Recentemente su diverse testate giornalistiche sono apparsi articoli sul tema della riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, al fine di ridurre la disoccupazione. I borghesi intravedono il rischio di una guerra civile, e alcuni sostengono la necessità di "ridurre l'orario per evitare l'ecatombe sociale" (Il Fatto Quotidiano, Piergiovanni Alleva, 07.09.20). Anche se in Italia alcune grandi aziende hanno già firmato accordi che riducono l'orario di lavoro (Lamborghini, Ducati), sembra ancora lontana una legge che riduca la giornata lavorativa a 5 oppure a 4 ore. Resta il fatto che certe rivendicazioni, una volta di nicchia e sostenute dai comunisti, sono diventate velocemente di interesse generale e vengono discusse sui principali media. Per lunghi decenni la teoria rivoluzionaria rimane appannaggio di sparute minoranze, in alcuni momenti sembra quasi scomparire, per poi tornare, sotto la spinta di improvvise accelerazioni, ad essere riscoperta da masse di uomini.
La classe dominante è costretta a introdurre nuove misure "sociali" perché è incalzata dalle piazze in rivolta. Essa dispone della forza di polizia ed esercito, ma sa che serve altro per risolvere una "questione sociale" sempre più esplosiva. Se alcune frange della borghesia parlano apertamente di riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario, coloro che dovrebbero rappresentare i lavoratori, i sindacati, sono invece fermi al paradigma lavorista e alla richiesta di maggiori investimenti produttivi; se non si danno una mossa, rischiano di essere superati dal "movimento reale". La rivoluzione opera una selezione drastica: le forze che riescono a collegarsi al divenire sociale vivono, mentre quelle che si attardano su posizioni passatiste e conservatrici sono destinate all'estinzione.
La diminuzione di qualche ora di lavoro, che può sembrare una questione puramente sindacale, per la nostra corrente è una grandissima conquista, come d'altronde afferma Marx nel Terzo Libro de Il Capitale:
"Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità... La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l'uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguano il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a sé stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa."
Marx lavorò sull'ipotesi di due uniche grandi epoche: la preistoria e la storia dell'uomo. La prima coincide con la società "naturale" nella quale impera la necessità, e cioè il caos deterministico, e comprende il capitalismo; la seconda coincide con la società umana, cosciente, progettuale, in armonia con la natura, nella quale regna la libertà. Vi sarebbe allora una sola rottura rivoluzionaria: quella al culmine della preistoria umana, cioè quella anticapitalistica. Oggigiorno non si può che sottolineare l'aspetto antiformista della prossima rivoluzione.
Dalle rivolte che scoppiano in tutto il mondo, dalle manifestazioni di insofferenza e disagio verso la vita capitalistica non emergono rivendicazioni chiare o, se ciò avviene, esse sono secondarie rispetto alla dinamica di scontro con l'esistente. Il mezzo diventa dunque il fine, e il bisogno di comunità demarca una linea di separazione con i rappresentanti politici della forma sociale vigente. Non c'è più spazio per i cortei-processione di tipo sindacal-rivendicativo, oggi i manifestanti passano direttamente all'assalto dei parlamenti (Hong Kong, Serbia, Iran, Germania), e al rifiuto del dialogo con le istituzioni (Cile, Francia, Bielorussia, Usa).
Con il suo lavoro la nostra corrente ha sempre tentato di discretizzare i passaggi storici, mettendo in luce allo stesso tempo gli elementi di continuità tra un modo di produzione e l'altro. La storia presenta caratteri invarianti e, parimenti, profonde trasformazioni: la società futura non può realizzarsi senza le categorie precedenti ma nel contempo dà luogo a categorie di natura opposta rispetto a quelle che appartengono a 'n', 'n-1' ecc., cioè al capitalismo e a tutte le società passate. Nell'editoriale della rivista n. 47, "Ingegnerizzazione sociale", abbiamo visto che ogni società si sviluppa maturando un bisogno crescente di rendimento. In fondo, le rivoluzioni sono questo: la sostituzione di una società a rendimento non più migliorabile con una a rendimento superiore. Quando una nuova macchina sostituisce il lavoro di un certo numero di operai, facendo risparmiare soldi al capitalista, tale invenzione tende a diffondersi. Nel Novecento il Taylorismo, un metodo di ingegnerizzazione della produzione, venne adottato in tutto il mondo, come poi l'elettronica e, da ultimo, Internet. Questo movimento di sviluppo della forza produttiva sociale (del General Intellect) è inarrestabile e, in quanto comunisti, sappiamo in anticipo dove porterà.
Non è la società che arriva sulle nostre posizioni, è la rivoluzione che obbliga tutti – noi compresi - a fare i conti con essa. I comunisti, essendo esploratori nel domani, sanno che una nuova forma sociale è necessaria e agiscono di conseguenza. La coscienza di questo movimento è anch'essa un prodotto materiale: ad un certo punto le molecole sociali si polarizzano, si strutturano, e si danno strumenti organizzativi adeguati. Il partito della rivoluzione è una struttura che si forma in determinate circostanze, è il frutto di un divenire sociale e non è slegato da quanto succede intorno ad esso (vedi schema del rovesciamento della prassi presente in "Teoria e azione nella dottrina marxista" del 1951).
Nel ciclo di relazioni sulle società antiche che abbiamo svolto, abbiamo visto come gli uomini del paleolitico si sono dotati di una precisa strumentazione per produrre con meno dispendio di energia; successivamente, l'uomo neolitico migliorerà ancora pervenendo a forme sociali strutturate, senza stato e senza classi. Oggi, dato l'enorme apparato di macchine, reti e robot, ci troviamo di fronte ad un altro salto evolutivo, ad un cambio di paradigma. Thomas Kuhn nel libro La struttura delle rivoluzioni scientifiche afferma che nella storia ricorre la presenza di minoranze che introducono un nuovo paradigma, il quale viene prima combattuto dai rappresentanti di quello vecchio, e poi, se valido, tende a generalizzarsi, dimostrando grazie alle verifiche sperimentali di essere superiore al precedente. Secondo Kuhn, l'emergere di nuove teorie è generalmente anticipato da un periodo di profonda incertezza per l'indagine scientifica.
Fedeli alla religione del lavoro, gli operai che rischiavano di essere licenziati, fino a poco tempo fa, si incatenavano ai cancelli o si arrampicavano sui tetti delle aziende per attirare l'attenzione mediatica. Nel volantino "A tutti i lavoratori che salgono sui tetti" abbiamo ribadito che non ha senso rivendicare il "diritto al lavoro" (soprattutto in un'epoca in cui il lavoro è sostituito in massa dai robot), ma che semmai bisogna pretendere il salario ai disoccupati. Ora, la pratica autolesionista di incatenarsi si è di molto ridotta, anche perché nei fatti non ha portato a risultati positivi e il cervello sociale ha registrato che ha più senso battersi per avere un reddito per poter vivere (non a caso il partito che ha cavalcato questa rivendicazione ha vinto le scorse elezioni politiche). Per riprodursi il capitale deve negare sè stesso a scala sempre maggiore.