mail a indirizzo email