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  • Resoconto teleriunione  13 gennaio 2015

Partigianerie, jihadismo e guerra permanente

La teleconferenza di martedì sera, a cui hanno partecipato 19 compagni, ha preso le mosse dal commento di un articolo de La Stampa, La globalità del nuovo islamismo. Domenico Quirico, l'autore del pezzo, descrive con queste parole l'elemento che accomuna, secondo la sua esperienza diretta (viene rapito in Siria nel 2013 e tenuto in ostaggio per mesi), i militanti dell'IS:

"[...] ciascuno di loro si sentiva la piccola parte di un tutto, e il tutto era visibilmente una parte di loro. E se fosse questa globalità, psicologica ma anche pratica, operativa, militare, il segreto della loro pestifera potenza, e quello che ci impedisce di capire? Il totalitarismo islamico è, nella sua essenza, senza confini. Li vuole distruggere i confini, le frontiere, le nazioni: un'unica ecumene, quella di Dio. Mentre noi occidentali, laudatori della globalizzazione, in realtà, penosamente, continuiamo a ragionare nei limiti dei vecchi confini nazionali: soprattutto quando sono i nostri."

Prosegue mettendo in luce le caratteristiche che fanno dello Stato Islamico qualcosa di nuovo rispetto al passato:

"Oggi l'Internazionale islamista non ha testa, al Baghdadi è soltanto un nome, la pedina di una globalità. La Bestia non è più il serpente che esiste in natura, è il Leviatano, l'idra che rinasce ad ogni testa mozzata, si ricostruisce per partenogenesi. Il commando francese è annientato? Un altro colpirà, senza ricevere ordini, come in una catena di montaggio. Qualche forza militare al servizio dell'Occidente, curdi, sciiti, nigeriani, kenioti, riconquista zone di territorio piegate alla Sharia? La ribellione globale in nome del califfo si reinfiamma in un’altra parte del mondo, non hanno fine le terre del jihad."

Contrariamente a quello che sono in molti a sostenere, da ultimo l'Economist, il califfato globale non può essere facilmente sminuito in quanto "rigurgito medievale". Si configura invece (e l'articolo di Quirico ha il pregio di evidenziarlo distaccandosi per un momento dall'orgia mediatica euro-patriottica in corso) come una struttura a rete, in cui cellule autonome si autorganizzano senza che un centro unico preordini l'azione, e in cui la spinta alla ribellione globale travalica la guerra religiosa (non c'è da stupirsi: qualunque sia il conflitto in atto, nonostante nessuno si richiami al comunismo, si tratta sempre dello scontro tra modi di produzione).

Dell'IS e in generale dei movimenti che operano in Medio Oriente abbiamo discusso molto nelle scorse teleriunioni, notando in primo luogo l'ostinazione da parte dei media occidentali, anche attraverso l'uso reiterato del vecchio acronimo ISIS, a negare la nascita di un vero e proprio stato nell'area mediorientale, che appunto non coinvolge più solo i territori di Iraq e Siria. Per le popolazioni prese di mira dal califfato è infatti certamente preferibile avere la pagnotta quotidiana e un minimo di "welfare" a cui aggrapparsi, piuttosto che vivere/morire di elemosina internazionale nei campi di concentramento. Se poi questo comporta l'andare a pregare in moschea invece che in chiesa o in altro tempio, poco importa, si tratta di un effetto collaterale cui la maggior parte dei "conquistati" si adegua (o paga l'apposito tributo). In tal modo la mappa del territorio islamizzato si allarga a dismisura ben oltre i suoi confini storici, e l'internazionalizzazione dell'esercito informale diventa un fattore di ulteriore espansione. Lo Stato Islamico non è quindi solo uno stato a tutti gli effetti, è diventato anche il punto di riferimento per milioni di persone in lotta contro l'Occidente: hub particolare della rete, con un'estensione territoriale pari a quella dell'Inghilterra, è in grado di influenzare gli altri nodi della rete, a loro volta capaci di autorganizzarsi e lanciare attacchi in giro per il mondo. L'Islam fondamentalista e combattente sembra effettivamente volersi muovere in una sorta di tremendo anonimato internazionalista.

Al fine di mantenere una visione globale degli avvenimenti e sfuggire all'eurocentrismo imperante (i morti bianchi nel "mercato della politica" valgono molto di più di quelli neri), i fatti di Parigi vanno legati a quanto accaduto in Nigeria ad opera di Boko Haram (attacco alla città di Baga). L'impressione che se ne ricava è che il contesto interimperialistico abbia cercato di sfruttare il fenomeno jihadista per poi perderne il feeling. L'attuale operazione occidentale di psico-guerra può essere interpretata come la preparazione al tentativo di riprendere le redini della situazione. Come ciò potrà avvenire non si sa, ma certo l'opzione militare aleggia al di sopra degli innumerevoli Charlie scesi in piazza.

A tal proposito, significativa la dichiarazione di guerra all'IS da parte di Anonymous, anche se i migliori contorsionismi politici sono opera dei sinistri nostrani. Questi ultimi infatti, impegnati nel sostegno dei resistenti curdi di Kobane contro le milizie dell'IS, oggi si trovano nella contradditoria posizione di dover scendere in piazza a fianco di quegli stessi governi che hanno, fino all'altro ieri, combattuto. E' pure rispuntato in Rete chi ancora crede che il marasma sociale in Medio Oriente sia stato costruito ad arte dagli americani, con lo scopo di gettare nel caos quei paesi che si sottraggono al dominio imperialista o che ancora ne sono liberi (!). Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio ribaltamento della realtà, perché il marasma sociale e la guerra in atto sono un prodotto della crisi del capitalismo senile, e gli Stati Uniti svolgono semmai un'azione politico-militare di retroguardia, non certo offensiva, tentando di controllare un mondo sempre più out of control.

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    Nell'articolo "Proletari, schiavi, piccolo-borghesi o... mutanti?", pubblicato sulla rivista n. 4 (2001), descrivevamo una serie di trasformazioni che all'epoca si potevano solo intravedere; allora, infatti, non c'erano i rider, non c'erano i clickworkers e di intelligenza artificiale si parlava poco:

    "La struttura mondiale del lavoro sociale, la socializzazione crescente della forza produttiva umana, non possono non avere effetti materiali sulle forme in cui si manifesta lo sfruttamento. Se la miseria e il sottosviluppo odierni sono fenomeni modernissimi dovuti alla distruzione irreversibile dei rapporti antichi, l'estendersi enorme di rapporti di lavoro atipici nelle aree metropolitane non devono essere considerati fenomeni di regresso: saranno anch'essi a tutti gli effetti il risultato di progresso, quindi, per definizione, riflessi del futuro sul presente in via di liquidazione continua."

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