Informazioni aggiuntive

  • Resoconto teleriunione  17 ottobre 2017

Delocalizzazione cinese

La teleconferenza di martedì scorso, 14 i compagni presenti, è iniziata commentando alcune news riguardo l'utilizzo dei robot nella produzione industriale.

L'articolo "L'azienda cinese che delocalizza negli Usa e crea magliette in 30 secondi (con i robot)", pubblicato sul sito Linkiesta, racconta della delocalizzazione di un'azienda tessile cinese in Arkansas, in cui la maggior parte delle linee, che produrranno 23 milioni di t-shirt all'anno, saranno del tutto automatizzate, mentre 400 tecnici si occuperanno esclusivamente della manutenzione. Anche La Stampa pubblica un pezzo sull'utilizzo sempre più diffuso dei robot, nello specifico in Cina. Da fabbrica del mondo e territorio dove le grandi aziende (Apple in testa) si trasferivano dato il basso costo del lavoro, il colosso asiatico sta bruciando le tappe robotizzando la produzione e delocalizzando a sua volta:

"Nonostante i progressi nella robotica, la Cina ha ancora una densità inferiore a molti paesi: conta 49 robot per ogni 10mila lavoratori contro la media globale di 69, mentre per gli Stati Uniti il livello è 176, per la Corea del Sud 531 e per la Germania 301. Per colmare questo ritardo, Pechino si prefigge di raggiungere il numero di 150 robot per ogni 10 mila lavoratori entro il 2020."

Secondo i dati la Cina ha un numero inferiore di automi, ma è da considerare che ha anche un numero maggiore di lavoratori rispetto agli altri. Conviene perciò slegarsi da un raffronto tra paesi e "pesare" la produttività in ambito internazionale, sommando il numero assoluto dei robot e quello degli operai (la Cina produce ogni anno 1,1 miliardi di tonnellate di acciaio). Se aziende del calibro di Foxconn hanno annunciato che a breve la loro forza-lavoro umana verrà sostituita completamente dalle macchine, vuol dire che i processi in corso sono molto più veloci di quanto si possa immaginare e quindi si verificheranno effetti sociali esplosivi dovuti alle centinaia di milioni di disoccupati cinesi (Vulcano della produzione o palude del mercato?, 1954). Per frenare, almeno in parte, questo meccanismo, Pechino abbina a settori ad alta composizione organica del capitale settori a bassa composizione organica (tanti operai e poche macchine), un po' come avviene con le maquiladoras messicane, fabbriche a bassa composizione organica di capitale possedute in gran parte direttamente dall'industria nordamericana.

Lo sviluppo della forza produttiva sociale dissolve le forme obsolete, e questa dissoluzione sviluppa a sua volta la forza produttiva. Il capitalismo è la società che più alimenta le spinte esponenziali e che più disgrega le forme precedenti o le loro sopravvivenze, tanto da configurare sé stessa come forma di transizione per eccellenza. Nei Grundrisse Marx afferma che, dato il dominio del sistema di macchine, ad un certo punto "non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l'uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore." E ancora: "Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a una nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa."

L'unica fonte del plusvalore è lo sfruttamento del lavoro vivo e non si può ricavare da pochi operai sfruttati al massimo quello che si può ricavare da molti operai sfruttati meno. Se una fabbrica funzionasse in maniera del tutto automatica, il proprietario intascherebbe un sovrapprofitto; ma se tutte le fabbriche si attestassero su una situazione simile (zero operai e tutte macchine), non ci sarebbe alcun plusvalore. Che razza di capitalismo sarebbe questo? Evidentemente un non-capitalismo.

Anche sul fronte della finanza il sistema presenta profonde incrinature. Molti analisti sono preoccupati per la crescita dei prezzi dei titoli in borsa e mettono in relazione l'iniezione di liquidità nei mercati con l'avvicinarsi dello scoppio di una grande bolla speculativa. In realtà non si tratta "semplicemente" di un nuovo 'crack' finanziario, bensì del modo di essere del modo di produzione attuale. I 10.000 miliardi di dollari immessi in questi anni sul mercato da Federal Reserve, Banca Centrale Europea e Banca del Giappone hanno solo alimentato la speculazione e non hanno per niente rivitalizzato l'economia reale, così come la chiamano loro. L'abbiamo detto più di una volta: siamo di fronte ad una "crisi sistemica", non certo ad una crisi di natura congiunturale.

Le contraddizioni del caitalismo si ripercuotono anche in campo militare, dove l'incapacità degli Stati Uniti a governare il mondo modifica tutto un sistema di alleanze ed equilibri. Pur avendo ancora forza sufficiente a determinare una politica internazionale basata su quel che resta degli schieramenti di un tempo, la potenza americana non è più in grado di condurre una guerra all'insegna della politica super-imperialistica di una volta e, anzi, la sua presenza sullo scacchiere mondiale si è fatta necessariamente più soft.

Nell'area mediorientale, per esempio, Turchia e Iran si stanno ricavando un ruolo da medie potenze imperialiste. Ruolo che non esiteranno ad utilizzare per impedire che i curdi costituiscano il proprio stato nazionale. Questi ultimi, dopo aver messo a disposizione le loro forze per riprendere prima Mosul e poi Raqqa, ora rivendicano la formazione di una nuova entità statale, ma si ritrovano contro, oltre a Iran e Turchia, appunto, anche Iraq e Siria. Nemmeno gli americani andranno in loro aiuto: pur avendoli utilizzati come partigianeria contro l'IS, non sono disposti a ricambiare il favore.

Anche la vecchia Europa è attraversata a suo modo da spinte nazionaliste. A Barcellona sono scese in piazza 200mila persone per protestare contro l'arresto di due leader indipendentisti, e manifestazioni parallele si sono svolte in altre città della Catalogna. Ma nel fronte politico che reclama l'indipendenza della regione si segnala una prima spaccatura tra la sinistra autonomista e la dirigenza attuale che cerca di mediare con il governo centrale. La borghesia catalana è inconseguente, senza spina dorsale: dichiara la secessione ma subito dopo la posticipa. La perdita di energia e lo sgretolamento delle strutture statali non è, naturalmente, una prerogativa della sola Spagna; situazioni ben più problematiche sono in corso in Niger, Congo, Yemen, Nigeria, Libia. E Somalia, dove il governo centrale è barricato nella capitale Mogadiscio, recentemente colpita da un grande attentato che ha causato più di 200 morti, e non controlla più niente.

La teleconferenza si è conclusa con un accenno ai fatti italiani in campo sindacale.

Sabato 14 ottobre Cgil, Cisl e Uil hanno organizzato una serie di presidi davanti alle prefetture per protestare contro la nuova Legge di Bilancio. Camusso, intervenuta alla trasmissione radiofonica "Circo Massimo" di Radio Capital, ha spiegato che la finanziaria appena varata dal governo "favorisce le rendite e mantiene lo status quo" e non ha quindi escluso uno sciopero generale. Nel frattempo nel comparto trasporto merci e logistica, è stato dichiarato dai confederali uno sciopero per i prossimi 27, 30 e 31 ottobre. La prassi, come al solito, è quella dello sciopero di preavviso per iniziare la trattativa, dopodiché si va al tavolo e si trova un'intesa con la controparte. I livelli di sfiducia dei lavoratori nei confronti del sindacato (vedi ultimo sondaggio Ipsos) spingono quest'ultimo ad attivarsi per recuperare lo spazio perduto (ormai in Cgil più della metà degli iscritti sono pensionati).

Articoli correlati (da tag)

  • Un mondo sempre più disintegrato

    La teleconferenza di martedì sera, a cui hanno partecipato 17 compagni, è iniziata riprendendo il tema della guerra, con particolare attenzione a quello che sta succedendo in Sudan e alle cause generali che hanno portato allo scoppio del conflitto.

    La rivista Limes, nell'articolo "Prove di guerra per procura (anche) in Sudan", afferma che "lo scontro in atto nel paese africano è un tassello della tumultuosa transizione verso un nuovo ordine mondiale". Sarebbe più corretto dire nuovo disordine mondiale. Cina, Russia e Stati Uniti hanno interessi nel paese e sono presenti, mentre Onu e Unione Europea sono politicamente assenti. Il Sudan ha una popolazione di 48 milioni di abitanti, è il terzo paese più popoloso del continente africano e ha un'estensione di oltre 1,8 milioni kmq (circa 6 volte l'Italia). Ha una posizione geopolitica importante, poiché si affaccia sul Mar Rosso in un tratto che collega i paesi arabi con quelli africani, e per la disponibilità di materie prime (acqua, petrolio, oro). Non è troppo distante da Gibuti, dove ci sono le basi militari di Italia, Cina, Francia, Stati Uniti, Giappone, Arabia Saudita. Pochi mesi fa aveva dato il via libera alla costruzione di una base navale russa sul proprio territorio.

    Secondo l'Espresso, "la guerra in Sudan rischia di far collassare l'Africa". Nell'articolo "Marasma sociale e guerra" avevamo visto che già nel 2011 diversi paesi (Egitto, Siria, Libia) erano stati travolti da moti di piazza, in alcuni casi evoluti in guerra civile. A partire dal 2019, il Sudan è stato teatro di manifestazioni di massa che hanno contribuito alla cacciata del presidente Omar al-Bashir, al potere da oltre trent'anni, e poi di un golpe dell'esercito che però non ha risolto la situazione. In un quadro di instabilità generale proliferano le guerre civili. Esse diventano endemiche in quanto le cause che le generano sono molteplici: migrazioni, siccità, crisi economiche e politiche, mutati assetti internazionali.

  • Pensare l'impensabile

    La teleriunione di martedì sera, connessi 19 compagni, è iniziata con l'analisi delle recenti manifestazioni in Israele e in Francia.

    Nello Stato d'Israele, dove le mobilitazioni vanno avanti da circa tre mesi, ufficialmente si scende in piazza per difendere l'indipendenza della Corte Suprema e il potere giudiziario, minacciati da una legge del governo Netanyahu (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, può annullare le decisioni della Corte). Secondo gli organizzatori delle mobilitazioni, si tratta di proteggere la democrazia israeliana, messa a repentaglio da un governo di estrema destra.

    Israele è un paese con poco meno di nove milioni di abitanti, si trova in un'area geopolitica in subbuglio e negli ultimi anni ha visto l'avvicendarsi di diversi governi. Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha avvertito Netanyahu del malcontento all'interno dell'esercito in merito all'approvazione della legge, considerata un attacco tangibile allo stato israeliano. Per tutta risposta, il primo ministro ne ha chiesto e ottenuto le dimissioni, scatenando proteste di massa, l'assedio della sua residenza a Gerusalemme e il blocco delle strade principali di Tel Aviv. L'esercito israeliano è un esercito di popolo, per tal motivo la protesta ha coinvolto sia riservisti che reparti d'élite, che hanno minacciato di non presentarsi nelle caserme qualora la legge fosse stata approvata; migliaia di soldati israeliani hanno dichiarato che si rifiuteranno di prestare servizio nell'esercito, tanto che il presidente americano Joe Biden si è detto preoccupato che Israele vada verso una guerra civile. Di fronte al crescere della mobilitazione e la minaccia dello sciopero generale, il primo ministro ha annunciato il "congelamento" della riforma giudiziaria.

  • Grandi dissoluzioni in atto

    La teleriunione di martedì sera, a cui hanno partecipato 20 compagni, è iniziata con il commento delle notizie provenienti dal Brasile riguardanti l'assalto ai palazzi delle istituzioni ad opera dei sostenitori dell'ex premier Jair Bolsonaro.

    Le manifestazioni anti-Lula, sfociate nell'irruzione nel Parlamento, nel palazzo presidenziale e in quello della Corte Suprema a Brasilia, sono il frutto di una spaccatura che da anni segna il paese sudamericano e che negli ultimi mesi, almeno dall'ottobre del 2022, si è esacerbata. Le ragioni alla base della profonda divisione sociale sono molteplici, e sono di carattere politico, geografico, di classe e finanche religioso (vedi crescita dei movimenti evangelici). In entrambe le tifoserie ci sono masse di uomini preoccupate per il proprio futuro, che al sud chiedono più liberismo e al nord un intervento statale di maggiore portata. Da una parte c'è chi ha paura di perdere ciò che ha conquistato in questa forma sociale, dall'altra chi ha poco e non vuole precipitare ancora più in basso.

    Si è dunque verificato uno scontro sociale che si è riflesso all'interno dello stato brasiliano, il quale fatica a mantenere il controllo della società. In generale, lo Stato è sempre meno capitalista collettivo e sempre più struttura contesa tra cordate capitalistiche e apparati in lotta gli uni con gli altri. Questo vale per il Brasile come per gli Stati Uniti, che hanno già sperimentato l'assalto a Capitol Hill da parte di gruppi di manifestanti trumpisti in protesta contro il risultato delle urne. Forse gli anelli deboli della catena imperialistica sono proprio gli stati federali, quelli in cui gli stati membri in situazioni di forte crisi tendono a rivendicare maggiore sovranità.

Rivista n°52, dicembre 2022

copertina n°52

Editoriale: Niente di nuovo sul fronte orientale

Articoli: La malattia non esiste, parte prima - Un sistema che ingegnerizza sé stesso? - La riduzione dell'orario di lavoro non è più un tabù

Rassegna: L'ennesima conferenza sul clima - Polarizzazione crescente - Pericolose tempeste"

Recensione: Gaia, le macchine autoreplicanti e l'intelligenza collettiva

Doppia direzione: Più "avanzato" Lenin o Bogdanov? - Cooperazione e sostegno

Raccolta della rivista n+1

Newsletter 245, 19 gennaio 2022

f6Libertà

Viviamo in una società che scoppia. I suoi membri, divisi o raggruppati secondo criteri il più delle volte arbitrari e casuali, non riescono più a darsi un'identità plausibile. La pandemia, invece di compattare gli individui intorno a provvedimenti utili alla salvaguardia della specie, ha aggravato la situazione facendo emergere ataviche tendenze all'irrazionale.

Continua a leggere la newsletter 245
Leggi le altre newsletter

Abbonati alla rivista

Per abbonarti (euro 20, minimo 4 numeri) richiedi l'ultimo numero uscito, te lo invieremo gratuitamente con allegato un bollettino di Conto Corrente Postale prestampato.
Scrivi a : mail2

Iscriviti alla newsletter

Iscriviti alla newsletter quindicinale di n+1.

Invia una mail a indirizzo email